Corte di Cassazione, Sez. 2, Sentenza n. 8147 del 2000, dep. il 15 giugno 2000

[…]

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con citazione 18 maggio 1988, […] espose che con contratto privo di data, denominato “Preliminare di Vendita”, aveva acquistato dalla Immobiliare […] s.a.s., sedente in[…], un capannone di mq.2100 circa, sito in comune di […], per il prezzo di lire 250 milioni, di cui 50 versati al momento della stipula del contratto, 100 da corrispondere a voltura eseguita e la restante somma dopo dieci mesi dall’espletamento di tale formalità. Lamentò che, pur avendo complessivamente corrisposto la somma di lire 146.000.000, con rispetto delle pattuite scadenze, inopinatamente, la società venditrice gli aveva comunicato di ritenere annullato il preliminare per non avere ricevuto le somme dovutele nei termini stabiliti. Convenne, pertanto, in giudizio, la s.a.s. […], in persona del socio accomandatario, davanti al Tribunale di Treviso, cui chiese di dichiarare l’avvenuta conclusione del contratto di compravendita o in subordine di pronunciare sentenza sostitutiva del consenso, facendo egli prontezza a versare il residuo prezzo. La convenuta, costituitasi, eccepì l’inefficacia della scrittura privata poiché sottoscritta soltanto da uno dei liquidatori, i quali, giusta delibera di scioglimento della società e di nomina degli stessi, avrebbero dovuto agire congiuntamente. Nel giudizio così incoato spiegò intervento la s.r.l. […], la quale chiese dichiararsi l’avvenuto trasferimento del bene in suo favore in quanto nominata dal […] ai sensi dell’art. 1401 c.c.
Con sentenza 29 ottobre-22 dicembre1989, il tribunale adito respinse la domanda di attore e interveniente, sul rilievo che la scrittura privata posta a base della loro pretesa era inefficace per non essere stata sottoscritta dai due liquidatori tenuti a operare a firma congiunta; rigettò altra domanda di reintegrazione nel possesso del riferito immobile proposta dalla s.a.s […] in separato giudizio, in seguito riunito a quello avviato dal […].

Investita dei gravami di tutte e tre le parti in causa, la Corte d’appello di Venezia, in accoglimento di quelli proposti dal […] e, in parte qua, dalla […] s.r.l., dichiarava, per quanto ancora rileva in questa sede, che il primo aveva acquistato l’immobile oggetto della scrittura privata. Nel confutare l’eccezione, ritenuta fondata dal primo giudice, relativa alla insufficienza dei poteri rappresentativi del liquidatore che aveva stipulato il contratto, la Corte ha osservato che la limitazione di detti poteri, risultante dalla delibera di scioglimento della società e contestuale nomina dei liquidatori, pur regolarmente depositata per la relativa iscrizione, non era opponibile al terzo […], occorrendo, a tal fine, in virtù dell’art. 2298 c.c. (riguardante le società in nome collettivo, ma applicabile anche alle società in accomandita semplice in forza del richiamo contenuto nell’art. 2315 dello stesso codice) che la limitazione fosse iscritta nei registri di cancelleria presso il tribunale ai sensi dell’art. 100 disp. att. e trans. c. c. Incombente che, nel caso di specie, non era stato espletato, come era possibile desumere dal certificato rilasciato dal dirigente la detta cancelleria in cui risultano indicati i nomi dei due liquidatori […] senza specificazione delle modalità con le quali dovevano agire, cioè se a firma congiunta o disgiunta. D’altra parte, non era stata neanche dedotta in giudizio la prova che il […] fosse a conoscenza dello stato di liquidazione della s.a.s. […] e del fatto che i liquidatori dovevano agire a firma congiunta.

