Corte di Cassazione, Sez. 2, Sentenza n. 33546 del 2018, dep. il 28/12/2018

[…]

FATTI DI CAUSA

[…], con citazione notificata il 23/6/2009, ha convenuto in giudizio, innanzi al tribunale di Torino, […] e la […], deducendo che: – la …, con atto in data …1995, ha venduto il complesso immobiliare costituito da due fabbricati, trasferendo a…, all’epoca coniugato con […], la piena proprietà della quota del 50%, ad […] la nuda proprietà della residua quota del 50% ed a […] ed al marito […], coniugati in regime di comunione legale, il diritto di usufrutto sulla suddetta quota di nuda proprietà della figlia […]; – […] è deceduto l’…1997; – […] e […] hanno stipulato, con contratto di locazione del …1997, poi seguito con altro analogo contratto, con la …; – […], in data … 2008, ha trasferito i suoi diritti sul suddetto complesso immobiliare, pari ad un quarto della piena proprietà, alla […]. L’attrice, quindi, ha assunto che il diritto di usufrutto era entrato a far parte della comunione legale tra i coniugi e che lo stesso, alla morte del marito, si era accresciuto in suo favore, con la conseguenza che l’usufrutto paterno non si era consolidato con la nuda proprietà di […], la quale ne aveva, quindi, disposto in favore della suddetta società senza esserne titolare. L’attrice, quindi, ha chiesto che, tra l’altro, il tribunale: riconoscesse che il diritto di usufrutto era sorto congiuntamente a quello del marito e, quindi, entrambi sul 50% e non ciascuno sul 25%; in via subordinata, riconoscesse l’accrescimento in proprio favore a seguito del decesso del marito; in via ulteriormente subordinata, riconoscesse l’avvenuta usucapione decennale in proprio favore del diritto di usufrutto; conseguentemente, annullasse l’atto di vendita del … 2008 tra […] e la […], quanto meno nella parte in cui la prima aveva alienato un diritto di cui non poteva disporre, corrispondente al 25% della piena proprietà. Le convenute si sono costituite contestando il fondamento delle domande proposte dall’attrice, chiedendone il rigetto. Il tribunale, con sentenza del 12/4/2011, ha rigettato tutte le domande dell’attrice. […], con citazione del 23/11/2011, ha proposto appello, chiedendo la riforma della sentenza. […] si è costituita chiedendo il rigetto dell’appello. […] è rimasta, invece, contumace. La corte d’appello, con la sentenza in epigrafe, ha rigettato l’appello. La corte, in particolare, per quanto ancora rileva, ha rigettato il primo motivo d’appello, con il quale la […] aveva dedotto, tra l’altro, che: l’accrescimento dell’usufrutto è insito, sia pur implicitamente, nel regime di comunione legale sussistente tra l’appellante ed il marito, trattandosi di acquisto rientrante nella comunione ai sensi dell’art. 177, lett. a) c.c.; il contratto di compravendita ha previsto un usufrutto congiuntivo in quanto costituito, in favore del […] e della […], indifferenziatamente sulla quota del 50% e non del 25% per ciascuno. La corte, al riguardo, dopo aver evidenziato che: – la disciplina della comunione legale non prevede un diritto di accrescimento dell’usufrutto di cui i coniugi siano titolari, in difetto di norme che lo prevedano; né l’accrescimento può automaticamente derivare dal fatto che l’usufrutto possa venire a cadere nella comunione, della quale vengono a far parte diritti in relazione al relativo titolo costitutivo ma l’ingresso nella comunione legale non può di per sé comportarne la trasformazione; – il contratto può stabilire che le quote di usufrutto, inizialmente spettanti ai vari compratori, man mano si accrescano, a seguito della morte dei loro titolari o di altre cause di estinzione, alle quote dei contitolari superstiti fino a riunirsi in capo all’ultimo superstite: a tal fine, però, occorre che dall’atto costitutivo risulti, anche implicitamente, ma in maniera inequivoca, la volontà concorde delle parti di prevedere il diritto di accrescimento tra cousufruttuari; ha rilevato, in fatto, che, a mezzo dell’atto pubblico in data ..1995, la … “vende e trasferisce, per la quota di metà (1/2) ai signori […] e […], che accettano ed acquistano per l’usufrutto, e alla signora […] che … accetta ed acquista per la nuda proprietà, e per l’altra quota di metà (1/2) al signor […] che accetta ed acquista“, e che, relativamente al prezzo, il contratto si è limitato a dare atto del suo pagamento da parte degli acquirenti “ognuno per quanto di sua spettanza“, ed ha quindi, osservato: innanzitutto, che la costituzione dell’usufrutto sullo stesso bene in favore di più soggetti non significa, di per sé, che le parti abbiano inteso costituire un usufrutto congiuntivo piuttosto che un mero cousufrutto, soprattutto in considerazione della natura eccezionale del primo; in secondo luogo, che la costituzione dell’usufrutto per una quota complessiva del 50% in favore dei due usufruttuari è dato di per sé ambiguo e non univoco perché compatibile sia con l’usufrutto congiuntivo che con il cousufrutto: per poter qualificare in tali termini il diritto oggetto di causa occorrevano ulteriori elementi che sono, però, da ritenersi insussistenti. Ed infatti, ha aggiunto la corte, “avendo riguardo allo scopo che le parti intendevano perseguire, a differenza della fattispecie di cui alla … sentenza della S.C. 17.11.2011, n. 24108 nella specie non si verte in tema di usufrutto su un intero immobile, ma soltanto su una quota di esso, con la conseguenza che tale diritto non si estende all’intera casa adibita ad abitazione familiare, ma ad una sola quota indivisa degli immobili compravenduti e con l’ulteriore conseguenza che con la compravendita non si intendeva, dunque, garantirne il diretto godimento degli usufruttuari …“.
