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RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 10 ottobre 2018, la Corte d’appello di Messina ha confermato la decisione con cui […] era stata condannata alla pena sospesa di mesi tre di arresto e 5.550 Euro di ammenda per i reati, riuniti nel vincolo della continuazione, di cui agli artt. 44, comma 1, lett. b), 93, 94 e 95 d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (d’ora in avanti, T.U.E.) per aver realizzato, in assenza di permesso di costruire (e comunque in difformità da un’autorizzazione ottenuta in sanatoria) ed in violazione delle prescrizioni per la costruzione di opere in zona sismica, un ampliamento dell’abitazione per 16,70 mq., costituito da tettoia chiusa sui lati con pareti in muratura e vetrate non amovibili.
2. Avverso la sentenza di appello, a mezzo del difensore di fiducia, ha proposto ricorso per cassazione l’imputata, deducendo, con il primo motivo, violazione di legge e vizio di motivazione – definita apparente – per aver la Corte territoriale omesso di valutare le doglianze contenute nel gravame limitandosi a richiamare la sentenza di primo grado.
3. Con il secondo motivo, e con memoria contenente motivi aggiunti allo stesso, si deducono violazione della legge sostanziale e processuale, in particolare dell’art. 603 cod. proc. pen., e vizio di motivazione (ritenuta generica ed apparente, anche a fronte della documentazione prodotta a sostegno dell’istanza ed in particolare di una consulenza tecnica di parte) con riguardo al rigetto della richiesta di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale. La stessa, si sottolinea, aveva ad oggetto prove decisive — consistenti nell’audizione testimoniale di chi ebbe ad effettuare la fornitura e posa in opera della struttura in legno oggetto di contestazione ed in una perizia – in quanto volte ad accertare la data di esecuzione delle opere e la natura precaria delle stesse.
4. Con il terzo motivo di ricorso si lamentano violazione di legge, con particolare riguardo alle norme incriminatrici, e vizio di motivazione per essere stati ritenuti i reati contestati, trascurando, con riferimento al reato urbanistico, che si trattava di opere precarie sottratte al regime della concessione edilizia dalla legge regionale n. 4/2003 (in quanto la struttura portante non era stata realizzata in muratura e le poche opere murarie, peraltro in larga parte preesistenti, non incidevano sull’amovibilità, mentre non era intervenuto alcun abbattimento di muratura rispetto all’attiguo vano preesistente). Per la medesima ragione, considerate anche le ridotte dimensioni dell’opera, non era necessaria la preventiva autorizzazione del Genio Civile di Messina, giusta la Disposizione di Servizio n. 235/2008 dell’Ingegnere Capo, non essendo peraltro stato svolto alcun accertamento sulle opere a seguito della denuncia.
Si lamenta, inoltre, che sia stato ritenuto l’elemento soggettivo dei reati, non riconoscendosi la buona fede dell’imputata, che riteneva di aver sanato le opere ed aveva successivamente effettuato una comunicazione di opere interne.
5. Con il quarto motivo si deduce violazione dell’art. 157 cod. pen. e vizio di motivazione per non essere stata dichiarata la prescrizione del reato, benché l’opera fosse stata completata quantomeno nel 2013.
6. Con il quinto motivo si lamentano violazione dell’art. 131 bis cod. pen. e vizio di motivazione per non essere stata riconosciuta la causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto, stante la scarsissima offensività della condotta e la non abitualità del comportamento, tale non potendo ritenersi la violazione di plurime norme incriminatrici in considerazione della stretta connessione tra le stesse esistente.
7. Con gli ultimi due motivi di ricorso si deducono violazione di legge penale (gli artt. 62 bis, 81, 132 e 133 cod. pen.) e vizio di motivazione per essere state rigettate, rispettivamente, l’istanza volta ad ottenere le circostanze attenuanti generiche e la riduzione della pena con concessione dei benefici di legge.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Lo stringato primo motivo di ricorso è inammissibile per assoluta genericità, non essendo stato specificato a quali doglianze proposte con l’appello non sarebbe stata data risposta nella sentenza impugnata. Va ribadito, di fatti, il principio secondo cui è inammissibile il ricorso per cassazione i cui motivi si limitino a lamentare l’omessa valutazione, da parte del giudice dell’appello, delle censure articolate con il relativo atto di gravame, rinviando genericamente ad esse, senza indicarne il contenuto, al fine di consentire l’autonoma individuazione delle questioni che si assumono irrisolte e sulle quali si sollecita il sindacato di legittimità, dovendo l’atto di ricorso contenere la precisa prospettazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto da sottoporre a verifica (Sez. 3, n. 35964 del 04/11/2014, dep. 2015, B. e a., Rv. 264879, che ha evidenziato come l’applicazione del principio sia ancor più necessaria laddove, come nel caso di specie, la sentenza di appello, al cospetto di motivi che si limitano a riproporre questioni già articolatamente esaminate e risolte dal primo giudice, rinvii per relationem alla sentenza di questi, poiché in tal caso l’onere deduttivo del ricorrente non può ritenersi assolto dolendosi di una tale fisiologica evenienza processuale, che diventa patologica solo allorquando la conforme valutazione dissimuli la totale mancanza di motivazione su questioni specifiche all’epoca eccepite in sede di appello e che vanno chiaramente allegate; in senso conforme: Sez. 2, n. 13951 del 05/02/2014, Caruso, Rv. 259704; Sez. 2, n. 9029 del 05/11/2013, dep. 2014, Mirra, Rv. 258962).