La cassazione della riassunta decisione è stata chiesta dalla […] s.a.s. sulla base di tre motivi, poi illustrati con memoria, ai quali il […] e la […] s.r.l. resistono con controricorso.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo – denunziandosi violazione e falsa applicazione degli artt. 2298, 2310 e 2315 c.c.; 100 e 101 disp. att. c.c. nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, con riferimento all’art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c.- , si censura la sentenza impugnata per avere la Corte territoriale ritenuto che ai fini dell’opponibilità delle limitazioni dei poteri rappresentativi dei liquidatori non sia sufficiente il deposito della relativa delibera presso la cancelleria commerciale del tribunale, occorrendone altresì la specifica iscrizione nel registro delle società ivi (allora) tenuto. Si sostiene in contrario che le modalità dell’iscrizione – regolate, nel regime transitorio, dagli artt. 100 e 101 disp. att. c.c.- non prevedono la specifica indicazione delle limitazioni del potere di rappresentanza, quale onere autonomo rispetto all’obbligo di iscrizione dell’atto che le contempla, ne’ forme di certificazione delle attività compiute come avviene invece, ad esempio, nella pubblicità immobiliare. Tale obbligo deve considerarsi assolto, al pari di altri atti societari soggetti alla pubblicità, esclusivamente mediante il deposito per l’iscrizione, in quanto quest’ultima attività fa carico all’ufficio (cancelleria e, adesso, registro delle imprese) e dovrebbe conseguire automaticamente alla prima. Nelle società personali, in particolare, l’atto costitutivo contiene, oltre che la specificazione del contenuto del potere di rappresentanza dell’amministratore, anche l’indicazione della persona preposta all’amministrazione della società, sì che l’iscrizione nel registro delle imprese dell’atto costitutivo deve stimarsi esauriente anche al fine dell’iscrizione nello stesso registro delle limitazioni del potere di rappresentanza dell’amministratore, eventualmente contenute nell’atto medesimo. Seguendo tale impostazione, poi, l’art. 2298 c.c. non perderebbe la propria rilevanza precettiva polarizzata nel sancire l’opponibilità ai terzi delle limitazioni al potere di rappresentanza risultanti dalla procura (che è atto diverso da quello costitutivo), solo a condizione della sua iscrizione nel registro delle imprese, e nell’estendere ad ogni atto col quale si introducano limitazioni al predetto potere il regime delle modificazioni dell’atto costitutivo. Infatti, nelle società personali, e non anche in quelle di capitali, l’atto di procura, con cui in pratica si intendesse realizzare il conferimento all’amministratore del potere di rappresentanza, potrebbe legittimamente divergere dalle limitazioni che del predetto potere contiene l’atto costitutivo. Pertanto, la seconda parte del primo comma dell’art. 2298 c.c., quando dispone che le limitazioni al potere di rappresentanza dell’amministratore non sono opponibili ai terzi se non sono iscritte nel registro delle imprese, apparentemente detta una regola superflua in considerazione del fatto che, essendo già iscritto l’atto costitutivo, anche le suddette limitazioni sono iscritte, ma in realtà detta una regola utile perché, nel suo contenuto generale e astratto, la norma fa riferimento a tutte le possibili fonti del potere di rappresentanza dell’amministratore, che comprendono anche la procura. Come atto aggiuntivo, e eventualmente diverso nel suo contenuto limitativo del potere di rappresentanza dell’amministratore, la procura potrà costituire oggetto di iscrizione successiva, con l’effetto di superare le limitazioni previste in seno all’atto costitutivo precedentemente iscritto.
Peraltro, nella specie la Corte di merito affermò che il carattere congiuntivo della rappresentanza attribuita ai liquidatori non risultava dal certificato rilasciato dal cancelliere del Tribunale di Treviso e non che il relativo atto non fosse stato iscritto, sicché, a tutto concedere, si sarebbe trattato non di mancanza di pubblicità ma di una occasionale divergenza tra pubblicità e titolo, da correggere facendo prevalere il secondo. Nè, in contrario, varrebbe addurre che a carico dei terzi non può configurarsi un onere di consultazione del titolo da cui promanano i poteri dell’amministratore, poiché, con la sua pubblicizzazione, essi dovevano considerarsi presuntivamente a conoscenza che i poteri di chi agiva spendendo il nome della società erano limitati da quanto stabilito dai soci, circa le modalità della liquidazione, nella loro delibera. Infatti, l’iscrizione di alcuni atti sociali nel registro differisce dal semplice deposito, che la legge richiede invece per altri, soltanto per il fatto che essa pone in evidenza nel registro gli elementi di identificazione dell’atto ma non anche il suo contenuto, la cui conoscenza da parte dei terzi interessati dipende soltanto dalla loro consultazione. In altri termini, la visura del registro serve da guida per il reperimento degli atti da consultare, ma non certamente per la cognizione del loro contenuto. Una diversa modalità di iscrizione-pubblicità può concepirsi solo con riguardo ai fatti soggetti ad iscrizione indipendentemente dagli atti che li producono, e cioè che non devono risultare da atti parimenti soggetti a pubblicità (come è prescritto ad es. dall’art. 2384 c.c. per l’accettazione di nomina da parte degli amministratori).

