Corte di Cassazione, Sez. 3, Sentenza n. 46475 del 2017, dep. Il 10/10/2017

[…]

RITENUTO IN FATTO

1. È impugnata la sentenza indicata in epigrafe con la quale la Corte di appello di Lecce ha confermato quella emessa dal tribunale di Brindisi che aveva ritenuto la ricorrente colpevole del reato di cui all’art. 44 lett. c) d.p.r. 6 giugno 2001, n. 380, così specificata la contestazione di cui al capo 1) della rubrica, e del reato ascrittole al capo 2) e, ritenuta la continuazione, l’ha condannata alla pena, condizionalmente sospesa, di un mese di arresto e 35.000,00 euro di ammenda, ordinando, tra l’altro, la rimessione in pristino dello stato originario dei luoghi, ove altrimenti non eseguita, a spese della ricorrente.
La quale è accusata (capo 1) del reato previsto dall’articolo 44, comma 1, lettera b), qualificato ex lettera c), d.p.r. n. 380 del 2001 perché, nella qualità di proprietaria dell’immobile sito in […], realizzava opere di edilizia difformi dal permesso a costruire, rilasciato dal Comune di […], in particolare: a) ampliamento del vano soggiorno e del vano cucina mediante la chiusura della veranda esistente per una superficie di 11,40 mq. circa; b) ampliamento della veranda di 12,90 mq. circa in più rispetto alla superficie approvata; c) cambio della destinazione d’uso del vano ubicato nel sottoscala, da ripostiglio a bagno, con modifica di una porta in finestra; d) realizzazione di una finestra nel vano cucina; e) abbattimento del muro divisorio posto a confine con l’altrui proprietà nonché (capo 2) del reato previsto dall’articolo 181 d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, in relazione all’art. 44 lett. c) D.P.R. 380 del 2001 perché effettuava i lavori, di cui al capo precedente, in zona sottoposta a vincolo paesaggistico ed in assenza della prescritta autorizzazione. In […], il 15 giugno 2011. 2. Per l’annullamento dell’impugnata sentenza la ricorrente, tramite il difensore, solleva tredici motivi di impugnazione, qui enunciati, ai sensi dell’articolo 173 delle disposizioni di attuazione al codice di procedura penale, nei limiti strettamente necessari per la motivazione.
Con essi denuncia:
1) la violazione degli articoli 36, comma 3, 42, 43, comma 1, del codice di procedura penale, nonché degli articoli 33, 178, lettera a), 179, stesso codice, con riferimento all’articolo 606, comma 1, lettere b), c) ed e), del codice di procedura penale per violazione di legge, inosservanza di norme processuali stabilite a pena di nullità, abnormità dei provvedimenti impugnati, mancanza e illogicità manifesta della motivazione risultante dal testo del provvedimento impugnato, in relazione alla omessa procedura di astensione e di sostituzione del Collegio della Corte di Appello di Lecce, Sezione Unica Penale, il quale, con ordinanza emessa all’udienza del 23 maggio 2016, rilevata una causa di incompatibilità, si era autonomamente e unilateralmente spogliato del processo, e, di propria iniziativa e direttamente, aveva assegnato il processo ad altro Collegio, al quale gli atti erano stati direttamente trasmessi mediante un mero rinvio della udienza, in assenza della prescritta dichiarazione di astensione che andava presentata al Presidente della Corte di Appello di Lecce, competente, funzionalmente e in via esclusiva, a deliberarne la fondatezza e, in caso di accoglimento, dichiarare se e in quale parte gli atti compiuti dai giudici astenutisi conservavano efficacia, e dunque a provocare la sostituzione dei giudici astenuti con altri magistrati dello stesso Ufficio.
Osserva come la sentenza impugnata, con argomentazioni manifestamente infondate in diritto e già contrastate dalla giurisprudenza di legittimità, abbia tentato arbitrariamente di estendere la regola prevista per le anomalie in tema di “formazione dei Collegi” e “criteri tabellari di assegnazione degli affari” — in base alla quale esse incidono sulla capacità del giudice, con conseguente nullità, ex articolo 178, lettera a), del codice di procedura penale, solo quando siano volte a eludere o violare il principio del giudice naturale precostituito per legge ovvero quando siano caratterizzate dall’arbitrio nella designazione del giudice — al diverso caso della violazione delle norme sul procedimento di astensione e di sostituzione del giudice incompatibile, ex articoli 36 e ss. del codice di procedura penale, caso che comporta la nullità e/o abnormità degli atti atteso che evidentemente attiene non solo all’assetto organizzativo ovvero amministrativo dell’Ufficio giudiziario, ma anche al tradizionale principio di garanzia costituzionale del giudice precostituito per legge, nonché di terzietà e imparzialità del giudice, nel senso che l’astensione del giudice incompatibile si sostanzia non già in un atto unilaterale abdicativo, ovvero arbitrario, da parte del giudice designato per la trattazione del processo, bensì in una domanda di astensione che va presentata al Capo dell’Ufficio giudiziario (nella specie il Presidente della Corte di Appello di Lecce), legittimato funzionalmente e in via esclusiva a deliberarne la fondatezza e, in caso di accoglimento, a dichiarare se e in quale parte gli atti compiuti dai giudici astenutisi conservino efficacia, e a provocare la sostituzione dei giudici astenutisi con altri magistrati dello stesso Ufficio;
2) la violazione degli articoli 601, 429, 178, lettera c), 179, del codice di procedura penale, con riferimento all’articolo 606, comma 1, lettera c), stesso codice per l’inosservanza di norme processuali stabilite a pena di nullità, in relazione alla omessa citazione dell’imputata per il giudizio di appello alla udienza del 25 maggio 2016 dinanzi alla Corte di Appello di Lecce, in composizione diversa rispetto a quella dinanzi alla quale era stato fissato il processo, sul rilievo che erroneamente è stata rigettata la questione sollevata in parte qua;
3) la violazione degli articoli 521 e 522 del codice di procedura penale, con riferimento all’articolo 606, comma 1, lettera c), del codice di procedura penale, per violazione del principio di correlazione tra la imputazione contestata al capo sub 1) del decreto di citazione diretta a giudizio e la sentenza impugnata, sul rilievo che la imputata era stata tratta a giudizio con la imputazione, contestata al capo sub 1) del decreto di citazione diretta a giudizio, per il reato di cui all’articolo 44, lettera b), d.p.r. n. 380 del 2001 mentre, con la sentenza impugnata, è stata condannata per il fatto – reato, diverso, ex articolo 44, lett. c), d.p.r. n. 380 del 2001, per avere realizzato opere edilizie “in assenza del permesso a costruire”.