La corte, quindi, ha, conclusivamente, affermato che, “in difetto di una specifica clausola gli elementi di cui si è dato conto non presentano carattere sufficientemente univoco e concludente per poter configurare l’usufrutto della […] come congiuntivo“.
[…], con ricorso notificato il 23/6/2014, ha chiesto, per un motivo, la cassazione della sentenza della corte d’appello, dichiaratamente non notificata.
Ha resistito, con controricorso notificato il 18/9/2014, la […] la quale ha anche depositato memoria.
[…] è rimasta, invece, intimata.
Fissata l’udienza camerale del 29/5/2018, la Corte ha rimesso la causa alla pubblica udienza del 24/10/2018.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con l’unico motivo di ricorso, la ricorrente, lamentando la violazione e la falsa applicazione degli artt. 177, lett. a), 1362, 1363, 1366 e 1375 c.c., in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c., ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha escluso che l’usufrutto della […] potesse essere qualificato come congiuntivo, così omettendo di interpretare l’atto pubblico con il quale è stata trasferita la nuda proprietà alla […], alla luce dell’intenzione dei contraenti, ben nota alla dante causa della [..]. Se, infatti, ha aggiunto la ricorrente, si tiene conto del tenore della clausola contenuta nell’atto, per la quale la … “… vende e trasferisce, per la quota di metà (1/2) ai signori […] e […], che accettano ed acquistano per l’usufrutto, e alla signora […] che … accetta ed acquista per la nuda proprietà …“, appare evidente che i coniugi, nel mantenere il diritto di usufrutto della quota della quale veniva alienata la nuda proprietà alla figlia […], hanno operato come un unico centro di imputazione e di interessi, senza evidenziare le quote di ciascuno. Del resto, ha aggiunto la ricorrente, alla luce della riforma del diritto di famiglia rientra nella comunione legale dei beni – che, a differenza della comunione ordinaria, è una comunione senza quote nella quale i coniugi sono solidalmente titolari di un diritto avente ad oggetto i beni – anche il diritto di usufrutto, il quale, pertanto, non si estingue alla morte del suo diretto acquirente ma è soggetto al suo accrescimento in favore dell’altro coniuge, fino alla morte di quest’ultimo.
2. Il motivo, com’è evidente, si articola in due censure: la prima riguarda l’interpretazione del contratto, nella parte in cui la corte di merito ha escluso la natura congiuntiva dell’usufrutto costituito in favore dei coniugi […] e […]; la seconda, invece, concerne l’esclusione della natura congiuntiva dell’usufrutto nonostante il suo acquisto da parte di due coniugi in regime di comunione legale dei beni.
