Corte di Cassazione, Sez. 3, Sentenza n. 844 del 2020, dep. il 13/01/2020

[…]

RITENUTO IN FATTO

1. Con ordinanza … 2019, il tribunale di Brindisi rigettava, quale g.e., la richiesta di sospensione e revoca dell’ordine di demolizione presentata nell’interesse del […], ordine emesso a seguito dell’intervenuta irrevocabilità della sentenza del medesimo tribunale del 29.09.2014, che lo aveva condannato per il reato di cui all’art. 44, lett. b), TU Edilizia.

2. Contro la ordinanza ha proposto ricorso per cassazione il difensore di fiducia …., articolando due motivi, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen.

2.1. Deduce, con il primo motivo, violazione di legge con riferimento all’art. 8 Cedu ed all’art. 32 Cost. e correlato vizio di motivazione.
In sintesi, il ricorrente premette che presso l’immobile in questione vivono sia il proprio nucleo familiare che quello del suocero evidenziando l’indisponibilità di un altro diverso alloggio nonché delle necessarie risorse economiche per garantirsi un’altra abitazione. In seguito all’ordine di demolizione comunicato al ricorrente, in data 17.9.2018, dall’Ufficio Esecuzioni Penali della Procura di Brindisi, il […] sottoponeva al medesimo Ufficio le considerazioni tecniche dell’ing. […] dalle quali si evincerebbe che la demolizione della porzione di immobile ritenuta abusiva comporterebbe per le parti regolarmente assentite consistenti danni dovuti alle vibrazioni prodotte, nonché un nuovo assetto statico con aggravamento del quadro fessurativo già esistente. L’interessato proponeva innanzi al Tribunale di Brindisi, in funzione di giudice dell’esecuzione, un’istanza di sospensione o di revoca dell’ordine di demolizione in quanto idoneo a compromettere il diritto alla tutela dell’abitazione (art. 8 Cedu) di 7 persone e che la demolizione dei manufatti abusivi avrebbe comportato seri danni per la porzione regolarmente assentita, nonché danni irreparabili agli impianti elettrico, di gas-metano e acquedotto, i quali attraversavano senza soluzione di continuità l’intero immobile. Tale istanza è stata respinta. Ad avviso del ricorrente, il Tribunale di Brindisi sarebbe incorso nell’inosservanza di norme di cui deve tenersi conto nell’applicazione della legge penale e, segnatamente, dell’art. 38 Cedu e dell’art. 32 Cost. Il giudice dell’esecuzione si sarebbe limitato ad osservare che il diritto all’abitazione del […] sarebbe comunque garantito in considerazione del fatto che la demolizione riguarderebbe solo un ampliamento e non l’intero immobile. Tali argomentazioni sarebbero affette da vizi logici. Il diritto all’abitazione dovrebbe essere valutato in concreto e non in via meramente formale o astratta. Nel caso di specie il Tribunale avrebbe omesso di valutare che nell’immobile abitano due nuclei familiari composti da 5 adulti e 2 bambini e che, pertanto, la demolizione della parte più consistente dello stesso immobile priverebbe di fatto le predette persone del diritto di disporre di una abitazione rispondente alle condizioni minime di tutela della dignità umana stabilite dall’art. 8 Cedu. A ciò la difesa aggiunge che la demolizione degli ampliamenti comporterebbe gravi danni sia alle strutture portanti della porzione di immobile originariamente assentita, sia degli impianti elettrico, di gas-metano e acquedotto, che attraversano l’immobile senza soluzione di continuità. L’ordinanza sarebbe in ogni caso censurabile sotto il profilo motivazionale, in quanto non sarebbe stato scrutinato l’aspetto relativo alla compatibilità della coabitazione di 7 persone con i principi di tutela della dignità umana sanciti nella richiamata Convenzione internazionale e nella nostra Carta costituzionale. A seguito della demolizione, infatti, l’immobile risulterebbe della consistenza di pochi metri quadrati, pericolante e peraltro privo di servizi igienici ed impianti funzionanti.

2.2. Deduce, con il secondo motivo, violazione di legge con riferimento agli artt. 31 e 34 T.U. Edilizia e correlato vizio motivazionale.
In sintesi, si sostiene che il Tribunale di Brindisi sarebbe incorso in un vizio di motivazione atteso che lo stesso avrebbe erroneamente sminuito la valenza scientifica delle argomentazioni del CTP sulla scorta di una parziale e comunque errata lettura dell’elaborato tecnico. Sebbene l’ing. […] abbia affermato che le proprie valutazioni erano basate su un controllo visivo e sui documenti ricevuti dal proprietario dell’immobile, ciò avrebbe costituito solo la premessa di un ragionamento più ampio, che nella sua complessiva articolazione risulterebbe sorretto da solide evidenze scientifiche, sfociando in conclusioni inequivocabili. Le informazioni essenziali raccolte dal proprietario avrebbero costituito solo la premessa dell’esame tecnico, trovando le stesse successivamente conforto in evidenze logico-scientifiche delle quali l’ing. […] avrebbe dato atto nella propria relazione, giungendo ad affermare in termini di assoluta certezza che “l’eventuale demolizione dei corpi di fabbricati 1 e 2 … comporterebbe un indubbio danneggiamento dell’immobile”. Il giudice dell’esecuzione non avrebbe confutato tale conclusione con argomentazioni scientifiche di segno contrario o comunque tramite una adeguata motivazione).

