[…]
RITENUTO IN FATTO
1. La Corte di Appello di Napoli, pronunciando nei confronti degli odierni ricorrenti […] e […], con sentenza del 27/09/2013, in parziale riforma della sentenza emessa dal Tribunale di Avellino in data 13/05/2011, concedeva ad entrambi le circostanze attenuanti generiche, rideterminando la pena loro inflitta in quella di mesi 4 di arresto ed Euro 10.000,00 di ammenda, confermava nel resto.
Il Tribunale di Avellino aveva dichiarato gli imputati responsabili del reato previsto dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 31 e art. 44, lett. b) per avere iniziato, continuato ed eseguito, ciascuno nelle rispettive qualità, in assenza del permesso di costruire, lavori per la realizzazione di muri perimetrali in c.a. aventi spessore di cm. 25 ed altezza di circa m. 1,80 al fondo agricolo, foglio 18, p.lla 1161 del Comune di […], e del reato previsto dal D.P.R. n. 380 del 2001, artt. 93 e 95, per avere eseguito le opere sopra descritte senza darne l’ulteriore preavviso scritto al settore provinciale del Genio Civile di […], accertato in […] il 31/7/2008.
Gli imputati venivano condannati, entrambi, con la continuazione, alla pena di mesi 8 di arresto ed Euro 15.000,00 di ammenda, oltre al pagamento delle spese processuali, con pena sospesa condizionata alla demolizione dell’opera entro 3 mesi dal passaggio in giudicato e ordine di demolizione.
Il Tribunale assolveva il coimputato […] ex art. 530 c.p.p., comma 2 per non avere commesso il fatto.
2. Avverso tale provvedimento hanno proposto ricorso per Cassazione, con l’ausilio dei propri difensori, gli imputati, ciascuno con proprio ricorso, deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall’art. 173 disp. att. c.p.p., comma 1:
[…]:
a. Violazione di cui all’art. 606 c.p.p., lett. b) ed e) in relazione alla contraddittorietà ed illogicità della motivazione della sentenza impugnata, in quanto agli atti non sussisterebbe alcun dato probatorio dal quale si evince che l’imputata abbia realizzato il manufatto e che fosse a conoscenza di tale realizzazione. La ricorrente deduce di essere stata condannata, pur non sussistendo a suo carico la prova della consapevolezza dell’avvenuta realizzazione dei manufatti, sul semplice presupposto di essere la proprietaria dell’immobile.
Rileva che il terreno sul quale sarebbe stato realizzato l’abuso si trova in comune diverso e distante da quello di residenza dell’imputata.
Non vi sarebbero elementi dai quali ragionevolmente desumere il suo concorso, anche solo morale, alla realizzazione dell’opera.
b. Violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. e) in relazione alla contraddittorietà ed illogicità della motivazione della sentenza impugnata in quanto la Corte territoriale ha rilevato la consapevolezza del vincolo paesaggistico in capo alla ricorrente come elemento di colpevolezza.
L’imputata rileva che la sussistenza del vincolo non incideva sul mero rifacimento di opere già esistenti, ne’ con la mera realizzazione di un varco di accesso nel muro di recinzione preesistente.
Chiede, pertanto, l’annullamento della sentenza impugnata.
[…]:
a. Mancanza, manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione, nonché il travisamento della prova ex art. 606 c.p.p., lett. e) – violazione dell’art. 530 c.p.p. o art. 530 cpv. c.p.p. – riconducibilità della supposta violazione al progettista dei lavori. Il ricorrente deduce un travisamento della prova, in quanto il teste […] avrebbe escluso la presenza del direttore dei lavori, mentre la sentenza impugnata ipotizzerebbe la presenza dello stesso direttore dei lavori, ricollegando tale figura a […]. Rileva che, a prescindere dalla assenza dell’imputato sui luoghi, non sarebbero comprovate la direzione e la vigilanza dei lavori da parte dello stesso.
b. Mancanza, manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione, nonché travisamento della prova ex art. 606 c.p.p., lett. e) – violazione della L. 21 dicembre 2001, n. 443, art. 1, comma 6, applicabilità – prova, insussistenza della prova sull’accertamento della violazione, insussistenza della rilevanza dell’intervento ai fini urbanistici.