Con il secondo motivo, la s.a.s. […], deduce, sotto il profilo dell’art. 360, nn.3 e 5, c.p.c., la violazione e la falsa applicazione degli artt. 2310 e 2315 c.c. in relazione all’art.2278 stesso codice, nonché vizi di motivazione su punto decisivo della controversia.
Si addebita alla Corte territoriale di avere fatto perno sul disposto dell’art. 2298 c.c., del tutto trascurando la circostanza per cui la s.a.s. […] era in stato di liquidazione, e, in particolare, che: 1) in caso di nomina di una pluralità di liquidatori, l’attribuzione congiuntiva della rappresentanza è presunta, anche perché più consona alle esigenze e ai caratteri della liquidazione; il solo fatto della nomina di più liquidatori deve comportare, come nella specie, l’inefficacia dell’atto compiuto da uno solo di essi; 2) le norme di cui sopra – le uniche applicabili in materia di liquidazione – non prescrivono alcun onere di pubblicità relativamente al contenuto e all’estensione del potere rappresentativo dei liquidatori, per sua natura assai più circoscritto e limitato rispetto a quello degli amministratori, i quali possono compiere tutti gli atti rientranti nell’oggetto sociale col solo limite di quanto precluso dall’atto costitutivo; 3) quando il terzo contratta con una società posta in istato di liquidazione, le limitazioni derivanti dalle modalità stabilite dai soci, quale quella che attribuisca il potere di rappresentanza congiuntamente ai liquidatori, gli sono opponibili in virtù del solo deposito per l’iscrizione della deliberazione dei soci costituente l’unica formalità pubblicitaria prescritta per la nomina dei liquidatori.

Con il terzo motivo, denunziandosi violazione dell’art. 40 della legge 28 febbraio 1985, n.47 e omessa o insufficiente motivazione su punto decisivo della controversia, si addebita alla Corte veneziana di non aver rilevato d’ufficio la nullità del contratto in questione, qualificato immediatamente traslativo, che non recava gli estremi della concessione in sanatoria dell’immobile compravenduto, dichiaratamente non assentito da concessione edificatoria, e al quale non era stata allegata la copia della relativa domanda con gli estremi dell’avvenuto versamento della oblazione.

Si profila prioritario l’esame del terzo motivo del ricorso, in ragione della antecedenza, nell’ordine logico giuridico delle questioni, dell’eccezione di nullità del contratto, afferendo i primi due motivi a un meno grave aspetto di patologia negoziale, quale l’annullabilità.

Il motivo è fondato.

Vale la pena premettere che la nullità del contratto per contrarietà a norme imperative di legge e per illiceità della causa o dei motivi determinanti e comuni a entrambe le parti – che può discendere tanto congiuntamente quanto disgiuntamente da contrarietà a norme di legge, all’ordine pubblico e al buon costume (artt. 1343, 1345 e 1418 c.c.) – è nullità assoluta che, come tale, “può essere fatta valere da chiunque vi ha interesse e può essere rilevata d’ufficio dal giudice” come espressamente prevede l’art. 1421 c.c. Nel giudizio in cui si chieda l’esecuzione di un negozio, il giudice, cui spetta, in ragione della tutela dei valori fondamentali dell’ordinamento giuridico, verificare d’ufficio la sussistenza delle condizioni dell’azione, deve rilevare d’ufficio la nullità del negozio, in ogni stato e grado del giudizio.