3. Il Procuratore Generale presso questa Corte […] con requisitoria scritta depositata in data 9.10.2019, ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso. Rilevato che il ricorrente denunzia la violazione di legge e la manifesta illogicità della motivazione per l’impossibilità giuridica e materiale di procedere alla demolizione della parte abusiva dell’immobile, edificato su un edificio parzialmente assentito, il PG, ritiene che la questione sollevata attiene al merito della procedura di esecuzione ed alla interpretazione, che non appare né illogica né infondata dal tenore della C.T.P. depositata dall’interessato, peraltro su informazioni prive di oggettività. Ne consegue che appare precluso in sede di legittimità un ulteriore vaglio di merito sulla questione, donde la richiesta che il ricorso venga dichiarato inammissibile.

CONSIDERATO IN DIRITTO

4. Il ricorso è infondato.

5. Il primo motivo è infondato.

5.1. Al fine di giustificare tale approdo valutativo, devono essere svolte alcune considerazioni sul tema oggetto della doglianza, difensiva, ossia quello del rapporto tra diritto all’abitazione e ordine di demolizione.
Orbene, il diritto all’abitazione è riconducibile alla categoria dei diritti sociali i quali trovano legittimazione nel secondo comma dell’art.3 Cost.: il principio di uguaglianza non viene garantito solo in senso formale (art. 3, co. 1, Cost), ma anche in senso sostanziale sicché, mediante l’eliminazione degli ostacoli sociali ed economici, viene garantito al singolo il godimento dei diritti fondamentali collegati allo sviluppo della propria personalità. La riconducibilità del diritto all’abitazione agli artt. 2 e 3 Cost., sebbene manchi un riferimento espresso e testuale “diritto all’abitare”, comporta il dovere dello Stato di intervenire positivamente per dare concreta attuazione al precetto costituzionale.

5.2. Il diritto all’abitazione ha assunto rilievo anche a livello internazionale. Primo riconoscimento si rinviene nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, e precisamente all’art. 25, co.1, in base al quale “Ogni individuo ha diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione, alle cure mediche e ai servizi sociali necessari“. Analogamente l’art. 11 del Patto internazionale del 1966, relativo ai diritti economici, sociali e culturali, prevede che “Gli Stati parte del presente Patto riconoscono il diritto di ogni individuo ad un livello di vita adeguato per sé e per la propria famiglia, che includa un’alimentazione, un vestiario ed un alloggio adeguati, nonché il miglioramento continuo delle proprie condizioni di vita“. In capo agli Stati sorgono pertanto anche obblighi di carattere positivo, ossia di protezione e promozione.

5.3. Il diritto di abitazione è stato oggetto anche dell’attenzione della Corte EDU.
Sul tema assume innanzitutto rilievo l’art. 1 Prot. 1 Cedu posto a tutela del diritto di proprietà. Tale articolo, secondo la giurisprudenza della medesima Corte, sarebbe costituito da tre norme: 1) la prima, di carattere più generale (co.1), enuncia il principio del rispetto del diritto di proprietà; 2) la seconda regola (sempre co.1) le ipotesi di privazione della proprietà, le quali vengono subordinate alla sussistenza di determinate condizioni; 3) l’ultima, (co.2) concerne invece la regolamentazione dell’uso dei beni riconosciuta in capo allo Stato nell’ottica del perseguimento dell’interesse generale. Difettando una precisa definizione del termine “proprietà”, esso ha assunto un significato autonomo rispetto a quello riconosciuto nei diversi ordinamenti statali, venendo riconosciuta la tutela anche a situazioni di mero fatto, ergo a prescindere dalla effettiva titolarità del diritto (caso Beyeler c. Italia: il ricorrente aveva acquistato un quadro soggetto a vincolo culturale, non rispettando quanto imposto dalla legge italiana per la validità del relativo contratto di compravendita, sicché rispetto allo stesso lo Stato aveva esercitato il proprio diritto di prelazione, ma solo all’atto di rivendita del bene. La Corte Edu ha dato rilievo all’atteggiamento tollerante manifestato dall’autorità statale, giungendo ad accertare la violazione dell’art. 1, Prot. 1 da parte dello Stato italiano, sebbene non fosse stata rispettata la normativa nazionale).
Ancora, si richiama il caso Oneryilditz c. Turchia, in cui il ricorrente aveva costruito una baracca su un terreno pubblico, occupato abusivamente. Elemento determinante, ancora una volta, è stato individuato nella tolleranza delle autorità statali protratta nel tempo, non avendo esse provveduto ad adottare le misure necessarie ad evitare l’abusiva situazione, ovvero a porvi rimedio. Il ricorrente era stato pertanto ritenuto titolare di un interesse patrimoniale sostanziale rispetto all’abitazione.
Ancora, rileva il caso Hamer c. Belgio, in cui il ricorrente utilizzava il bene come casa di villeggiatura, sebbene la stessa fosse stata edificata senza permesso di costruire in zona sottoposta a vincolo di inedificabilità. La Corte EDU ha dichiarato l’avvenuta violazione da parte dello Stato belga dell’art. 1, Prot. 1, in quanto l’inattività dell’autorità pubblica si era protratta per oltre 25 anni, difettando una precedente contestazione dell’illegittimità della condotta).