Il ricorrente deduce che la sentenza ha escluso, in maniera non corretta, che per l’intervento eseguito fosse sufficiente una DIA. Il muro di recinzione, a detta del ricorrente, già preesisteva, pertanto non era necessaria la concessione del permesso di costruire, ma la semplice denuncia di inizio attività.
L’opera muraria ancora esistente consentiva la sicura individuazione dei connotati essenziali del manufatto originario e la sua fedele ricostruzione.
L’opera sarebbe stata illegittimamente collocata tra quelle annoverate nella violazione pur non considerando che dai grafici allegati alla DIA non ricorre alcuna rappresentazione di mera recinzione metallica bensì recinzione in ca con cancellata da erigersi sulla fondazione preesistente.
Il convincimento del giudice non sarebbe fornito di adeguato supporto probatorio.
L’istruttoria risulterebbe incompleta e carente.
Chiede, pertanto, censurarsi l’impugnata sentenza mandando assolto l’imputato […] quanto meno con la formula meno ampia.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. I motivi in precedenza illustrati sono tutti manifestamente infondati e pertanto i proposti ricorsi vanno dichiarati inammissibili.
2. Ancorché rubricate come violazioni di legge, le proposte doglianze sottendono, in realtà, una rivalutazione del compendio probatorio, rispetto al quale hanno speso motivazioni assolutamente logiche e congrue i giudici di merito, non consentita in questa sede.
[…] ripropone, quanto all’intervenuta condanna, quello che era stato l’unico motivo di appello nel merito, e cioè l’assunto di essere stata dichiarata penalmente responsabile del compiuto illecito urbanistico sul solo presupposto di essere la proprietaria dell’immobile e in difetto di prova di essere la committente dell’opera abusiva.
Va evidenziato, sul punto, innanzitutto che le motivazioni delle sentenze di primo e secondo grado vanno lette come un tutt’uno, trattandosi di doppia conforme declaratoria di responsabilità ed avendo la Corte napoletana operato un’affermazione di totale condivisibilità relativamente alla ricostruzione del fatto e alla motivazione del giudice di primo grado (cfr. pag. 2 della sentenza impugnata).
Va altresì ricordato che per giurisprudenza pacifica di questa Corte, in caso di doppia conforme affermazione di responsabilità, deve essere ritenuta pienamente ammissibile la motivazione della sentenza d’appello per relationem a quella della sentenza di primo grado, sempre che le censure formulate contro la decisione impugnata non contengano elementi ed argomenti diversi da quelli già esaminati e disattesi.
Il giudice di secondo grado, infatti, nell’effettuare il controllo in ordine alla fondatezza degli elementi su cui si regge la sentenza impugnata, non è chiamato ad un puntuale riesame di quelle questioni riportate nei motivi di gravame, sulle quali si sia già soffermato il prima giudice, con argomentazioni che vengano ritenute esatte e prive di vizi logici, non specificamente e criticamente censurate. In una simile evenienza, infatti, le motivazioni della pronuncia di primo grado e di quella di appello, fondendosi, si integrano a vicenda, confluendo in un risultato organico ed inscindibile al quale occorre in ogni caso fare riferimento per giudicare della congruità della motivazione, tanto più ove i giudici dell’appello abbiano esaminato le censure con criteri omogenei a quelli usati dal giudice di primo grado e con frequenti riferimenti alle determinazioni ivi prese ed ai passaggi logico-giuridici della decisione, di guisa che le motivazioni delle sentenze dei due gradi di merito costituiscano una sola entità (confronta l’univoca giurisprudenza di legittimità di questa Corte: per tutte sez. 2 n. 34891 del 16.05.2013, Vecchia, rv. 256096; conf. sez. 3, n. 13926 del 1.12.2011, dep. 12.4. 2012, Valerio, rv. 252615: sez. 2, n. 1309 del 22.11.1993, dep. 4.2. 1994, Albergamo ed altri, rv. 197250).