Sottolinea in particolare che, sul piano formale e sostanziale, e degli elementi costitutivi dei fatti di reato in questione (elemento oggettivo, condotta ed elemento psicologico), un conto è la realizzazione di opere edilizie difformi dal permesso di costruire, contestata al capo sub 1) della imputazione; altro conto è la realizzazione di opere edilizie in assenza del permesso di costruire.
In altre parole, entrambi i fatti hanno in comune solo l’estremo della “realizzazione di opere edilizie”, ovvero il dato formale, ma si differenziano in quanto, nel fatto di reato contestato requisito rilevante o elemento costitutivo è la “difformità totale” delle opere rispetto al titolo abilitativo esistente mentre nel fatto di reato ritenuto in sentenza requisito rilevante o elemento costitutivo sarebbe la “assenza” del titolo abilitativo.
Peraltro, la difesa dell’imputata è stata svolta e si è incentrata, sostanzialmente, sulla imputazione relativa alla “difformità” delle opere edilizie dal permesso di costruire, così come contestata al capo sub 1) della rubrica;
4) la violazione dell’articolo 44, comma 1, lettere b) e c), d.p.r. n. 380 del 2001, con riferimento all’art. 606, comma 1, lettere b) ed e), del codice di procedura penale, per mancanza dell’elemento materiale — oggettivo sia del reato ritenuto in sentenza (realizzazione di opere edilizie in assenza del permesso di costruire), sia del reato contestato (realizzazione di opere edilizie difformi dal permesso a costruire) e per l’illogicità e la contraddittorietà della motivazione su punti decisivi per il giudizio. Premette che l’esistenza di un titolo abilitativo genetico all’esecuzione delle opere è comprovato dalla domanda di sanatoria e dal relativo permesso di costruire in sanatoria del 23.1.2015, n. […], desumendosi da ciò anche la mera difformità parziale delle opere edilizie rispetto a quanto assentito con permesso di costruire n. […] prot. n. […]/2010.
Aggiunge, quindi, come risulti documentalmente provato che la domanda di sanatoria sia stata presentata in relazione a opere edilizie eseguite in difformità rispetto al permesso di costruire esistente ([…]), e non “sull’evidente presupposto della effettiva esecuzione dei lavori in assenza di titolo abilitativo”, come erroneamente sostenuto nella sentenza di primo grado.
Inoltre, contrariamente a quanto affermato nella sentenza impugnata, esisteva anche l’autorizzazione paesaggistica, n. […] del 2011, acquisita al fascicolo del dibattimento. Già per queste sole ragioni, e alla luce delle dichiarazioni testimoniali, degli atti e documenti richiamati nel ricorso, la sentenza impugnata sarebbe erronea, oltre che contraddittoria, illogica e priva di motivazione, in relazione al capo con cui ha ritenuto integrato il reato urbanistico in relazione alla realizzazione di opere edilizie in assenza del permesso di costruire che, invece, esisteva, così come esisteva l’autorizzazione paesaggistica, n. […] del 2011.
Infatti, alla ricorrente era stato contestato di aver eseguito lavori in mera difformità dal permesso di costruire, laddove esclusivamente la totale difformità avrebbe giustificato il ricorso alla leva penale mediante l’attribuzione del reato urbanistico e di quello paesaggistico, circostanze non solo non contestate (alla ricorrente si rimprovera solo la mera difformità dal permesso di costruire) ma neppure minimamente provate (non essendo stato assolto l’onere probatorio relativo all’esecuzione dei lavori in totale difformità dal permesso di costruire);
5) la violazione del dell’articolo 44, comma 1, lettere b) e c), d.p.r. n. 380 del 2001, con riferimento all’art. 606, comma 1, lettere b) ed e) del codice di procedura penale per l’erronea applicazione della legge penale nonché per l’illogicità e la contraddittorietà della motivazione su punti decisivi per il giudizio, nella parte in cui la sentenza impugnata ha affermato che l’apertura di finestre nel muro perimetrale esterno di un edificio non costituisce intervento di manutenzione straordinaria, bensì opera per la cui realizzazione è necessario il rilascio del permesso di costruire, oltre che dell’autorizzazione paesaggistica.
Obietta la ricorrente che, nei motivi di appello, era stato osservato che non potevano emergere e non emergevano abusi relativi alle opere edilizie descritte alle lettere c), d), e) del capo sub 1) della rubrica, atteso che, come dall’acquisito testimoniale, le opere descritte alle lettere c), d), e) fossero preesistenti all’acquisto dell’immobile da parte della ricorrente. Alla luce di ciò doveva essere evidente l’insussistenza delle opere descritte alle lettere c), d), e) del capo sub 1) della rubrica come effettivamente abusive, e comunque vi erano tutti i presupposti per l’esonero di responsabilità della ricorrente, trattandosi di opere abusive preesistenti all’acquisto dell’immobile da parte di quest’ultima.