3. La prima censura è senz’altro infondata. Premesso che anche per contratto può stabilirsi che le quote di usufrutto, inizialmente spettanti ai vari compratori, si accrescano man mano, in seguito alla morte dei loro titolari o ad altre cause di estinzione che li riguardino, alle quote dei contitolari superstiti fino a riunirsi, tutte, in capo al superstite ultimo (Cass. n. 24108 del 2011, in motiv.), rileva la Corte che, in linea di principio, l’interpretazione di un atto negoziale è tipico accertamento in fatto riservato al giudice di merito, normalmente incensurabile in sede di legittimità, salvo che per omesso esame di un fatto decisivo e oggetto di discussione tra le parti, alla stregua del cd. “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione ai sensi del n. 5 dell’art. 360 c.p.c., nella formulazione vigente ratione temporis, ovvero, ancora, ai sensi dell’art. 360 n. 3, c.p.c., per violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale, previsti dall’art. 1362 e ss. c.c. (Cass. n. 14355 del 2016, in motiv.; Cass. n. 7927 del 2017). Costituisce, in effetti, principio di diritto del tutto consolidato presso questa Corte quello per cui, con riguardo all’interpretazione del contenuto di una convenzione negoziale adottata dal giudice di merito, l’invocato sindacato di legittimità non può avere ad oggetto la ricostruzione della volontà delle parti (Cass. n. 7927 del 2017, in motiv.), che appartiene all’ambito dei giudizi di fatto riservati appunto a quel giudice, ma deve appuntarsi esclusivamente sul (mancato) rispetto dei canoni normativi di interpretazione dettati dal legislatore agli artt. 1362 e ss. c.c. ovvero sul vizio (nella specie, però, non invocato dalla ricorrente) di motivazione nei limiti previsti dal vigente testo dell’art. 360 n. 5 c.p.c. (Cass. 23701 del 2016, in motiv.). Nel caso di specie, la corte d’appello, dopo aver accertato, in fatto, che, con l’atto pubblico del ..1995, la … “vende e trasferisce, per la quota di metà (1/2) ai signori […] e […], che accettano ed acquistano per l’usufrutto, e alla […] che … accetta ed acquista per la nuda proprietà, e per l’altra quota di metà (1/2) al signor […] che accetta ed acquista”, e che, relativamente al prezzo, il contratto si è limitato a dare atto del suo pagamento da parte degli acquirenti “ognuno per quanto di sua spettanza“, ha ritenuto che, “in difetto di una specifica clausola gli elementi di cui si è dato conto non presentano carattere sufficientemente univoco e concludente per poter configurare l’usufrutto della […] come congiuntivo“. Ritiene la Corte che l’interpretazione del contratto che il giudice di merito ha fornito nella sentenza impugnata risulta senz’altro conforme alle norme che presiedono all’interpretazione del contratto e non è, quindi, censurabile per violazione di tali disposizioni. Risponde, in effetti, ad un orientamento consolidato il principio per cui, in sede di interpretazione del contratto, ai fini della ricerca della comune intenzione dei contraenti, il primo e principale strumento è rappresentato dal senso letterale delle parole e delle espressioni utilizzate (Cass. n. 7927 del 2017, in motiv.). Si è, tuttavia, precisato al riguardo che il rilievo da assegnare alla formulazione letterale dev’essere verificato alla luce dell’intero contesto contrattuale. Il giudice, infatti, non può arrestarsi ad una considerazione atomistica delle singole clausole, neppure quando la loro interpretazione possa essere compiuta, senza incertezze, sulla base del “senso letterale delle parole“, giacché per senso letterale delle parole va intesa tutta la formulazione letterale della dichiarazione negoziale, in ogni sua parte ed in ogni parola che la compone, e non già in una parte soltanto (Cass. n. 7927 del 2017, in motiv.; Cass. 23701 del 2016, in motiv.). Il giudice, quindi, deve raffrontare e coordinare tra loro le varie espressioni che figurano nella dichiarazione negoziale, riconducendole ad armonica unità e concordanza (Cass. n. 2267 del 2018; Cass. n. 8876 del 2006). Inoltre, pur assumendo l’elemento letterale una funzione fondamentale nella ricerca della reale o effettiva volontà delle parti, il giudice deve in proposito fare ricorso anche agli ulteriori criteri di interpretazione ed, in particolare, a quelli dell’interpretazione funzionale di cui all’art. 1369 c.c. e dell’interpretazione secondo buona fede o correttezza di cui all’art. 1366 c.c., quali primari criteri d’interpretazione soggettiva, e non già oggettiva, del contratto (Cass. n. 14079 del 2011; Cass. n. 11295 del 2011; Cass. n. 10998 del 2011). Il primo di tali criteri (art. 1369 c.c.) consente di accertare il significato dell’accordo in coerenza, appunto, con la relativa ragione