Nella motivazione della sentenza il giudice del gravame di merito non è tenuto, inoltre, a compiere un’analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo invece sufficiente che, anche attraverso una loro valutazione globale, spieghi, in modo logico e adeguato, le ragioni del suo convincimento, dimostrando di aver tenuto presente ogni fatto decisivo. Ne consegue che in tal caso debbono considerarsi implicitamente disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata (cfr. sez. 6, n. 49970 del 19.10.2012, Muià ed altri rv.254107). La
motivazione della sentenza di appello è del tutto congrua, in altri
termini, se il giudice d’appello abbia confutato gli argomenti che
costituiscono l'”ossatura” dello schema difensivo
dell’imputato, e non una per una tutte le deduzioni difensive della
parte, ben potendo, in tale opera, richiamare alcuni passaggi
dell’iter argomentativo della decisione di primo grado, quando appaia
evidente che tali motivazioni corrispondano anche alla propria
soluzione alle questioni prospettate dalla parte (così si era
espressa sul punto sez. 6, n. 1307 del 26.9.2002, dep. 14.1.2003,
Delvai, rv. 223061). È stato anche sottolineato di recente da questa
Corte che in tema di ricorso in cassazione ai sensi dell’art. 606,
comma 1, lett. e), la denunzia di minime incongruenze argomentative o
l’omessa esposizione di elementi di valutazione, che il ricorrente
ritenga tali da determinare una diversa decisione, ma che non siano
inequivocabilmente
munite di un chiaro carattere di decisività, non possono dar luogo
all’annullamento della sentenza, posto che non costituisce vizio
della motivazione qualunque omissione valutativa che riguardi singoli
dati estrapolati dal contesto, ma è solo l’esame del complesso
probatorio entro il quale ogni elemento sia contestualizzato che
consente di verificare la consistenza e la decisività degli elementi
medesimi oppure la loro ininfluenza ai fini della compattezza logica
dell’impianto argomentativo della motivazione (sez. 2, n. 9242
dell’8.2.2013, Reggio, rv. 254988).
3. Va evidenziato che, differentemente da quanto oggi viene riproposto come doglianza, la […] non era solo la proprietaria del terreno, ma anche colei che in data 14.7.2008 aveva presentato presso il Comune […] la DIA protocollata al n. 12340, relativa alla recinzione del fondo con rete metallica e alla realizzazione di accessi, denuncia corredata dal progetto a firma del geometra coimputato […].
E risulta davvero inverosimile ritenere che i lavori in corso per l’esecuzione di un muro che, invece, era di cemento armato, lungo ben 130 metri, alto m. 1,80 e spesso cm 25, lavori che evidentemente comportavano anche una spesa di gran lunga superiore a quella di una recinzione metallica, fossero avvenuti a sua insaputa. Sul punto va, peraltro, ricordato come la giurisprudenza di questa Corte Suprema sia ormai stabilmente assestata nell’affermare che in tema di reati edilizi, ai fini del disconoscimento del concorso del proprietario del terreno non committente dei lavori nel reato previsto dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44 è necessario escludere l’interesse o il suo consenso alla commissione dell’abuso edilizio ovvero dimostrare che egli non sia stato nelle condizioni di impedirne l’esecuzione (così questa sez. 3, n. 33540 del 19.6.2012, Pmt in proc. Grillo ed altri rv. 253169; conforme sez. 4 n. 19714 del 3.2.2009, Izzo F., rv. 243961). Questa Corte di legittimità non ritiene sufficiente, per escludere il concorso nel reato, che il proprietario del terreno non abbia commissionato materialmente i lavori.
Perché il proprietario non committente vada esente da responsabilità occorre qualcosa in più e, cioè, che dagli atti emerga che lo stesso non abbia interesse all’abuso e non sia stato nelle condizioni di impedirne l’esecuzione.
Oggi è dunque pacifico che in tema di reati edilizi, l’individuazione del comproprietario non committente quale soggetto responsabile dell’abuso edilizio può essere desunta da elementi oggettivi di natura indiziaria, come la presentazione della domanda di condono edilizio (o nel caso che ci occupa la D.I.A. per un’opera diversa), sottraendosi tale valutazione al sindacato di legittimità della Suprema Corte in quanto comporta un giudizio di merito che non contrasta ne’ con la disciplina in tema di valutazione della prova nè con le massime di esperienza (sez. 3, n. 35631 dell’11.7.2007, Leone ed altri, rv. 237391).