Neppure dette opere necessitavano del permesso di costruire, trattandosi di opere interne o a queste equiparabili, e neppure le stesse avevano realizzato un mutamento della destinazione di uso penalmente rilevante;
6) la violazione del dell’articolo 44, comma 1, lettere b) e c), d.p.r. n. 380/2001, con riferimento all’art. 606, comma 1, lettere b) ed e) del codice di procedura penale per l’erronea applicazione della legge penale nonché per l’illogicità e la contraddittorietà della motivazione su punti decisivi per il giudizio, nella parte in cui è stata confermata la condanna in relazione alla realizzazione dell’opera contestata alla lettera c) del capo di imputazione nonostante il teste, agente di P.G., alla udienza del 23.4.2014, nell’elencare le presunte difformità riscontrate, non aveva fatto alcun riferimento a quella contestata alla lettera c) del capo di imputazione (cfr., pag. 4 verbale di udienza del 23.4.2014);
7) la violazione del dell’articolo 44, comma 1, lettere b) e c), d.p.r. n. 380/2001, con riferimento all’art. 606, comma 1, lettere b) ed e) del codice di procedura penale per l’erronea applicazione della legge penale nonché per l’illogicità e la contraddittorietà della motivazione su punti decisivi per il giudizio, nella parte in cui non ha dichiarato la estinzione del reato contestato al capo sub 1) della rubrica, a seguito della sanatoria intervenuta con permesso di costruire in sanatoria, n. […] del 23.1.2015, acquisito al fascicolo del dibattimento.
Aggiunge che la imputata ha provveduto al ripristino dello stato dei luoghi conformemente a quanto assentito con il permesso di costruire indicato al capo di imputazione, come asseverato dal tecnico, geom. […], con asseverazione del 17.11.2014 e del 13.4.2015, acquisite al fascicolo del dibattimento. Pertanto, il reato contestato si è estinto;
8)1a violazione del dell’articolo 44, comma 1, lettere b) e c), d.p.r. n. 380 del 2001, con riferimento all’art. 606, comma 1, lettere b) ed e) del codice di procedura penale per l’erronea applicazione della legge penale nonché per l’illogicità e la contraddittorietà della motivazione su punti decisivi per il giudizio, per mancanza dell’elemento costitutivo del reato paesaggistico ex articolo 181 D.Lgs. n. 42 del 2004.
Alla imputata è contestato, al capo sub 2) della imputazione, ed è stato ritenuto in sentenza, il reato paesaggistico ex articolo 181 D.Lgs. n. 42/2004, in “in assenza della prescritta autorizzazione”, laddove vi era l’autorizzazione paesaggistica n. […] del 2011, acquisita al fascicolo del dibattimento.
9) la violazione dell’articolo 181 D.Lgs. n. 42 del 2004, con riferimento all’art. 606, comma 1, lettere b) ed e) del codice di procedura penale per l’erronea applicazione della legge penale nonché per l’illogicità e la contraddittorietà della motivazione su punti decisivi per il giudizio, in relazione alla intervenuta estinzione del reato paesaggistico ai sensi dell’art. 181, comma 1-ter, D.Lgs. n. 42 del 2004.
Parimenti erroneo sarebbe il capo della sentenza che non ha ritenuto estinto il reato paesaggistico, il quale, ai sensi e per gli effetti dell’articolo 181, comma 1-ter, D.Lgs. n. 42 del 2004, si è estinto a seguito dell’accertamento di compatibilità paesaggistica emesso dall’Autorità competente con nota protocollo 0019794 del 5.11.2012, acquisita al fascicolo del dibattimento;
10) la violazione dell’articolo 181 D.Lgs. n. 42 del 2004, con riferimento all’art. 606, comma 1, lettere b) ed e) del codice di procedura penale per l’erronea applicazione della legge penale nonché per l’illogicità e la contraddittorietà della motivazione su punti decisivi per il giudizio, in relazione alla mancanza dell’elemento costitutivo del reato paesaggistico, con riguardo alle opere edilizie elencate alle lett. c), d), e) del capo di imputazione, ai sensi dell’articolo 149, comma 1, lettera a), D.Lgs. n. 42 del 2004 posto che, come evidenziato nei motivi di appello, i lavori contestati alle lett. c), d), e) del capo di imputazione rientrano nella categoria degli “interventi di manutenzione straordinaria”, per la cui realizzazione, ai sensi dell’art. 149, comma 1, lettera a), D.Lgs. n. 42 del 2004, non è necessaria l’autorizzazione paesaggistica, conseguendo da ciò che il reato paesaggistico contestato e ritenuto in sentenza non sussiste;
11) la violazione dell’articolo 181 d.lgs. 42 del 2004, con riferimento all’art. 606, comma 1, lettere b) ed e) del codice di procedura penale per l’erronea applicazione della legge penale nonché per l’illogicità e la contraddittorietà della motivazione su punti decisivi per il giudizio, in relazione all’estinzione del reato paesaggistico contestato al capo sub 2), ai sensi dell’art. 181, comma 1- quinquies, D.Lgs. n. 42 del 2004 atteso che la ricorrente ha provveduto al ripristino dello stato dei luoghi, come è risultato documentalmente provato dalle asseverazioni richiamate nel ricorso e acquisite al fascicolo del dibattimento.
12) la violazione dell’articolo 181 D.Lgs. n. 42 del 2004, con riferimento all’art. 606, comma 1, lettere b) ed e) del codice di procedura penale per l’erronea applicazione della legge penale nonché per l’illogicità e la contraddittorietà della motivazione su punti decisivi per il giudizio, in relazione alla non sussistenza del reato paesaggistico contestato, atteso che le opere contestate non sono idonee a compromettere o alterare il paesaggio e, pertanto, non sarebbe configurabile la lesione del bene tutelato dalla norma di cui all’articolo 181 D.Lgs. n. 42 del 2004. Infatti, l’organo competente ha attestato che l’intervento in questione “… non determina significativo pregiudizio ai valori paesaggistici dell’area interessata”;
13) la violazione degli articoli 62-bis e 133 del codice penale, con riferimento all’art. 606, comma 1, lettere b) ed e) del codice di procedura penale per l’erronea applicazione della legge penale nonché per l’illogicità e la contraddittorietà della motivazione su punti decisivi per il giudizio, con riguardo al diniego delle circostanze attenuanti generiche.
Osserva che la sentenza impugnata non ha riconosciuto le attenuanti generiche ritenendo di non ravvisare elementi idonei a invalidare la valutazione del giudice di primo grado, il quale aveva negato le dette attenuanti “in assenza di elementi positivamente valutabili”.
