Corte di Cassazione, Sez. 3, Sentenza n. 10490 del 2006, dep. il 08/05/2006

[…]

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione notificato il 31 marzo 1994 […] evocò in giudizio dinanzi al tribunale di Milano la S.p.a. […] in liquidazione, esponendo:
– di aver stipulato con la convenuta, in data 2[…]1989, nella qualità di amministratore della s.a.s. […], un primo contratto di consulenza (avente ad oggetto la valutazione di progetti industriali e di acquisizione di azienda), cui era aveva fatto seguito una seconda convenzione negoziale, sempre conclusa con la […] in data […]1992, con la quale gli veniva riconosciuto, per dette prestazioni, un compenso annuo di L. 240.000.000;
– di essere stato inserito, nell’ambito di tale incarico, tra i componenti degli organi di amministrazione di alcune società facenti capo alla […];
– di avere emesso, il […]1992, una fattura per l’importo di L. 140.000.000 relativo al periodo aprile 1992 – febbraio 1993;
– di non aver ricevuto il saldo delle proprie competenze da parte della convenuta che, con lettera del 21.1.1993, aveva invece contestato l’esecuzione delle prestazioni, mentre egli si era reso nelle more cessionario dalla […] dei crediti sopra indicati.
Nel costituirsi in giudizio, la società convenuta eccepì, tra l’altro, che tutte le attività svolte dal […], sì come descritte nell’atto di citazione, erano da ritenersi tout court assorbite nei compiti a lui spettanti in relazione alle cariche ricoperte nei consigli di amministrazione delle società a lei collegate, rilevando altresì che la […] non aveva mai svolto alcuna reale attività, essendo viceversa un mero schermo societario fittiziamente creato per eludere norme fiscali e contributive.
Il tribunale, ritenuto che il contratto fosse stato stipulato, in realtà, direttamente tra la società convenuta ed il […], e rilevato che nessuna oggettiva diversità era dato rinvenire tra le prestazioni rese da quest’ultimo in esecuzione del predetto contratto e i compiti da lui svolti nella veste di componente del consiglio di amministrazione della […] (identici essendo l’oggetto sociale di quest’ultima e l’oggetto del contratto di consulenza stipulato con il […]), rigettò la domanda, ritenendo nullo il duplice negozio di consulenza per difetto di causa.
Il gravame proposto dal […] avverso tale pronuncia venne rigettato dalla Corte di appello di Milano, che, per quanto ancora di rilievo in sede di giudizio di legittimità, ebbe ad osservare:
– che, pur vera la affermazione dell’appellante secondo cui i due contratti stipulati con la […] costituivano “l’uno la prosecuzione dell’altro”, elementi fattuali inconfutabili (tra i quali, l’accettazione della proposta contrattuale da parte del […] spedita ad un indirizzo diverso dalla sede sociale della […] e il tenore letterale della proposta stessa, ove il […] in prima persona scriveva: “per la collaborazione … mi riconoscerete un compenso … comprensivo delle spese da me sostenute”) rendevano evidente come proprio l’appellante fosse il soggetto che, direttamente e personalmente, assumeva le obbligazioni derivanti dal contratto;
– che, comunque, nel corso del giudizio, non era mai stata contestata l’osservazione, svolta dal tribunale, secondo cui le prestazioni oggetto del contratto erano state opera esclusiva del […] e non di altri soggetti della s.a.s. […] (società che, d’altronde, risultava costituita soltanto da membri della famiglia di, quest’ultimo), di talché, al di là della formale intestazione del contratto del […]1992, l’effettivo contraente era da considerarsi proprio […];
– che, per le ragioni esposte dallo stesso […], il secondo contratto costituiva la prosecuzione del precedente accordo negoziale stipulato il […]1989, accordo da ritenersi a sua volta concluso personalmente dall’appellante e, di conseguenza, soggettivamente simulato;
– che le attività di prestazione contemplate nei due contratti non apparivano sostanzialmente diverse da quelle svolte dal […] nella qualità di amministratore presso le società del gruppo […], sicché, dalla identità di oggetto tra attività di amministratore ed attività di consulenza, discendeva la nullità del contratto “per mancanza di giustificazione concreta”.
Per la cassazione della sentenza della corte d’appello milanese ricorre oggi dinanzi a questa Corte […].
Resiste con controricorso la […].
Le parti hanno entrambe depositato tempestive memorie.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il ricorso, articolato in sei motivi di doglianza, è infondato e va, pertanto, rigettato.