4. Si pone allora il problema di individuare una casistica di tali elementi indizianti.
Al riguardo si è precisato con motivazioni del tutto condivise dal Collegio che gli elementi in base ai quali possa ragionevolmente presumersi che questi abbia concorso, anche solo moralmente, con il committente o l’esecutore dei lavori, possono essere individuati, nella piena disponibilità giuridica e di fatto del suolo e nell’interesse specifico ad effettuare la nuova costruzione, così come nei rapporti di parentela o affinità tra terzo e proprietario, nella eventuale presenza di quest’ultimo “in loco”, nello svolgimento di attività di vigilanza dell’esecuzione dei lavori, nella richiesta di provvedimenti abilitativi in sanatoria, nel regime patrimoniale dei coniugi, ovvero in tutte quelle situazioni e comportamenti positivi o negativi dai quali possano trarsi elementi integrativi della colpa (così questa sez. 3, n. 26121 del 12.4.2005, Rosato, Rv. 231954).
In altre pronunce si è poi condivisibilmente precisato che può essere attribuita al proprietario non formalmente committente dell’opera abusiva la responsabilità anche in relazione all’accertamento che questi abiti nello stesso territorio comunale ove è stata eretta la costruzione abusiva, che sia stato individuato sul luogo, che sia il destinatario finale dell’opera (sez. 3, n. 9536 del 20.1.2004, Mancuso ed altro, rv. 227403). Ancora, è stato affermato che il proprietario non formalmente committente risponde del reato edilizio, ex D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44 e art. 110 c.p., allorché, a conoscenza dell’assenza del preventivo rilascio del permesso di costruire, abbia fornito un contributo causale che abbia agevolato la edificazione abusiva, (così questa sez. 3, n. 8667 del 12.1.2007, Forletti ed altro, che nell’occasione ha ulteriormente precisato che il giudice deve verificare l’esistenza di comportamenti, che possono assumere sia forma positiva che negativa, dai quali si possa ricavare una compartecipazione anche solo morale nella altrui condotta illecita). Più recentemente si è ulteriormente precisato che la responsabilità per la realizzazione di opere abusive è configurabile anche nei confronti del nudo proprietario che abbia la disponibilità dell’immobile ed un concreto interesse all’esecuzione dei lavori, se egli non allega circostanze utili a dimostrare che si tratti di interventi realizzati da terzi a sua insaputa e senza la sua volontà (sez. 3, n. 39400 del 21.3.2013, Spataro, rv. 257676).
5. In applicazione dei suvvisti principi, dunque, appare evidente che l’esclusione della responsabilità del proprietario non committente possa essere ritenuta solo qualora, all’esito del vaglio degli elementi di prova, si possa escludere l’interesse o il consenso di quest’ultimo dell’abuso.
Quanto alla doglianza in ordine alla specifica motivazione sull’elemento psicologico, la stessa, per la parte in cui non si dovesse ritenere assorbita dal motivo precedente, non è ammissibile essendo assolutamente generica.
Va peraltro ricordato che siamo di fronte ad un reato contravvenzionale per la sussistenza del quale basta la colpa, desumibile da tutti gli elementi di cui si è fin qui detto.
6. Manifestamente infondati sono anche i motivi di doglianza proposti dal […] che, ancorché rubricati, alternativamente, come vizio motivazionale e/o come violazione di legge, tendono, invece, a richiedere una nuova valutazione del compendio probatorio non consentita in questa sede.
Sul punto va ricordato che il controllo del giudice di legittimità sui vizi della motivazione attiene alla coerenza strutturale della decisione di cui si saggia la oggettiva tenuta sotto il profilo logico argomentativo, restando preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (tra le varie, cfr. vedasi questa sez. 3, n. 12110 del 19.3.2009 n. 12110 e n. 23528 del 6.6.2006). Ancora, la giurisprudenza ha affermato che l’illogicità della motivazione per essere apprezzabile come vizio denunciabile, deve essere evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi, dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purché siano spiegate in modo logico e adeguato le ragioni del convincimento (sez. 3, n. 35397 del 20.6.2007; Sez. Unite n. 24 del 24.11.1999, Spina, rv. 214794). Più di recente è stato ribadito come ai sensi di quanto disposto dall’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), il controllo di legittimità sulla motivazione non attiene ne’ alla ricostruzione dei fatti ne’ all’apprezzamento del giudice di merito, ma è circoscritto alla verifica che il testo dell’atto impugnato risponda a due requisiti che lo rendono insindacabile: a) l’esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo hanno determinato; b) l’assenza di difetto o contraddittorietà della motivazione o di illogicità evidenti, ossia la congruenza delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento, (sez. 2, n. 21644 del 13.2.2013, Badagliacca e altri, rv. 255542).
Il sindacato demandato a questa Corte sulle ragioni giustificative della decisione ha dunque, per esplicita scelta legislativa, un orizzonte circoscritto.