Obietta la ricorrente che, in relazione a tale capo, la sentenza sarebbe erronea, oltre che priva della necessaria motivazione, atteso che, con formula di stile, senza indicare gli “elementi positivamente valutabili”, né tanto meno quelli sfavorevoli, ha negato le circostanze generiche ex articolo 62-bis del codice penale, benché sussistessero elementi, anche ai sensi dell’art. 133 del codice penale, idonei a riconoscere le dette circostanze (stato di incensuratezza, mancanza di sottoposizione ad altri procedimenti penali, mancanza della capacità a delinquere, non eccessiva gravità oggettiva dell’abuso, concessione del permesso in sanatoria, ripristino dello stato dei luoghi), con la conseguenza che la sentenza impugnata non avrebbe tenuto conto di alcuno dei suddetti elementi favorevoli al riconoscimento delle attenuanti generiche, né tanto meno avrebbe indicato alcun elemento di segno contrario.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è inammissibile per manifesta infondatezza e, in taluni casi, anche per aspecificità e perché fondato su censure di merito il cui ingresso non è consentito nel giudizio di legittimità.
2. Quanto al primo motivo, è esatta l’affermazione della ricorrente secondo la quale la giurisprudenza di legittimità, in passato, si era espressa nel senso di ritenere affetti da nullità assoluta gli atti compiuti dal giudice investito della regiudicanda direttamente da quello originariamente designato per la trattazione del processo e che si era spogliato in via unilaterale dell’affare assegnatogli una volta rilevata la sua incompatibilità ex art.34, comma secondo-bis, cod. proc. pen., tanto sul rilievo che il dubbio di incompatibilità comporta l’obbligo del giudice designato di astenersi e di attivare la procedura di cui all’art. 36 cod. proc. pen., la cui osservanza non attiene soltanto all’assetto ordinatorio ed organizzativo dell’ufficio giudiziario, ma è anche funzionale alla garanzia costituzionale della precostituzione per legge e della terzietà ed imparzialità del giudice (Sez. 1, n. 45378 del 12/10/2004, Antonini, Rv. 230363). Questo indirizzo era stato preceduto da altro collegato orientamento in base al quale quando, nell’ambito dello stesso ufficio giudiziario, un giudice si sostituisce arbitrariamente a quello designato per legge ad assumere un determinato provvedimento, si verifica una situazione sostanzialmente analoga a quella dell’incompetenza per materia, così che l’atto emesso dal giudice che non era funzionalmente competente è affetto da nullità insanabile ed assoluta, rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del processo (Sez. 1, n. 11791 del 20/11/1997, Gorgoglione, Rv. 209069).
Tuttavia, la giurisprudenza di legittimità si è motivatamente discostata da tali orientamenti assumendo, anche recentemente, posizioni che possono dirsi del tutto consolidate ed univoche mediante indirizzi che il Collegio condivide ed ai quali intende dare continuità.
E’ stato infatti affermato che non è nullo (Sez. 5, n. 39379 del 22/06/2012, Garino, Rv. 254318) e neppure abnorme l’atto con cui il giudice, in ragione del precedente compimento di attività che ne determina per legge l’incompatibilità, trasmetta gli atti del procedimento direttamente ad altro giudice per la sua trattazione, senza osservare le disposizioni riguardanti la procedura di sostituzione prevista dall’art. 36 cod. proc. pen. (Sez. 6, n. 38666 del 29/09/2011, Scalor, Rv. 251053).
Nel pervenire a tale conclusione, la Corte si è confrontata con il precedente indirizzo sottolineando come la prevalente giurisprudenza di legittimità avesse uniformemente ritenuto che, nel caso di inosservanza delle norme riguardanti la procedura per la sostituzione del giudice astenuto, non sussiste la nullità assoluta prevista dalla lettera a) dell’articolo 178 del codice di procedura penale (Sez. 5, n. 41261 del 17/09/2008, Ciurea, Rv. 241931; Sez. 6, n. 49988 del 02/12/2004, Von Pinoci, Rv. 230227; Sez. 3, n. 4750 del 27/11/2001, dep. 2002, Padula, Rv. 221055; Sez. 4, n. 1589 del 10/10/2001, dep. 2002, Ozdemir, Rv. 220385; Sez. 2, n. 10474 del 04/04/1997, Migliorisi, Rv. 210455; Sez. 1, n. 3831 del 07/03/1994, Toso, Rv. 196990), tanto sul presupposto che tale peculiare nullità attiene alla sola capacità generica del giudice prevista dal primo comma dell’articolo 33 del codice di procedura penale (quella cioè che concerne la nomina e l’ammissione alla funzione giurisdizionale), non riguardando invece la capacità specifica presa in considerazione dall’articolo 33, comma 2, del codice di procedura penale, in cui si fa riferimento alla regolare costituzione del giudice in un determinato processo con esplicito richiamo alle disposizioni sulla sua destinazione agli uffici giudiziari e alle sezioni, sulla formazione dei collegi e sull’assegnazione dei processi a sezioni, collegi e giudici (contesto ordinamentale richiamato dall’articolo 43, comma primo, del codice di procedura penale), la cui violazione è espressamente esclusa dalla nullità.
La conseguenza è che le deduzioni della ricorrente sono, sul punto, del tutto aspecifiche, perché il ricorso si limita a richiamare i principi affermati dalla sentenza Antonini ma non si cura di considerare l’opposto e prevalente indirizzo che, facendo leva sulla differenza esistente tra capacità generica e capacità specifica del giudice, consente di ancorare, in ossequio al principio di tassatività, la causa di nullità esclusivamente alle violazioni concernenti la capacità generica del giudice, ossia ad una fattispecie che pacificamente esula da quella oggetto di denuncia con il ricorso. Né il principio di diritto in precedenza esposto entra in collisione con l’orientamento secondo il quale le irregolarità in tema di formazione dei collegi incidono sulla capacità del giudice, con conseguente nullità ex art. 178, lett. a), cod. proc. pen., solo quando sono volte ad eludere o violare il principio del giudice naturale precostituito per legge, attraverso assegnazioni “extra ordinem” perché del tutto al di fuori di ogni criterio tabellare (Sez. 6, n. 39239 del 04/07/2013, Rossoni, Rv. 257087; Sez. 3, n. 38112 del 03/10/2006, Magni, Rv. 235030; Sez. 1, n. 16214 del 05/04/2006, Moccia, Rv. 234216).