In particolare è acquisito alla giurisprudenza di questa Corte il principio che la nullità assoluta, come l’inesistenza, di un contratto, può rilevarsi d’ufficio anche per la prima volta in cassazione, ove siano acquisiti agli atti tutti gli elementi di fatto dai quali essa possa desumersi (vedi sent. nn. 4649/83; 11/84; 3633/1985; 6418/86; 8576/94; 1981/95).
Tanto premesso, si osserva che l’art. 40, secondo comma, della legge 28 febbraio 1985 n. 47 stabilisce che “gli atti tra i vivi aventi per oggetto diritti reali, esclusi quelli di costituzione, modificazione ed estinzione di diritti di garanzia o di servitù, relativi ad edifici o loro parti, sono nulli e non possono essere rogati se da essi non risultano, per dichiarazione dell’alienante, gli estremi della licenza o della concessione ad edificare o della concessione rilasciata in sanatoria ai sensi dell’art. 31 ovvero se agli atti stessi non viene allegata una copia per il richiedente della relativa domanda, munita degli estremi dell’avvenuta presentazione ovvero copia autentica di uno degli esemplari della domanda medesima, munita degli estremi dell’avvenuta presentazione e non siano indicato gli estremi dell’avvenuto versamento delle prime due rate dell’oblazione di cui al sesto comma dell’art. 35”. Il terzo comma dell’articolo aggiunge che “se la mancanza delle dichiarazioni o dei documenti, rispettivamente da indicarsi o da allegarsi, non sia dipesa dall’insussistenza della licenza o della concessione o dalla inesistenza della domanda di concessione in sanatoria al tempo in cui gli atti medesimi sono stati stipulati, essi possono essere confermati anche da una sola delle parti mediante atto successivo, redatto nella stessa forma del precedente, che contenga la menzione omessa o al quale siano allegate la dichiarazione sostitutiva di atto notorio o la copia della domanda indicate al comma precedente”.
È assolutamente prevalente in dottrina la tesi – accolta anche da questa Corte (sent. n. 1199/97) – che, derivando semplicemente dalla mancata indicazione nell’atto, da parte dell’alienante, degli estremi della concessione (ad edificare o in sanatoria), la nullità prevista dall’art. 40 della legge n. 47/85, al pari di quella contemplata nel precedente art. 17, sia una nullità formale, che suole definirsi “testuale e documentale” (e non nullità virtuale) ed è riconducibile, nel sistema generale dell’invalidità, all’ultimo comma dell’art. 1418 c.c. La legge eleva a requisito formale del contratto la presenza in esso di alcune dichiarazioni ed è la loro assenza che di per sè comporta la nullità dell’atto, a prescindere cioè dalla regolarità dell’immobile che ne costituisce l’oggetto. Ciò in coerenza con il duplice obiettivo perseguito dalla legge di soddisfare l’esigenza di tutela dell’affidamento dell’acquirente e l’esigenza di prevenzione degli abusi.
La sanzione della nullità formale tutela infatti l’affidamento dell’acquirente alla regolarità del bene oggetto del contratto perché egli attraverso la dichiarazione del venditore è adeguatamente informato circa la sua situazione giuridica. La funzione informativa assolta dalla prescrizione di forma presenta inoltre il vantaggio di ridurre le indagini e i costi necessari per accertare la reale conformità del bene alle norme urbanistiche. Ai fini della nullità è invero sufficiente che si riscontri la mancata indicazione nell’atto degli estremi della concessione, senza che occorra interrogarsi sulla reale esistenza di essa. La sanzione della nullità formale, inoltre, persegue contemporaneamente l’obiettivo di disincentivare l’abusivismo. L’indicazione degli estremi della concessione sarebbe infatti preclusa nel caso in cui tale concessione manchi: per tale via, l’irregolarità dell’immobile finisce per riflettersi sulla validità del negozio giuridico che lo riguarda.