Non c’è, in altri termini, come richiesto nel presente ricorso, la possibilità di andare a verificare se la motivazione corrisponda alle acquisizioni processuali. E ciò anche alla luce del vigente testo dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) come modificato dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46. Il giudice di legittimità non può procedere ad una rinnovata valutazione dei fatti ovvero ad una rivalutazione del contenuto delle prove acquisite, trattandosi di apprezzamenti riservati in via esclusiva al giudice del merito. Il ricorrente non può, come nel caso che ci occupa limitarsi a fornire una versione alternativa del fatto, senza indicare specificamente quale sia il punto della motivazione che appare viziato dalla supposta manifesta illogicità e, in concreto, da cosa tale illogicità vada desunta.
Il vizio della manifesta illogicità della motivazione deve essere evincibile dal testo del provvedimento impugnato. Com’è stato rilevato nella citata sentenza 21644/13 di questa Corte la sentenza deve essere logica “rispetto a sè stessa”, cioè rispetto agli atti processuali citati. In tal senso la novellata previsione secondo cui il vizio della motivazione può risultare, oltre che dal testo del provvedimento impugnato, anche da “altri atti del processo”, purché specificamente indicati nei motivi di gravame, non ha infatti trasformato il ruolo e i compiti di questa Corte, che rimane giudice della motivazione, senza essersi trasformato in un ennesimo giudice dei fatto.
Avere introdotto la possibilità di valutare i vizi della motivazione anche attraverso gli “atti del processo” costituisce invero il riconoscimento normativo della possibilità di dedurre in sede di legittimità il cosiddetto “travisamento della prova” che è quel vizio in forza del quale il giudice di legittimità, lungi dal procedere ad una (inammissibile) rivalutazione del fatto (e del contenuto delle prove), prende in esame gli elementi di prova risultanti dagli atti per verificare se il relativo contenuto è stato o meno trasfuso e valutato, senza travisamenti, all’interno della decisione.
In altri termini, vi sarà stato “travisamento della prova” qualora il giudice di merito abbia fondato il suo convincimento su una prova che non esiste (ad esempio, un documento o un testimone che in realtà non esiste) o su un risultato di prova incontestabilmente diverso da quello reale (alla disposta perizia è risultato che lo stupefacente non fosse tale ovvero che la firma apocrifa fosse dell’imputato). Oppure dovrà essere valutato se c’erano altri elementi di prova inopinatamente o ingiustamente trascurati o fraintesi. Ma – occorrerà ancora ribadirlo – non spetta comunque a questa Corte Suprema “rivalutare” il modo con cui quello specifico mezzo di prova è stato apprezzato dal giudice di merito, giacché attraverso la verifica del travisamento della prova. Per esserci stato “travisamento della prova” occorre che sia stata inserita nel processo un’informazione rilevante che invece non esiste nel processo oppure si sia omesso di valutare una prova decisiva ai fini della pronunzia.
In tal caso, però, al fine di consentire di verificare la correttezza della motivazione, va indicato specificamente nel ricorso per Cassazione quale sia l’atto che contiene la prova travisata o omessa.
Il mezzo di prova che si assume travisato od omesso deve inoltre avere carattere di decisività. Diversamente, infatti, si chiederebbe al giudice di legittimità una rivalutazione complessiva delle prove che, come più volte detto, sconfinerebbe nel merito.
7. Se questa, dunque, è la prospettiva ermeneutica cui è tenuta questa Suprema Corte, le censure che il ricorrente rivolge al provvedimento impugnato si palesano manifestamente infondate, non apprezzandosi nella motivazione della sentenza della Corte d’Appello di Napoli alcuna illogicità che ne vulneri la tenuta complessiva. Il ricorrente non contesta il travisamento di una specifica prova, ma sollecita a questa Corte una diversa lettura dei dati processuali non consentito in questa sede di legittimità .
I giudici del gravame di merito e quello di primo grado, con motivazioni specifiche, coerenti e logiche hanno, infatti, dato conto del fatto che il […], oltre che ad essere presente sul posto all’atto del sopralluogo, fosse il direttore dei lavori e il progettista della D.I.A. del 14.7.2008. Ed anche in questo caso risulta davvero poco credibile che egli nulla potesse sapere della diversità dell’opera in corso di realizzazione rispetto a quella illustrata nella D.I.A..