Affinché ciò si verifichi, occorre che siano comprovate situazioni straordinarie, caratterizzate dall’assoluto arbitrio nella designazione del giudice e dirette, al di fuori di ogni previsione tabellare, a costituire un giudice “ad hoc”, in aperta violazione del principio del giudice naturale precostituito per legge, determinandosi in tal modo uno stravolgimento dei principi e dei canoni essenziali dell’ordinamento giudiziario (Sez. 6, n. 46244 del 15/11/2012, Filippi, Rv. 254284).
Si tratta di situazioni che, all’evidenza, si discostano dal caso in esame dove è emerso che i componenti dell’originario Collegio, avendo emesso una precedente sentenza, erano risultati incompatibili alla celebrazione del processo e che perciò gli atti del procedimento erano stati trasmessi, con motivata ordinanza, innanzi ad altro Collegio della stessa Corte di appello, diversamente composto e ordinariamente precostituito, al pari del precedente Collegio risultato incompatibile, per la trattazione del processo sulla base delle generali previsioni tabellari, cosicché alcuno stravolgimento dei principi e dei canoni essenziali dell’ordinamento giudiziario è possibile ipotizzare.
La ricorrente infatti si duole esclusivamente del mancato innesco della procedura prevista dall’articolo 36 del codice di procedura penale, ossia del fatto che la dichiarazione di astensione non sia stata presentata al presidente della Corte di appello che avrebbe dovuto decidere su di essa ma ciò non integra, per la richiamata giurisprudenza di legittimità, alcuna causa di nullità.
3. Anche il secondo motivo è inammissibile. La ricorrente si duole del fatto che sia stata omessa la sua citazione per l’udienza del 25 maggio 2016, data di rinvio del processo a seguito della precedente udienza nel corso della quale l’originario Collegio si era astenuto per incompatibilità.
La Corte di appello ha correttamente respinto l’eccezione sul rilievo che l’imputata era stata ritualmente citata a comparire per la precedente udienza e, avendo scelto di non presenziare ai sensi dell’articolo 420-bis del codice di procedura penale, era rappresentata, in detta udienza, a tutti gli effetti del proprio difensore ritualmente presente e ritualmente avvisato della data del rinvio.
In tale caso, non spetta la notifica della citazione per la successiva udienza di rinvio perché l’imputato risulta rappresentato ex lege dal difensore, situazione ritenuta sufficiente ad escludere la necessità di eseguire ulteriori avvisi, posto che, a seguito della regolare notifica della prima citazione, egli è già a conoscenza della pendenza di un procedimento e degli elementi essenziali per una corretta instaurazione del rapporto processuale, incombendo su di lui un onere di diligenza nel seguire le scansioni del procedimento e sul difensore, in quanto rappresentante ex lege, il dovere di darne contezza al proprio assistito.
4. E’ manifestamente infondato anche il terzo motivo.
All’imputata è stato contestato, in fatto, di aver eseguito lavori abusivi in zona paesaggisticamente vincolata, risultando ciò evidente dalla contestazione di cui al capo 2) che, riferendosi ai lavori indicati al capo 1), enunciava come le fossero state eseguite opere difformi rispetto a quella assentite con il titolo abilitativo e in zona soggetta al vincolo paesaggistico, senza la relativa autorizzazione (paesaggistica), sicché la ricorrente è stata posta in grado di difendersi sull’elemento differenziale dei diversi titoli di reato, ossia sulla circostanza che gli abusi edilizi erano stati commessi in zona vincolata, ed il giudice si è esclusivamente limitato, valorizzando tale circostanza, ad attribuire l’esatta qualificazione giuridica ad un fatto erroneamente rubricato come contravvenzione sussumibile nell’articolo 44, comma 1, lettera b), d.p.r. n. 380 del 2001 anziché come contravvenzione sussumibile nell’articolo 44, comma 1, lettera c), d.p.r. n. 380 del 2001.
L’esecuzione di opere abusive in zona soggetta al vincolo paesaggistico costituisce perciò l’elemento differenziale tra il fatto di reato (meno grave) previsto dall’articolo 44, comma 1, lettera b), d.p.r. n. 380 del 2001 rispetto al fatto di reato (più grave) previsto dall’articolo 44, comma 1, lettera c), d.p.r. n. 380 del 2001 e da ciò discende l’obbligo della contestazione di tale elemento differenziale all’imputato.
Tale obbligo deve ritenersi adempiuto anche quando, come nella specie, in un diverso capo d’imputazione – emergente dagli atti del processo e tanto più se contenuto, come nel caso in esame, nel medesimo atto di accusa – sia fatta menzione di quelle particolari condizioni e circostanze che, consentendo di individuare l’elemento distintivo che conferisce maggiore gravità al fatto contestato, permettano all’imputato di espletare pienamente il diritto di difesa.
Secondo la costante giurisprudenza di legittimità, la violazione del principio di corrispondenza tra l’imputazione e la sentenza è ravvisabile solo quando la modifica dell’imputazione pregiudichi le possibilità di difesa dell’imputato (ex multis, Sez. 3, n. 36817 del 14/06/2011IT.D.M., Rv. 251081).
Va infatti ricordato che, in tema di correlazione tra imputazione contestata e sentenza, per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l’ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo che si configuri un’incertezza sull’oggetto dell’imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa; ne consegue che l’indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l’imputato, attraverso l’iter del processo (a maggior ragione se attraverso un’imputazione connessa cristallizzata nel medesimo atto di accusa), sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all’oggetto dell’imputazione (Sez. U, n. 36551 del 15/07/2010, Carelli, Rv. 248051).