2. Il secondo motivo è manifestamente infondato.
Va innanzitutto ribadito che, in tema di rinnovazione, in appello, della istruzione dibattimentale, mentre la decisione di procedere a rinnovazione deve essere specificatamente motivata, occorrendo dar conto dell’uso del potere discrezionale, derivante dalla acquisita consapevolezza della rilevanza dell’acquisizione probatoria, nella ipotesi di rigetto, viceversa, la decisione può essere sorretta anche da una motivazione implicita nella stessa struttura argomentativa posta a base della pronuncia di merito, che evidenzi la sussistenza di elementi sufficienti per una valutazione in ordine alla responsabilità, con la conseguente mancanza di necessità di rinnovare il dibattimento (Sez. 6, n. 5782/2007 del 18/12/2006, Gagliano, Rv. 236064; Sez. 6, n. 40496 del 21/05/2009, Messina e a., Rv. 245009; Sez. 3, n. 24294 del 07/04/2010, D.S.B., Rv. 247872).
In secondo luogo, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, è decisiva quella prova che, confrontata con le argomentazioni contenute nella motivazione, si riveli tale da dimostrare che, ove esperita, avrebbe sicuramente determinato una diversa pronuncia; ovvero quella che, non assunta o non valutata, vizia la sentenza intaccandone la struttura portante (Sez. 4, n. 6783 del 23/01/2014, Di Meglio, Rv. 259323; Sez. 2, n. 21884 del 20/03/2013, Cabras, Rv. 255817).
Con riguardo alla perizia, poi, la stessa non è mai prova decisiva e la sua mancata ammissione non può costituire motivo di ricorso per cassazione ai sensi dell’art.606, comma 1, lett. d), cod. proc. pen., trattandosi di un mezzo di prova “neutro”, sottratto alla disponibilità delle parti e rimesso alla discrezionalità del giudice, laddove l’articolo citato, attraverso il richiamo all’art. 495, comma 2, cod. proc. pen., si riferisce esclusivamente alle prove a discarico che abbiano carattere di decisività (Sez. U, n. 39746 del 23/03/2017, A. e a., Rv. 270936; Sez. 2, n. 52517 del 03/11/2016, Russo, Rv. 268815).
2.1. Ciò premesso, va comunque osservato che la sentenza impugnata motiva sia con riguardo all’inutilità della perizia volta ad accertare la natura precaria delle opere – trattandosi di requisito che la Corte territoriale reputa non illogicamente escluso – sia con riguardo all’inutilità dell’assunzione della richiesta prova testimoniale, avendo argomentato come le fatture emesse nell’anno 2009 dal soggetto indicato come testimone non potessero essere relative all’opera abusiva contestata in imputazione, che fu oggetto di un progetto e di una comunicazione effettuati nell’anno 2011.
3. Il terzo motivo è manifestamente infondato.
3.1. Quanto al reato urbanistico, la sentenza ha fatto corretta applicazione del consolidato principio secondo cui, in tema di reati edilizi, la natura precaria delle opere di chiusura e di copertura di spazi e superfici per le quali l’art. 20 della legge Regione Sicilia n. 4 del 2003 non richiede concessione e/o autorizzazione va intesa secondo un criterio strutturale, ovvero nel senso della facile rimovibilità dell’opera, e non funzionale, ossia con riferimento alla temporaneità e provvisorietà dell’uso, sicché tale disposizione, di carattere eccezionale, non può essere applicata al di fuori dei casi ivi espressamente previsti (Sez. 3, n. 48005 del 17/09/2014, Gulizzi e a., Rv. 261156, fattispecie in cui è stata esclusa la natura precaria della chiusura di due verande mediante mattoni forati legati da malta cementizia, caso simile a quello qui in esame; Sez. 3, n. 16492 del 16/03/2010, Pennisi, Rv. 246771; Sez. 3, n. 35011 del 26/04/2007, Camarda, Rv. 237533).