Con il primo motivo, si lamenta violazione ed errata applicazione dell’art. 102 c.p.c. – mancata integrazione del contraddittorio nella pronuncia di simulazione soggettiva.
Il motivo è destituito di giuridico fondamento.
Difatti, secondo la prevalente (anche se non unanime) giurisprudenza di questa Corte di legittimità, la struttura litisconsortile del procedimento di accertamento della fattispecie della simulazione (assoluta o relativa) è a dirsi necessaria soltanto nelle ipotesi in cui detto accertamento abbia a realizzarsi in via principale, e non anche (come nella specie) incidenter tantum, nell’ambito di altro e diverso procedimento (nella specie, di accertamento della nullità di un contratto per impossibilità giuridica dell’oggetto ovvero, più correttamente, per difetto di giustificazione causale concreta dell’atto): in tali sensi, si sono, difatti, espresse le sentenze n. 3727 del 2003, 10841 del 2000, 6214 del 1998 di questa Corte, ed a questa giurisprudenza il collegio ritiene di aderire.
Con il secondo motivo è lamentata la violazione ed errata applicazione degli artt. 1417, 2122, 2729 c.c., sulla prova della simulazione.
Il motivo, prima ancora che privo di pregio giuridico nel merito (esistendo in atti, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, la prova documentale della simulazione relativa soggettiva, costituita dalla dichiarazione unilaterale del […], di cui è cenno in narrativa, che, al di là della sua natura e funzione tipica di elemento della fattispecie contrattuale conclusasi con la […], integra altresì gli estremi del negozio unilaterale di accertamento implicito della consumata interposizione fittizia) deve ritenersi inammissibile in rito.
La (astratta) possibilità di un suo accoglimento, difatti, si infrange in limine contro il consolidato principio, a più riprese affermato da questa Corte, della autosufficienza del ricorso, che deve, come noto, contenere tutti gli elementi utili a valutare il contenuto e la fondatezza dei rilievi mossi alla pronuncia di merito impugnata: ebbene, a fronte della specifica affermazione che si legge in sentenza (folio 6), secondo la quale “in causa non è stata poi contestata l’affermazione fatta dal tribunale che le prestazioni oggetto del contratto siano state svolte esclusivamente dall’appellante e non da altri soggetti della “[…]”, sarebbe stato preciso onere del ricorrente riprodurre, in parte qua, gli atti difensivi dei precedenti gradi di giudizio funzionali alla dimostrazione che tale questione era, viceversa, stata puntualmente e tempestivamente sollevata in quella sede. La totale assenza, in seno all’odierno ricorso, del benché minimo cenno a tali atti processuali ha, come inevitabile conseguenza, la declaratoria di inammissibilità del motivo.
Con il terzo motivo, il ricorrente si duole della violazione ed errata applicazione degli artt. 1312, 2331, 2359 c.c. – carenza di motivazione sull’identità fra la consulenza a […] e le cariche nelle società del gruppo.
Con il quarto motivo, si lamenta, ancora, il vizio di carente e contraddittoria motivazione circa la gratuità dell’incarico all'[…].
I motivi, che possono essere esaminati congiuntamente, attesane la intrinseca connessione, sono infondati.
Essi ripropongono, sotto le vesti del difetto di motivazione, questioni di fatto e di interpretazione contrattuale istituzionalmente devolute, in via esclusiva, al giudice del merito. Ma il procedimento ermeneutico adottato dai giudici milanesi con riferimento al contenuto del complesso tessuto negoziale per il quale è processo, alla luce di una giurisprudenza più che consolidata di questa Corte regolatrice, si sottrae a qualsivoglia sindacato di legittimità che, come noto, non può investire il risultato interpretativo in sè, che appartiene all’ambito dei giudizi di fatto riservati al giudice di merito, ma esclusivamente il rispetto dei canoni legali di ermeneutica e la coerenza e logicità della motivazione addotta (così, tra le tante, di recente, Cass. n. 2074/2002), canoni, nella specie, ampiamente rispettati: l’indagine sul contenuto, la portata, il significato delle convenzioni negoziale intercorse tra le parti, risulta, difatti, perfettamente conforme a diritto, e la critica della ricostruzione della volontà negoziale sì come operata, nella specie, dal giudice di merito si traduce, in realtà, nella mera prospettazione di una diversa (e più gradita) valutazione degli stessi elementi di fatto da quegli esaminati.