Ne consegue che l’obbligo di correlazione tra accusa e sentenza non può ritenersi violato da qualsiasi modificazione rispetto all’accusa originaria, ma soltanto nel caso in cui la modificazione dell’imputazione pregiudichi la possibilità di difesa dell’imputato, ciò in quanto la nozione strutturale di “fatto” (ex articolo 521 del codice di procedura penale) va coniugata con quella funzionale, fondata sull’esigenza di reprimere solo le effettive lesioni del diritto di difesa, posto che il principio di necessaria correlazione tra accusa contestata (oggetto di un potere del pubblico ministero) e decisione giurisdizionale (oggetto del potere del giudice) risponde all’esigenza di evitare che l’imputato sia condannato per un fatto, inteso come episodio della vita umana, rispetto al quale non abbia potuto difendersi (Sez. 1, n. 35574 del 18/06/2013, Crescioli, Rv. 257015; Sez. 4, n. 10103 del 15/01/2007, Granata, Rv. 236099; Sez. 4, n. 41663 del 25/10/2005, Cannizzo, Rv. 232423).
Del tutto pretestuosa e non corrispondente alle rationes decidendi delle sentenze di merito è poi l’affermazione, contenuta nel motivo di ricorso, secondo la quale la condanna per il reato di abuso edilizio in zona vincolata sia stata pronunciata per assenza del titolo abilitativo, rispetto alla contestazione elevata all’imputata di aver eseguito lavori in totale difformità dal permesso, con conseguente violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza.
Va ricordato che alla ricorrente è stato contestato di aver eseguito lavori difformi da quelli assentiti con il permesso e, come si evince dal testo delle conformi sentenze di merito, le prime due violazioni, descritte nel capo 1), hanno riguardato interventi non ricompresi nel permesso di costruire e che tale permesso richiedevano, mentre le altre tre violazioni cd. “minori” riguardavano lavori eseguiti in difformità rispetto alle opere assentite.
Pertanto, l’accusa non è stata costruita sulla base di lavori eseguiti in totale difformità dal titolo ma in considerazione di interventi eseguiti senza permesso di costruire (lettere a) e b) del capo 1) e di interventi eseguiti in difformità dal titolo abilitativo (lettere c), d) ed e) del capo 1), rispetto ai quali nessun pregiudizio al diritto di difesa è stato arrecato, posto che il contenuto della contestazione è stato ampiamente chiarito dal teste […], che eseguì il sopralluogo (pag. 1 e 2 della sentenza di primo grado) e che è stato controesaminato dalla difesa (pag. 6 della sentenza impugnata).
4. I motivi di ricorso dal quarto al dodicesimo, siccome tra loro strettamente collegati, possono essere trattati congiuntamente, riguardando censure sollevate sulla configurazione dei reati e sulla punibilità delle condotte ascritte alla ricorrente.
Essi sono manifestamente infondati e, in buona parte, aspecifici nonché sollevati nei casi non consentiti.
4.1. Quanto alla configurazione dell’elemento materiale del reato (motivi 4, 5 e 6) di cui al capo 1) dell’imputazione, la sentenza impugnata, con adeguata motivazione priva di vizi di manifesta illogicità, ha ampiamente spiegato che sia l’ampliamento del vano soggiorno nonché del vano cucina mediante la chiusura della veranda esistente per una superficie di 11,40 mq. (lettera a) del capo 1) e sia l’ampliamento della veranda di 12,90 mq. circa in più rispetto alla superficie approvata (lettera b) del capo 1) integrano l’elemento materiale del reato contestato, trattandosi di interventi che, non ricompresi nel titolo abilitativo o indicati in misura notevolmente più contenuta (lettera b), necessitavano ex se del permesso di costruire, nella specie mancante, mentre, quanto agli altri interventi (lettere c), d) ed e) del capo 1) dell’imputazione), la Corte territoriale si è attenuta al principio affermato da questa Sezione, dal quale non vi è motivo per discostarsi, secondo cui integra il reato di cui all’articolo 44, comma primo, lettera b) e, secondo i casi, lettera c), d.P.R., 6 giugno 2001, n. 380, anche la realizzazione di abusi edilizi non eseguiti in difformità “totale” o eseguiti in variazione essenziale rispetto al titolo abilitativo, giustificandosi una tale interpretazione onde evitare “zone franche” di impunità, dovendosi, pertanto, intendere il riferimento letterale della disposizione all’esecuzione di lavori in “difformità totale” come limitato alle sole ipotesi in cui la difformità non configuri anche una violazione delle norme urbanistiche (Sez. 3, n. 35728 del 18/05/2011, Filippini, Rv. 251233).
Nel pervenire a tale conclusione, la Corte regolatrice ha spiegato che il sistema rappresentato dagli articoli 44, comma 1, lettera b) e, per quanto qui interessa, anche lettera c), 31 e 32 del d.P.R. n. 380 del 2001 è diretto a realizzare un meccanismo di tutela del territorio che, utilizzando al contempo strumenti amministrativi e sanzioni penali, garantisca in concreto la più ampia e celere repressione delle violazioni dei titoli abilitativi e degli strumenti urbanistici. Delle violazioni dei titoli abilitativi si occupano gli articoli 31 e 32, che prevedono lo strumento amministrativo dell’ingiunzione di demolizione per i casi di opere realizzate in totale difformità o con variazioni essenziali rispetto ai titoli stessi. Tale strumento è, dunque, utilizzabile anche per opere che siano conformi alle norme urbanistiche. Quanto all’articolo 44, comma 1, lettere b) e c), esso copre tutte le fattispecie di difformità dalla legislazione e dagli strumenti urbanistici, siano esse poste in essere in presenza o in mancanza di un valido titolo abilitativo (ex multis, Sez. 3, n. 42915 del 30/09/2009, non mass.). Tali fattispecie non sono, infatti, solo quelle di totale difformità, dovendosi intendere il riferimento letterale della disposizione ai «casi di esecuzione dei lavori in totale difformità» dal permesso come limitato alle sole ipotesi in cui la difformità non integri anche una violazione delle norme urbanistiche.