3.2. Quanto ai reati in materia antisismica, secondo il consolidato orientamento, le disposizioni previste dagli artt. 83 e 95 d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 si applicano a tutte le costruzioni realizzate in zona sismica, la cui sicurezza possa interessare la pubblica incolumità e per le quali si rende pertanto necessario il controllo preventivo da parte della P.A., a prescindere dai materiali utilizzati e dalle relative strutture, nonché, addirittura, dalla natura precaria o permanente dell’intervento (Sez. 3, n. 9126 del 16/11/2016, dep. 2017, Aliberti, Rv. 269303; Sez. 3, n. 48950 del 04/11/2015, Baio, Rv. 266033; Sez. 3, n. 6591 del 24/11/2011, dep. 2012, D’Onofrio, Rv. 252441). A fronte della descrizione del manufatto effettuata dai giudici di merito, non è pertanto dato comprendere perché, secondo la ricorrente, nel caso di specie tale disciplina non dovesse essere seguita, non potendo certo richiamarsi una mera disposizione di servizio dell’autorità amministrativa (Capo del Genio civile di Messina), peraltro avente ad oggetto pergolati o gazebo, vale a dire opere ben diverse da quella in esame. La sentenza impugnata dà inoltre atto che una nota del Genio civile acquisita al fascicolo processuale ha confermato che le caratteristiche dell’opera in esame la rendevano senz’altro soggetta al rispetto della normativa in parola.
3.3. Quanto alla sussistenza dell’elemento soggettivo, la sentenza impugnata (pag. 5) reca non illogica motivazione, valorizzando il fatto che l’imputata realizzò opere ben diverse da quelle precarie oggetto del progetto presentato.
4. Il quarto motivo è generico e manifestamente infondato: la sentenza impugnata è del 10 ottobre 2018 e risulta la sospensione del corso della prescrizione per 129 giorni, sicché, il reato sarebbe stato in allora prescritto se commesso anteriormente ai primi giorni di giugno 2013. Trattandosi di reato accertato il 15 maggio 2014 ed avendo il tecnico comunale riferito che l’opera “era di recentissima fattura”, la conclusione circa la non prescrizione del reato al momento del giudizio d’appello è corretta e logicamente argomentata. Grava, difatti, sul ricorrente che intende retrodatare la data di prescrizione l’onere di fornire prova dell’ultimazione del manufatto (Sez. 3, n. 27061 del 05/03/2014, Laiso, Rv. 259181; Sez. 3, n. 19082 del 24/03/2009, Cusati, Rv. 243765), e la deduzione fatta in ricorso è del tutto generica e non viene evidenziato il travisamento della prova. Anzi, la stessa ricorrente – pur escludendo di aver effettuato modifiche strutturali dopo l’anno 2011 – riconosce di aver successivamente realizzato “piccoli interventi estetici (pitturazione, intonaci)”.
Osserva, al proposito, il Collegio che, per consolidato orientamento, ai fini del decorso del termine di prescrizione, l’ultimazione dei lavori che segna il dies a quo coincide proprio con la conclusione dei lavori di rifinitura interni ed esterni, che comprendono anche gli intonaci (Sez. 3, n. 46215 del 03/07/2018, N., Rv. 274201; Sez. 3, n. 39733 del 18/10/2011, Ventura, Rv. 251424; Sez. 3, n. 48002 del 17/09/2014, Surano, Rv. 261153).
5. La doglianza proposta con il quinto motivo di ricorso, relativa alla mancata declaratoria della non punibilità per particolare tenuità del fatto, è inammissibile per manifesta infondatezza.
E’ ben vero che al proposito il giudice è tenuto a motivare sulle forme di estrinsecazione del comportamento incriminato, al fine di valutarne la gravità, l’entità del contrasto rispetto alla legge e, conseguentemente, il bisogno di pena, essendo insufficiente il richiamo a mere clausole di stile (Sez. 6, n. 18180 del 20/12/2018, dep. 2019, Venezia, Rv. 275940), ma nel caso di specie la Corte territoriale ha adeguatamente argomentato il diniego della causa di non punibilità di cui all’art. 131 bis cod. pen., osservando che il fatto non poteva essere ritenuto di particolare tenuità, attesa la natura e dimensione delle opere.