pratica o causa concreta (Cass. n. 11295 del 2011; Cass. 23701 del 2016, in motiv.). L’obbligo di buona fede oggettiva o correttezza ex art. 1366 c.c. si specifica, invece, nel dovere di non suscitare falsi affidamenti e non speculare su di essi, come pure nel non contestare ragionevoli affidamenti comunque ingenerati nella controparte (v. Cass. n. 12235 del 2007; Cass. n. 9628 del 2004): a tale stregua, esso non consente di dare ingresso ad interpretazioni cavillose delle espressioni letterali contenute nelle clausole contrattuali, non rispondenti alle intese raggiunte (v. Cass. n. 11295 del 2011) e deponenti per un significato in contrasto con la ragione pratica o causa concreta dell’accordo negoziale (Cass. n. 7927 del 2017). Assume, dunque, fondamentale rilievo che il contratto venga interpretato avuto riguardo alla sua ragione pratica, in coerenza con gli interessi che le parti hanno specificamente inteso tutelare mediante la stipulazione contrattuale, con convenzionale determinazione della regola volta a disciplinare il rapporto contrattuale ai sensi dell’art. 1372 c.c. (Cass. n. 23701 del 2016). Nessun addebito può, dunque, muoversi, sotto i profili indicati, alla sentenza impugnata se essa, in relazione al testo del contratto ed agli interessi che il contratto ha inteso perseguire, ha ricostruito la volontà delle parti per come fatta palese dal ricorso ai criteri di interpretazione teleologica e sistematica del testo al suo esame. La corte, infatti, ha evidenziato che la costituzione dell’usufrutto sullo stesso bene in favore di più soggetti, per una quota complessiva del 50%, non significa, di per sé, che le parti abbiano inteso costituire un usufrutto congiuntivo piuttosto che un mero cousufrutto, rilevando, in ragione della natura eccezionale del primo, la necessità di ulteriori elementi nella specie, però, insussistenti. Ed infatti, ha aggiunto la corte, “avendo riguardo allo scopo che le parti intendevano perseguire, … nella specie non si verte in tema di usufrutto su un intero immobile, ma soltanto su una quota di esso, con la conseguenza che tale diritto non si estende all’intera casa adibita ad abitazione familiare, ma ad una sola quota indivisa degli immobili compravenduti e con l’ulteriore conseguenza che con la compravendita non si intendeva, dunque, garantirne il diretto godimento degli usufruttuari …“. Del resto, perché si abbia usufrutto congiuntivo occorre che dall’atto costitutivo risulti, anche implicitamente, ma in maniera inequivoca, la volontà concorde delle parti di prevedere il diritto di accrescimento tra cousufruttuari (Cass. n. 24108 del 2011, in motiv., la quale ha ritenuto congruamente motivata la sentenza del giudice di merito che era pervenuto alla conclusione circa la sussistenza di un usufrutto congiuntivo con diritto di accrescimento in ragione della locuzione “loro vita natural durante” e del riferimento della riserva d’usufrutto all’appartamento nel suo complesso e non alla quota indivisa di ciascuno dei venditori). D’altra parte, “per sottrarsi al sindacato di legittimità, l’interpretazione data dal giudice di merito ad un contratto non deve essere l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili, e plausibili, interpretazioni; sicché, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l’altra” (Cass. 27136 del 2017; Cass. n. 6125 del 2014).
4.La seconda censura è del pari infondata. La comunione legale fra i coniugi riguarda, a norma dell’art. 177, comma 1°, lett. a), c.c., gli acquisti, vale a dire tanto gli atti che implicano il trasferimento della proprietà, quanto gli atti che determinano la costituzione di diritti reali sul bene (cfr. Cass. n. 1506 del 2018, in motiv.; Cass. n. 1548 del 2008). Il bene o il diritto acquistato dai coniugi, insieme o separatamente, durante il matrimonio, costituisce, in via automatica, ai sensi dell’art. 177, comma 1, lett. a), c.c., oggetto della comunione tra loro e diventa, quindi, in via diretta, bene o diritto comune ai due coniugi. La comunione legale tra coniugi, peraltro, a differenza della comunione ordinaria, costituisce una comunione senza quote, nella quale, cioè, i coniugi, anche nei rapporti con i terzi, sono solidalmente titolari di un diritto avente ad oggetto tutti i beni di essa (Corte cost. 311 del 1988, per la quale “dalla disciplina della comunione legale risulta una struttura normativa difficilmente riconducibile alla comunione ordinaria. Questa è una comunione per quote, quella e una comunione senza quote; nell’una le quote sono oggetto di un diritto individuale dei singoli partecipanti (arg. ex art. 2825 cod. civ.) e delimitano il potere di disposizione di ciascuno sulla cosa comune (art. 1103); nell’altra i coniugi non sono