Gli atti nulli per la mancata indicazione di quanto richiesto possono essere confermati anche da una sola delle parti con atto successivo, qualora la mancata indicazione non sia dipesa dall’insussistenza della concessione al momento in cui gli atti erano stati stipulati. L’irregolarità del bene non rileva di per sè, ma solo in quanto preclude la conferma dell’atto.
Simmetricamente, la regolarità del bene sotto il profilo urbanistico non rileva in sè, ma solo in quanto consente la conferma dell’atto. Si ritiene da alcuni autori che il combinato disposto delle due norme attribuisca diretta rilevanza, ai fini della validità dell’atto, alla regolarità (sostanziale) del bene, sostenendosi che se il difetto di indicazione degli estremi della concessione nell’atto comporta nullità, a fortiori alla medesima sanzione non potrà sottrarsi l’atto in mancanza di concessione.
Tale tesi, per la quale sarebbero previste una nullità formale (mancata indicazione degli estremi) ed una nullità sostanziale (assenza di concessione), non può seguirsi. Se il legislatore avesse voluto attribuire diretta rilevanza alla non conformità dei beni alla normativa urbanistica, con o senza il “filtro” della prescrizione di forma, si dovrebbe finire per considerare valido, al di là delle indicazioni, l’atto che riguardi beni comunque in regola con le norme urbanistiche. Ma in questo modo si svuoterebbe la portata precettiva delle disposizioni in commento poiché risulterebbe ingiustificata la previsione della conferma contenuta negli artt. 17 e 40; inoltre, si finirebbe per vanificare l’apprezzabile tentativo operato dal legislatore di trovare una soluzione che non solo costituisca uno strumento di lotta contro l’abusivismo, ma che soddisfi anche l’interesse dell’acquirente alla (esatta) conoscenza delle condizioni del bene oggetto del contratto. La conferma ex artt. 17 e 40 legge 28 febbraio 1985, n. 47, ammessa come si è visto solo in presenza di un vizio formale, cioè quando manchi o sia inesatta l’indicazione degli estremi di concessione ad edificare o in sanatoria, senza che ciò sia conseguenza di un vizio sostanziale quale è la totale mancanza del provvedimento concessorio, ha, secondo alcuni autori, un vero e proprio effetto sanante nel senso di far riacquistare validità all’atto originariamente nullo: con questa conferma, si rimuove la causa di nullità del negozio originario. Si configura una situazione indubbiamente singolare e in contrasto col principio dell’insanabilità del negozio nullo che potrebbe chiamarsi validità successiva del contratto (essendo opposta a quella denominata nullità successiva o sopravvenuta). Essa rileva erga omnes, precludendo l’esercizio dell’azione di nullità a chiunque abbia interesse ad eccepirla.
Comunque si voglia vedere questa singolare conferma prevista nella legge n. 47 del 1985, e cioè come vera e propria sanatoria idonea a far riacquistare validità all’atto originariamente nullo, oppure, secondo quanto sostenuto da altri autori, come dichiarazione di scienza con funzione integrativa dell’atto originario, come ipotesi equiparata agli artt. 590 e 799 c. c., come tipico esempio di accertamento negoziale, come, infine, conferma di un atto solo apparentemente nullo, è, pero, ben certo che deve trattarsi di nuovo e distinto atto avente la stessa forma del precedente, mediante il quale si provveda alla comunicazione dei dati mancanti o all’allegazione dei documenti. La legge prescrive, dunque, un atto di conferma o di convalida dell’atto nullo da redigere in forme che non ammettono equipollenti.
Fatte queste premesse, si osserva anzitutto che nella sentenza impugnata l’atto in contestazione, al di là del nome datogli dalle parti, è stato qualificato dai giudici di merito come immediatamente traslativo della proprietà e tale deve essere ormai ritenuto non essendovi stata sul punto impugnazione.
Dalle difese scritte stese dalle parti in questo giudizio di cassazione è dato evincere in primo luogo che, come dichiarato nel contratto dalla società […] s.a.s., l’edificio, in fase di costruzione (pacificamente iniziata dopo il 2 settembre 1967), aveva avuto delle varianti per le quali era stato richiesto il condono edilizio (cfr. controricorso pag.18).