Si tratta di motivazione effettiva e non illogica, essendosi trattato di un ampliamento dell’edificio realizzato con un corpo aggiunto di mq. 16,70 (in sostanza, una ulteriore camera), costituito da tettoia chiusa ai lati con pareti in muratura e vetrate non amovibili. Diversamente da quanto allega il ricorrente, la sentenza impugnata non ha invece negato l’applicazione dell’istituto richiamando l’abitualità della condotta, profilo che – indipendentemente da come voglia qualificarsi la plurima violazione di norme incriminatrici dipendente da un unico abuso edilizio – non è nella specie dirimente, giusta il principio secondo cui, ai fini dell’esclusione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto è da ritenersi adeguata la motivazione che dia conto dell’assenza di uno soltanto dei presupposti richiesti dall’art. 131-bis ritenuto, evidentemente, decisivo (Sez. 3, n. 34151 del 18/06/2018, Foglietta e a., Rv. 273678; Sez. 6, n. 55107 del 08/11/2018, Milone, Rv. 274647).
6. Del pari inammissibili, perché manifestamente infondati e riferiti a valutazioni di merito non sindacabili in sede di legittimità, sono gli ultimi due , motivi di ricorso.
6.1. Quanto alle circostanze attenuanti generiche, è noto che al proposito il giudice del merito esprime un giudizio di fatto, la cui motivazione è insindacabile in sede di legittimità, purché sia non contraddittoria e dia conto, anche richiamandoli, degli elementi, tra quelli indicati nell’art. 133 cod. pen., considerati preponderanti ai fini della concessione o dell’esclusione (Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, Pettinelli, Rv. 271269; Sez. 2, n. 3896 del 20/01/2016, De Cotiis, Rv. 265826; Sez. 3, n. 28535 del 19/03/2014, Lule, Rv. 259899).
Del resto, premesso che in tema di attenuanti generiche, la meritevolezza dell’adeguamento della pena, in considerazione di peculiari e non codificabili connotazioni del fatto o del soggetto, non può mai essere data per presunta, ma necessita di apposita motivazione dalla quale emergano, in positivo, gli elementi che sono stati ritenuti atti a giustificare la mitigazione del trattamento sanzionatorio (Sez. 1, n. 46568 del 18/05/2017, Lamin, Rv. 271315), quando la relativa richiesta non specifica gli elementi e le circostanze che, sottoposte alla valutazione del giudice, possano convincerlo della fondatezza e legittimità dell’istanza, l’onere di motivazione del diniego dell’attenuante è soddisfatto con il solo richiamo alla ritenuta assenza dagli atti di elementi positivi su cui fondare il riconoscimento del beneficio (Sez. 3, n. 9836 del 17/11/2015, dep. 2016, Piliero, Rv. 266460).
Nel caso di specie – non risultando sufficiente la mera incensuratezza, giusta il chiaro principio espresso nell’art. 62 bis, terzo comma, cod. pen. – la sentenza impugnata valorizza peraltro in termini sfavorevoli il fatto che l’imputata non abbia nelle more rimosso l’opera abusiva.
6.2. Quanto alla determinazione della pena tra il minimo ed il massimo edittale, è noto che essa rientra tra i poteri discrezionali del giudice di merito (Sez. 4, n. 21294 del 20/03/2013, Serratore, Rv. 256197), sicché può essere censurata in sede di legittimità soltanto sul piano del soddisfacimento dell’obbligo di motivazione, per assolvere il quale è sufficiente che il giudice dia conto dell’impiego dei criteri di cui all’art. 133 cod. pen. con espressioni del tipo: “pena congrua”, “pena equa” o “congruo aumento”, come pure con il richiamo alla gravità del reato o alla capacità a delinquere, essendo, invece, necessaria una specifica e dettagliata spiegazione del ragionamento seguito soltanto quando la pena sia di gran lunga superiore alla misura media di quella edittale (Sez. 2, n. 36104 del 27/04/2017, Mastro e a., Rv. 271243). Nel caso di specie, essendo la pena stata contenuta in soli tre mesi di arresto ed Euro 5.500 di multa, vale a dire in termini di gran lunga inferiori alla media edittale, non era necessaria una specifica e dettagliata motivazione da parte del giudice, essendo sufficiente il richiamo al criterio di adeguatezza della pena, nel quale sono impliciti gli elementi di cui all’art. 133 cod. pen. (Sez. 4, n. 46412 del 05/11/2015, Scaramozzino, Rv. 265283; Sez. 4, n. 21294 del 20/03/2013, Serratore, Rv. 256197).
6.3. Generico, da ultimo, è l’incidentale rilievo – che riproduce l’analogo vizio della doglianza proposta con l’atto d’appello – circa la mancata concessione di “tutti i benefici di legge”, essendo stata, peraltro, la pena inflitta sospesa alle condizioni di legge già con la pronuncia di primo grado.
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