individualmente titolari di un diritto di quota, bensì solidalmente titolari, in quanto tali, di un diritto avente per oggetto i beni della comunione (arg. ex art. 189, secondo comma). Nella comunione legale la quota non è un elemento strutturale, ma ha soltanto la funzione di stabilire la misura entro cui i beni della comunione possono essere aggrediti dai creditori particolari (art. 189), la misura della responsabilità sussidiaria di ciascuno dei coniugi con i propri beni personali verso i creditori della comunione (art. 190), e infine la proporzione in cui, sciolta la comunione, l’attivo e il passivo saranno ripartiti tra i coniugi o i loro eredi (art. 194)“; nella giurisprudenza di legittimità, cfr. Cass. n. 12923 del 2012, in motiv., la quale, ai fini del compimento da parte di ciascun coniuge di un atto di disposizione dell’intero bene o del diritto comune, ha evidenziato che “la comunione legale tra coniugi costituisce una comunione senza quote, nella quale i coniugi sono solidalmente titolari di un diritto avente ad oggetto tutti i beni di essa e rispetto alla quale non è ammessa la partecipazione di estranei; ne consegue che nei rapporti con i terzi ciascun coniuge, mentre non può disporre della propria quota, ben può disporre dell’intero bene comune …, mentre il consenso dell’altro coniuge si configura come un negozio unilaterale autorizzativo che rimuove un limite all’esercizio del potere dispositivo sul bene e si traduce in un vizio da far valere ai sensi dell’art. 184 c.c., nel termine di un anno decorrente dalla conoscenza dell’atto o dalla data di trascrizione … il consenso del coniuge pretermesso non è atto autorizzativo nel senso di atto attributivo di un potere, ma piuttosto nel senso di atto che rimuove un limite all’esercizio di un potere e requisito di regolarità del procedimento di formazione dell’atto di disposizione, la cui mancanza, ove si tratti di bene immobile o mobile registrato, si traduce in un vizio del negozio: l’ipotesi regolata dall’art. 184 c.c., comma 1, dunque, si riferisce non ad un caso d’acquisto inefficace perché a non domino, bensì ad un caso d’acquisto a domino in base ad un titolo viziato”; conf., Cass. n. 14093 del 2010; Cass. n. 6575 del 2013; di recente, Cass. n. 21503 del 2018, in motiv.). La natura di comunione senza quote della comunione legale dei coniugi permane, tuttavia, solo fino al momento in cui – per effetto, ad esempio, della morte di uno dei coniugi – si verifichi, a norma dell’art. 191 c.c., il suo scioglimento: in tal caso, infatti, venuta meno l’applicabilità delle relative norme, i beni e i diritti che ne fanno parte cadono in comunione ordinaria tra loro (Cass. n. 8803 del 2017) fino alla divisione (in parti necessariamente uguali: Cass. n. 11467 del 2003, in motiv.): ciascun coniuge (ovvero, in caso di morte, i relativi eredi), divenuto titolare della sua quota del diritto o del bene a suo tempo acquisto alla comunione legale, può, in conseguenza, liberamente e separatamente disporne (Cass. n. 8803 del 2017), sempre che non si tratti, come nel caso dell’usufrutto, di un diritto la cui durata non può eccedere la vita del soggetto che ne è il titolare (art. 979, comma 1°, c.c.). In quest’ultimo caso, infatti, la quota di spettanza del coniuge deceduto si estingue, a meno il titolo costitutivo dell’usufrutto non abbia stabilito che tale quota si accresca in capo al coniuge superstite (Cass. n. 24108 del 2011, in motiv.). Ritiene la Corte, in definitiva, che, ove l’atto sia stato stipulato da entrambi i coniugi (nel diverso caso dell’atto di acquisto stipulato da uno solo dei coniugi, infatti, si pone il problema, estraneo alla odierna controversia, di tutelare l’affidamento del nudo proprietario), l’acquisizione del diritto di usufrutto alla comunione legale tra gli stessi permane, nella sua interezza e senza quote, fino allo scioglimento della comunione stessa, allorquando tale diritto cade nella comunione ordinaria tra i coniugi che ne diventano contitolari, ciascuno per la sua quota, fino alla sua naturale estinzione (scadenza del termine o, in mancanza, morte del rispettivo titolare salvo, in quest’ultimo caso, che non sia stato previsto, nel titolo, l’accrescimento in favore del coniuge superstite): tuttavia, ove la comunione legale si sciolga per effetto della morte di uno dei coniugi, la quota di usufrutto spettante a quest’ultimo, non potendo avere una durata superiore alla vita del titolare, si estingue, a meno che, come detto, il titolo non abbia previsto il suo accrescimento in favore del coniuge più longevo.
5. Il ricorso dev’essere, quindi, rigettato.
6.La novità della questione trattata induce la Corte a compensare interamente tra le parti le spese del giudizio. […]