Perciò – con riferimento al caso in esame in relazione al quale occorre precisare che non rilevano le modificazioni normative successivamente intervenute e dirette a sottrarre, di volta in volta, dall’area del penalmente rilevante determinati e specifici interventi edilizi sulla base di tassative condizioni – ne deriva che le rilevate difformità, di cui alle lettere c), d) ed e) del capo 1), pur non essendo di entità tale da potersi definire in totale difformità dal titolo abilitativo così da consentire il ricorso all’ordinanza amministrativa di demolizione, integrano comunque il reato di cui al citato art. 44, comma 1, lettera c), perché tale disposizione, al pari di quella di cui alla lettera b) dell’articolo 44, trova applicazione, alle condizioni in precedenza precisate e fatta salva la normativa speciale di favore, anche per gli abusi che non integrano totale difformità o variazioni essenziali rispetto al titolo abilitativo (Sez. 3, n. 35728 del 18/05/2011, Filippini, cit.).
Né rileva l’obiezione secondo la quale gli abusi cosiddetti “minori” sarebbero stati perpetrati anteriormente all’acquisto dell’immobile da parte della ricorrente, avendo la sentenza di primo grado – che integra, nel caso, come quello in esame, di “doppia conforme”, la sentenza di appello formando con essa un unico complesso motivazionale – spiegato come dal testimoniale sia risultato, con accertamento di fatto logicamente ed adeguatamente motivato, che l’esecuzione delle opere andava certamente collocata fra l’aprile del 2011, data del rilascio del titolo abilitativo, ed il giugno dello stesso anno, epoca dell’accertamento, essendo quest’ultimo il frutto del confronto documentale fra la situazione esistente al momento del sopralluogo e quella rappresentata negli atti allegati alla domanda di permesso di costruire, per cui, a meno di non voler ritenere che gli atti allegati all’atto notarile ed alla domanda di permesso di costruire fossero ideologicamente falsi (con conseguente configurazione di reati ben più gravi), doveva necessariamente ritenersi, escluso perciò che si fosse rappresentata negli atti pubblici una situazione diversa da quella reale, che gli abusi fossero stati realizzati dopo il rilascio del permesso di costruire, con conseguente addebitabilià di essi alla ricorrente.
Da ciò consegue la manifesta infondatezza del quarto, del quinto e del sesto motivo di ricorso, le cui doglianze, introducendo peraltro rilievi fattuali tendenti ad una diversa ed alternativa ricostruzione del materiale probatorio utilizzato per la decisione (da pag. 14 a 17 nonché pag. 23 e 24 del ricorso) devono ritenersi, in presenza di una logica ed adeguata motivazione, non consentite nel giudizio di legittimità.
Va infatti ricordato che, in tema di controllo sulla motivazione, alla Corte di cassazione è normativamente preclusa la possibilità non solo di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi, ma anche di saggiare la tenuta logica della pronuncia portata alla sua cognizione mediante un raffronto tra l’apparato argomentativo che la sorregge ed eventuali altri modelli di ragionamento mutuati dall’esterno; ed invero, avendo il legislatore attribuito rilievo esclusivamente al testo del provvedimento impugnato (o ad altri atti del processo specificamente indicati nel ricorso), che si presenta quale elaborato dell’intelletto costituente un sistema logico in sé compiuto ed autonomo, il sindacato di legittimità è limitato alla verifica della coerenza strutturale della decisione in sé e per sé considerata, necessariamente condotta alla stregua degli stessi parametri valutativi da cui essa è “geneticamente” informata, ancorché questi siano ipoteticamente sostituibili da altri (Sez. U, n. 12 del 31/05/2000, Jakani, Rv. 216260). Ciò vale anche a seguito della modifica dell’art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen. per effetto della legge n. 46 del 2006, restando precluse al giudice di legittimità la pura e semplice rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di diversi parametri di ricostruzione dei fatti e il riferimento, contenuto nel nuovo testo dalla norma citata, agli “altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame” non vale a mutare la natura del giudizio di legittimità, al quale rimane estraneo il controllo sulla congruità della motivazione in rapporto ai dati processuali (Sez. 5, n. 19855 del 22/03/2006, Blandino, Rv. 234095). Rimanendo allora nell’ambito dell’indagine sul testo della sentenza impugnata, va ribadito che le doglianze sollevate con il ricorso si risolvono, nella sostanza, in rilievi che, sollecitando una diversa lettura del materiale probatorio, attingono il merito della regiudicanda, opzione non consentita nel giudizio di legittimità in quanto, secondo gli insegnamenti in proposito impartiti dalle Sezioni Unite penali della Corte di cassazione, il vizio di motivazione, che risulti dal testo del provvedimento impugnato o (a seguito della novella apportata all’articolo 606 lett. e) cod. proc. pen. dall’art. 8 della legge 20 febbraio 2006 n. 46) da altri atti del processo specificamente indicati nel ricorso, in tanto sussiste se ed in quanto si dimostri che il testo del provvedimento sia manifestamente carente di motivazione e/o di logica, e non invece quando si opponga alla logica valutazione degli atti effettuata dal giudice di merito una diversa ricostruzione, magari altrettanto logica (Sez. U, n. 16 del 19/06/1996, Di Francesco, Rv. 205621).
Tutto ciò senza considerare la genericità del sesto motivo di gravame, con il quale la ricorrente ha riproposto la stessa ed identica doglianza formulata nei confronti della prima sentenza non curandosi di censurare specificamente la decisione in parte qua della sentenza impugnata la quale ha puntualmente rilevato che “quanto all’asserita mancanza di prova della violazione di cui alla lettera c) del capo 1) per non averla il teste […] menzionata nel corso della deposizione in udienza, si rileva che è stato lo stesso difensore … a provocarne l’evocazione nel corso del controesame (cfr. ud. 23/4/2014, p. 7)”, incorrendo, a questo proposito, nel vizio di aspecificità del ricorso.
4.2. Quanto al settimo, all’ottavo, al nono, al decimo, all’undicesimo ed al dodicesimo motivo del ricorso, essi parimenti si limitano a riproporre doglianze già articolate con i motivi di appello e motivatamente disattese dalla Corte territoriale, senza che la ricorrente si sia fatta carico di specifiche censure in proposito, incorrendo nel vizio di aspecificità, oltre che di manifesta infondatezza del ricorso.