Rispetto a tale motivata, logica e coerente pronuncia il ricorrente chiede una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione e l’adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione. Ma per quanto sin qui detto un siffatto modo di procedere è inammissibile perché trasformerebbe questa Corte di legittimità nell’ennesimo giudice del fatto.
Peraltro già il giudice di primo grado aveva logicamente e coerentemente motivato rispondendo alla tesi, oggi riproposta, secondo cui era in corso soltanto l’abbattimento e il rifacimento dei un muro di recinzione preesistente, evidenziando come fosse “palesemente irrilevante la preesistenza di un muro di recinzione (peraltro in pietre) come evidenziato dal […] nel corso del suo esame, in quanto l’opera eseguita è ben diversa (per impatto sul territorio) da quella asseritamente sostituita”, (cfr. pag. 2 della sentenza di primo grado).
Quanto alla necessità o meno, a fronte della recinzione di un fondo rustico, del permesso per costruire, va precisato che occorre andare, di volta in volta a verificare l’estensione dell’area e se tale recinzione risulti realizzata con opere edilizie permanenti. Occorre, in altri termini, ribadire il dictum di questa Corte secondo cui la realizzazione di un muro di recinzione necessita del previo rilascio del permesso a costruire in casi come quello che ci occupa in cui, avuto riguardo alla sua struttura e all’estensione dell’area relativa, lo stesso sia tale da modificare l’assetto urbanistico del territorio, così rientrando nel novero degli “interventi di nuova costruzione” di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 3, lett. e) (così questa sez. 3, n. 4755 del 13.12.2007 dep. il 30.1.2008, Romano, rv. 238788).
In precedenza si era anche precisato – e va qui ribadito – che la recinzione di un fondo rustico non necessita di concessione solo nel caso in cui la stessa venga attuata con opere non permanenti; il provvedimento autorizzativo è, invece, richiesto quando venga realizzata con materiale tipicamente edilizio tra cui rientra la zoccolatura di calcestruzzo (sez. 3, n. 10566 del 30.9.1988, Baldo, rv. 179570). E in altra pronuncia, nel valutare la realizzazione di un muro di recinzione in cemento armato di dimensioni ben più modeste di quello che ci occupa, si era condivisibilmente affermata la necessità della concessione edilizia (oggi permesso per costruire) di fronte all’erezione al confine di un fondo rustico di un muro in cemento armato, o comunque in mattoni e malta cementizia, anche alto fuori terra solo 80 cm., affermandosi, invece, che la concessione non è necessaria se la recinzione è realizzata con opere non permanenti, quali ad esempio semplici paletti conficcati nel terreno e filo spinato o un muretto cosiddetto a secco, (sez. 3, n. 5395 del 25.1.1988, Gadaleta, rv. 178306).
8. In ultimo, va rilevato che all’atto della pronuncia della sentenza di secondo grado non risultava decorso il termine massimo di prescrizione.
I fatti risalgono al 31.7.2008, ma ai termine quinquennale massimo di prescrizione destinato a spirare il 31.7.2013 va aggiunto un termine di sospensione della prescrizione di mesi 6, a seguito del rinvio disposto in secondo grado, dall’udienza del 27.3.2013 a quella del 27.9.2013, per l’adesione del difensore ad un’astensione di categoria.
Il termine di prescrizione, massimo, dunque, era destinato a spirare il 31.1.2014 (cfr. sul punto sez. 4, n. 10621 del 29.1.2013, M., rv. 256067).
Nè può porsi in questa sede la questione della declaratoria della prescrizione maturata dopo la sentenza d’appello, in considerazione della manifesta infondatezza del ricorso.
La giurisprudenza di questa Corte Suprema ha, infatti, più volte ribadito che l’inammissibilità del ricorso per cassazione dovuta alla manifesta infondatezza dei motivi non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell’art. 129 c.p.p. (Cass. pen., Sez. un., 22 novembre 2000, n. 32, De Luca, rv. 217266: nella specie la prescrizione del reato era maturata successivamente alla sentenza impugnata con il ricorso; conformi, Sez. un., 2 marzo 2005, n. 23428, Bracale, rv. 231164, e Sez. un., 28 febbraio 2008, n. 19601, Niccoli, rv. 239400; in ultimo Cass. pen. Sez. 2, n. 28848 dell’8.5.2013, rv. 256463).
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