Nel contratto in contestazione, quindi, la società alienante ha dichiarato che l’immobile era abusivo ma non ha indicato gli estremi della concessione rilasciata in sanatoria ai sensi dell’art. 31. Al medesimo atto non è stata nemmeno allegata la copia per il richiedente della relativa domanda, munita degli estremi dell’avvenuta presentazione, ovvero copia autentica di uno degli esemplari della domanda medesima. Nell’atto di vendita, o nei documenti che dovevano essere allegati allo stesso, non risultano indicati gli estremi dell’avvenuto versamento delle prime due rate dell’oblazione di cui al sesto comma dell’art. 35.
Sostengono i resistenti che al momento della stipula del contratto, ed esattamente in data 30 settembre 1985, era stata comunque presentata domanda di concessione in sanatoria, munita degli estremi dell’avvenuta presentazione e dell’indicazione dell’avvenuto versamento dell’oblazione.
Rileva anzitutto la Corte che l’assunto, oltre a non poter essere riscontrato in questa sede di legittimità in quanto implica un’indagine di fatto, appare in realtà contraddetto dalle stesse circostanze narrate a pag.18 del controricorso, ove è dato leggere che: a) la società […] s.a.s. consentì, dopo aver immesso volontariamente il […] nel possesso dell’immobile (intuitivamente dopo la stipula dell’atto), che egli subentrasse nella gestione delle pratiche amministrative per il conseguimento del condono edilizio e della concessione in sanatoria; b) il […] dovette ripresentare la domanda di condono edilizio, essendo stata smarrita la pratica allorché essa venne mandata per il relativo nulla-osta alla Soprintendenza dei Beni Ambientali (particolare da cui può inferirsi che trattavasi quanto meno di variazione essenziale, ai sensi dell’art.8, ultimo comma, legge n.47/85, comportante il rilascio di concessione in sanatoria). Ma a prescindere dalla sua veridicità, l’assunto risulta totalmente ininfluente posto che, per stessa ammissione dei resistenti (confronta pag. 20 del controricorso, primi due righi), la domanda di condono assertivamente riguardante l’immobile de quo non fu allegata al contratto che ne trasferiva la proprietà. Nè ha pregio la deduzione dei resistenti (confronta pag. 20 del controricorso terzo e quarto rigo) secondo cui l’originaria omissione fu in concreto sanata con la produzione della domanda di concessione in sanatoria in corso di causa, e precisamente nella fase cautelare che precedette uno dei due giudizi svoltisi tra le parti e in seguito riuniti, prevedendo l’art. 40 “la possibilità di provvedere alle indicazioni ed allegazioni richieste a pena di nullità anche con atto successivo” Di contro, come sopra ricordato, il terzo comma dell’art. 40 prescrive che, ove la mancanza delle dichiarazioni o dei documenti, rispettivamente da indicarsi o da allegarsi, non sia dipesa dall’insussistenza della licenza o della concessione o dalla inesistenza della domanda di concessione in sanatoria al tempo in cui gli atti medesimi sono stati stipulati, occorre che anche una sola delle parti rediga, nella stessa forma del precedente, un successivo atto confermativo che contenga la menzione omessa o al quale siano allegate la dichiarazione o la copia della domanda indicate al comma precedente. Viene, quindi, richiesto dalla legge un atto di conferma o di convalida dell’atto nullo da redigere in forme che non ammettono equipollenti. In un simile contesto probatorio (deducibile, si ripete, esclusivamente dagli atti defensionali redatti dalle parti nel presente giudizio di cassazione), va pertanto dichiarata la nullità del contratto stipulato dalle parti in quanto contrastante con le disposizioni contenute all’art. 40 della legge 28 febbraio1985, n.47.

Rimangono conseguentemente assorbiti gli altri due motivi del ricorso. La natura delle questioni trattate consente di ravvisare la presenza dei giusti motivi per la totale compensazione tra le parti delle spese di questa fase del giudizio […]