Infatti, con motivazione del tutto ineccepibile, la Corte del merito ha affermato come il permesso di costruire in sanatoria non avesse comportato l’estinzione del reato urbanistico per mancanza del requisito della doppia conformità, perché i lavori originariamente eseguiti non erano conformi alla disciplina urbanistica all’epoca vigente e, sebbene rimossi, la loro eliminazione non consentiva perciò alla causa estintiva di operare (motivo 7).
Allo stesso modo, l’autorizzazione paesaggistica non ricomprendeva i lavori, di cui alle lettere a) e b) del capo 1) dell’imputazione, sicché la stessa doveva ritenersi ab origine mancante (motivo 8) e l’accertamento di compatibilità paesaggistica non aveva fatto venir meno, ai sensi dell’articolo 181, comma Iter, d.lgs. n. 42 del 2004, il reato di cui al capo 2) dell’imputazione, in quanto l’ampliamento della veranda oltre il limite per cui era stata ottenuta l’autorizzazione paesaggistica, così come pure l’ampliamento del soggiorno e della cucina, avevano comportato la creazione di superfici utili e di maggiori volumi (motivi 9 e 10).
Correttamente poi la Corte territoriale ha ritenuto che l’intervenuta e asseverata ottemperanza alle demolizioni (asseverazione del geom. […] delle sole demolizioni, non anche della rimessione in pristino) indicate nel permesso di costruire in sanatoria, sia pure intervenuta prima della sentenza di primo grado, non equivale, con tutta evidenza, alla riduzione in pristino richiesta dall’articolo 181, comma 1-quinquies, d.lgs. n. 42 del 2004 per l’estinzione del reato paesaggistico (motivo 11), dovendosi solo aggiungere che l’onere probatorio (nella specie, inosservato) di aver spontaneamente adempiuto al ripristino dello stato dei luoghi, qualora la circostanza non risulti dagli atti, incombe su colui che intende giovarsi della causa estintiva ed implica che l’autore dell’abuso documenti il rilascio, da parte dell’autorità preposta alla tutela del vincolo, dell’attestazione di intervenuta esecuzione dei lavori in conformità al progetto approvato (Sez. 3, n. 2216 del 25/11/2015, dep. 2016, De Marco, Rv. 266090) o comunque comprovi con altro idoneo mezzo di prova detta circostanza.
Quanto infine al rilievo secondo il quale gli abusi cosiddetti “minori” (lettera c), d) ed e) del capo 1) dell’imputazione) erano ricompresi nell’autorizzazione paesaggistica e che, in ogni caso, gli interventi nel loro complesso dovevano ritenersi del tutto inoffensivi dell’interesse penalmente tutelato, occorre considerare, sotto il primo aspetto, che, ai fini della valutazione della sussistenza della violazione paesaggistica, è necessario avere riguardo al risultato dell’attività edificatoria nella sua unitarietà sicché, con riferimento alle violazioni di cui alle lettere a) e b) del capo 1) dell’imputazione, la mancanza dell’autorizzazione paesaggistica è risultata, come in precedenza precisato, ampiamente sussistente e che, con riferimento alle predette violazioni, è del tutto improprio, sotto il secondo aspetto (motivo 12), invocare la mancanza di offensività della condotta, in presenza di interventi eseguiti in zona soggetta al vincolo paesaggistico che hanno comportato la creazione di superfici utili e di maggiori volumi.
5. Anche il tredicesimo motivo di gravame, in punto di censura sulla mancata concessione delle attenuanti generiche, è manifestamente infondato e finalizzato impropriamente a censurare il merito della pronuncia in parte qua, avendo la Corte d’appello affermato come non fossero ravvisabili elementi idonei a invalidare le valutazioni del primo giudice in tema di mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche, atteso che, quanto alla rivendicata attenuante, il tribunale non aveva ritenuto di individuare elementi positivamente valutabili per concederle ed il giudice d’appello ha stimato che l’incensuratezza della ricorrente e la sola regolarizzazione urbanistica postuma degli abusi non fossero, di per sé, elementi sui quali fondare la concessione delle attenuanti generiche.
Nel pervenire a tale conclusione il giudice d’appello ha fornito una adeguata motivazione, priva di vizi di manifesta illogicità e pertanto insuscettibile di essere sindacata in sede di giudizio di legittimità, atteso che le attenuanti generiche non possono essere intese come oggetto di una benevola e discrezionale “concessione” da parte del giudice ma come il riconoscimento di situazioni non tipizzate che presentano caratteristiche singolari e di rilievo tanto da esigere una particolare considerazione, così da incidere effettivamente sull’apprezzamento del “grado del reato” anche in considerazione della personalità dell’imputato, sicché il loro riconoscimento consenta di pervenire ad una più efficace e penetrante valutazione degli elementi che segnano i parametri per una più precisa determinazione della pena da irrogare in concreto, in modo che il trattamento sanzionatorio sia il più adeguato e proporzionale al caso di specie favorendo, indipendentemente dalla esecuzione in concreto della pena, il processo rieducativo del soggetto attinto dalla sanzione penale. Ed il riconoscimento di tali situazioni e caratteristiche, da individuare positivamente ed in concreto, nonché il loro grado di efficacia sul trattamento sanzionatorio finale, rientrano nel potere discrezionale del giudice di merito, il cui esercizio, se sorretto, come nel caso in esame, da logica ed adeguata motivazione, si sottrae al sindacato di legittimità, con la conseguenza che la statuizione relativa al giudizio di concessione o diniego delle attenuanti generiche è censurabile in sede di legittimità soltanto nell’ipotesi in cui sia frutto di mero arbitrio o di un ragionamento manifestamente illogico e non anche qualora risulti sufficientemente motivata, come nella specie, la relativa soluzione. 6. Sulla base delle considerazioni che precedono, la Corte ritiene pertanto che il ricorso debba essere dichiarato inammissibile […]