Con il quinto motivo viene contestato il vizio di violazione ed errata applicazione dell’art. 1418 c.c.. per essere stata predicata la fattispecie della nullità “sopravvenuta” – in alternativa, la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., ed omessa motivazione in relazione alla preesistenza delle cariche amministrative in capo al ricorrente. Osserva, in particolare, il ricorrente che, a suo avviso, l’espressione adottata dal giudice milanese (“mancanza di giustificazione concreta del contratto”) andava piuttosto intesa nel senso che, a mancare (ovvero a risultare impossibile), fosse in realtà l’oggetto del contratto.
Il motivo è destituito di giuridico fondamento.
Tanto il primo quanto il secondo giudice hanno, difatti, rettamente predicato la nullità della doppia vicenda negoziale collegata sotto il profilo dei difetto causale (così il tribunale milanese), ovvero della mancanza di giustificazione concreta del contratto consulenziale alla luce della sostanziale identità delle prestazioni svolte dal […] una volta nella qualità di amministratore della società, l’altra in quella di consulente esterno ad essa (così la Corte d’appello).
L’affermazione, corretta in punto di diritto, necessitia peraltro, di alcune puntualizzazioni, avendo la parte ricorrente invocato, nella specie, una diversa eziogenesi della nullità negoziale – conseguente, a suo dire, ad una pretesa “impossibilità dell’oggetto” -, atteso che, a suo dire, il tradizionale concetto di causa intesa come “schema economico-giuridico” posto in essere dalle parti non consentiva di affermare che il negozio stipulato tra le parti ne fosse privo, corrispondendo esso allo schema tipico delineato dall’art. 2222 c.c..
Va preliminarmente escluso che la nullità della convenzione negoziale in parola derivi dalla pretesa impossibilità dell’oggetto del contratto, così come opinato dal ricorrente.
È noto come la dottrina manualistica sia solita distinguere, quanto all’oggetto della prestazione dedotta in obbligazione, tra impossibilità fisica e giuridica, definendo fisica la impossibilità derivante da prestazione impossibilis in rerum natura (quale la traditio di una cosa distrutta), giuridica quella che, pur non consistendo di per sè in un illecito (ciò che distingue la prestazione ad oggetto impossibile da quella ad oggetto illecito, come la vendita di banconote contraffatte), è purtuttavia inattuabile in conseguenza di un divieto normativo (quale quello di edificazione violando le distanze legali).
È palese come, nel caso di specie, non ricorra nessuna delle così descritte fattispecie di impossibilità, trattandosi di prestazione (attività di consulenza) possibile tanto nella sua fisicità che sotto il profilo della conformità a norme di diritto, di talché l’assunto difensivo risulta, in parte qua, infondato.
Merita ulteriore considerazione, invece, la questione, del pari sollevata dal ricorrente, della causa del negozio giuridico stipulato tra le parti.
È innegabile che, intesa nel comune significato di “funzione economico sociale” del contratto – secondo un approccio ermeneutico, peraltro, di tipo “astratto” -, il negozio oggetto della presente controversia non possa legittimamente dirsi “privo di causa”, corrispondendo esso, addirittura, ad uno schema legale tipico, quello disegnato dall’art. 2222 c.c..
Ma, a giudizio di questo collegio, la nozione di causa così delineata non corrisponde, nella specie (così come in via di principio generale) a quella che, dopo attenta riflessione della più recente dottrina, deve ritenersi concetto correttamente predicabile con riferimento al profilo oggettivo della struttura contrattuale.
È opinione corrente quella secondo cui la prima elaborazione del concetto di causa (sostanzialmente estranea all’esperienza romana come elemento costitutivo del negozio, che doveva corrispondere essenzialmente a “modelli” formali) sia stata il frutto della riflessione dei giuristi d’oltralpe che, tra il 1625 ed il 1699, distinguendo per la prima volta sul piano dogmatico i contratti commutativi dalle donazioni, individueranno nell’obbligazione di una parte verso l’altra il fondamento della teoria causale (e di qui, l’origine storica della perdurante difficoltà a superare la dicotomia contratto di scambio-liberalità donativa). Gli stessi rapporti tra la causa e gli altri elementi del contratto, apparentemente indiscussi nei relativi connotati di alterità, paiono, nel progressivo dipanarsi del concetto di causa negotii, talvolta sfumare in zone di confine più opache (si pensi alla relazione causa/volontà nei negozi di liberalità; a quella causa/forma ed all’avvicinamento delle due categorie concettuali verificabile nei negozi astratti; a quella causa/oggetto, con le possibili confusioni a seconda della nozione che, di entrambe le categorie giuridiche, ci si risolva di volta in volta ad adottare, oggetto del contratto essendo tanto la rappresentazione ideale di una res dedotta in obbligazione, quanto la res stessa, causa risultando la funzione dello scambio in relazione proprio a quell’oggetto). Tutte le possibili definizioni di causa succedutesi nel tempo (che un celebre civilista degli anni ’40 non esita a definire “oggetto molto vago e misterioso”) hanno visto la dottrina italiana in permanente disaccordo (mentre negli altri paesi il dibattito e’ da tempo sopito), discorrendosi, di volta in volta, di scopo della parte o motivo ultimo (la c.d. teoria soggettiva, ormai adottata dalla moderna dottrina francese, che parla di causa come But); di teoria della controprestazione o teoria oggettiva classica (che sovrappone, del tutto incondivisibilmente, il concetto di causa del contratto con quello di causa/fonte dell’obbligazione); di funzione giuridica ovvero di funzione tipica (rispettivamente intese in guisa di sintesi degli effetti giuridici essenziali del contratto, ovvero di identificazione del tipo negoziale – che consente ad alcuni autori di predicare la sostanziale validità del negozio simulato sostenendone la presenza di una causa, intesa come “tipo” negoziale astratto, sia pur fittizio, quale una donazione, una compravendita, ecc. -); di funzione economico-sociale, infine, cara alla c.d. teoria oggettiva, formalmente accolta dal codice del 42, del tutto svincolata dagli scopi delle parti all’esito di un processo di astrazione da essi (per tacere delle teorie anticausalistiche, di derivazione tedesca, con identificazione della causa nell’oggetto o nel contenuto – Inhalt – del contratto, non indicando il codice tedesco la causa tra gli elementi costitutivi del contratto).
La definizione del codice è, in definitiva, quella di funzione economico-sociale del negozio riconosciuta rilevante dall’ordinamento ai fini di giustificare la tutela dell’autonomia privata (così, testualmente, la relazione del ministro guardasigilli); ma è noto che, da parte della più attenta dottrina, e di una assai sporadica e minoritaria giurisprudenza (Cass. Sez. 1^, 7 maggio 1998, n. 4612, in tema di Sale & lease back) Sez. 1^, 6 agosto 1997, n. 7266, in tema di patto di non concorrenza; Sez. 2^, 15 maggio 1996, n. 4503, in tema di rendita vitalizia), si discorre da tempo di una fattispecie causale “concreta”, e si elabori una ermeneutica del concetto di causa che, sul presupposto della obsolescenza della matrice ideologica che configura la causa del contratto come strumento di controllo della sua utilità sociale, affonda le proprie radici in una serrata critica della teoria della predeterminazione causale del negozio (che, a tacer d’altro, non spiega come un contratto tipico possa avere causa illecita), ricostruendo tale elemento in termini di sintesi degli interessi reali che il contratto stesso è diretto a realizzare (al di là del modello, anche tipico, adoperato). Sintesi (e dunque ragione concreta) della dinamica contrattuale, si badi, e non anche della volontà delle parti. Causa, dunque, ancora iscritta nell’orbita della dimensione funzionale dell’atto, ma, questa volta, funzione individuale del singolo, specifico contratto posto in essere, a prescindere dal relativo stereotipo astratto, seguendo un iter evolutivo del concetto di funzione economico-sociale del negozio che, muovendo dalla cristallizzazione normativa dei vari tipi contrattuali, si volga alfine a cogliere l’uso che di ciascuno di essi hanno inteso compiere i contraenti adottando quella determinata, specifica (a suo modo unica) convenzione negoziale.
Così rettamente intesa la nozione di causa del negozio, appare allora evidente come, nel caso che ci occupa, sia proprio il difetto di causa a viziare irrimediabilmente di nullità il contratto di consulenza, intesa per causa lo scambio di quella ben identificata attività consulenziale, già simmetricamente e specularmene svolta in adempimento dei propri doveri di amministratore, con il compenso preteso dal […].
Con il sesto motivo, infine, il ricorrente si duole infine di una pretesa carenza e contraddittorietà di motivazione in punto di negazione del corrispettivo consulenziale anche per il periodo non coincidente con la carica amministrativa.
Il motivo è del tutto inammissibile, ponendo, da un canto, questioni affatto nuove rispetto a quelle affrontate e decise dalla corte meneghina in sentenza, difettando, dall’altro, del già sopra ricordato requisito della autosufficienza, poiché manca del tutto la pur necessaria trascrizione, in parte qua, dei passi salienti e rilevanti dei relativi atti scritti […]