5.4. Conseguenza evidente di tale orientamento giurisprudenziale è l’estensione della tutela anche a situazioni in cui l’oggetto della proprietà siano immobili realizzati contra ius, sottraendo gli agenti all’applicazione della legge nazionale in materia urbanistica ed edilizia e riconoscendo tutela (a prescindere dalla buona/mala fede dell’agente) ad una situazione giuridica non riconosciuta come tale nell’ordinamento interno, con pregiudizio anche dell’interesse generale. Sebbene la Corte EDU abbia mirato ad estendere i confini di tutela del diritto di proprietà, devono essere correttamente interpretate le conseguenze derivanti alla luce del singolo caso concreto, dovendosi tenere conto della natura eminentemente casistica delle decisioni della Corte EDU che, proprio per tale ragione, non sempre può consentire l’estrapolazione di principi di diritto valevoli in maniera assoluta.

5.5. Al fine di individuare i confini della tutela riconosciuta al diritto di abitazione, insieme alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo relativa all’art. 1 Prot. 1 Cedu, è necessario considerare anche quella concernente l’art. 8 della Convenzione.
Nel caso Ivanova e Cherkezov c. Bulgaria, a seguito della realizzazione di un immobile in assenza di permesso di costruzione, era stato indetto dall’autorità pubblica un bando di gara rivolto alle compagnie private per la demolizione dell’opera abusiva. La Corte EDU ha ritenuto legittima l’interferenza statale in quanto fondata sulla normativa interna, e tale doveva essere dichiarata anche la demolizione. La ricorrente aveva fondato le proprie censure sul pregiudizio alla medesima derivante dall’eventuale demolizione dell’immobile, costituente la sua unica casa. Sul punto la Corte ha ritenuto indefettibile un giudizio di proporzionalità della misuraapplicata dallo Stato ove il soggetto destinatario della stessa rischi di perdere lapropria abitazione. Nel caso in esame l’intervento statuale è stato ritenuto sproporzionato dal momento che, in applicazione delle disposizioni del diritto processuale amministrativo bulgaro, i ricorrenti avrebbero potuto solo ottenere un differimento temporaneo della misura, ma non anche un esame completo della sua proporzionalità. La Corte ha inoltre escluso che il bilanciamento tra il diritto all’abitazione e l’interesse pubblico all’effettiva applicazione delle norme in materia edilizia possa esplicarsi in termini assoluti e, quindi, in via generale, dovendo piuttosto procedersi caso per caso, tenuto conto delle peculiarità della fattispecie concreta. L’obbiettivo perseguito mediante l’ordine di demolizione, è quello di garantire il ripristino dello status quo ante, in modo tale da ristabilire l’ordine giuridico violato dal comportamento dell’autore dell’abuso edilizio, così scoraggiando anche eventuali ulteriori trasgressori. L’interesse generale della collettività al rispetto della normativa nazionale si presenta, pertanto, come un limite idoneo della tutela dell’interesse patrimoniale del singolo. In ogni caso, non può prescindersi da un giudizio di proporzionalità dell’azione statale, pena la violazione dell’art. 8 CEDU. La Corte ha inoltre negato che l’esecuzione dell’ordine di demolizione possa configurare una violazione dell’art. 1 Prot. 1: la misura persegue, come sopra evidenziato, uno scopo legittimo, garantendo l’effettiva attuazione della normativa interna in materia, sicché essa potrebbe essere ricondotta alla “prevenzione dei disordini”, finalizzata a promuovere il “benessere economico del paese (art. 8, co.2, Cedu).

5.6. La Corte di Cassazione non ha mancato di marcare i confini operativi della sentenza summenzionata.
Il giudice di legittimità ha in primis sottolineato che, dalla giurisprudenza CEDU, si ricava anzitutto il principio dell’interesse dell’ordinamento all’eliminazione, in luogo della confisca, delle opere incompatibili con le disposizioni urbanistiche.
Nel caso Sud Fondi c. Italia, ancora, la Corte EDU ha affermato che l’interesse dell’ordinamento nazionale è quello di abbattere l’immobile abusivamente realizzato, ripristinando l’ordine giuridico violato e garantendo il rispetto delle disposizioni urbanistiche applicabili. La demolizione configurerebbe una legittima sanzione ripristinatoria, e l’interesse con essa perseguito deve ritenersi prevalente sul diritto all’abitazione dell’immobile abusivamente realizzato. È stata negata, tra l’altro, la funzione punitiva dell’ordine di demolizione, non costituendo un elemento della pena irrogata all’agente, ma essendo piuttosto strumentale al ristabilimento dello status quo ante, con eliminazione delle conseguenze dannose della condotta illecita. Richiamando la sopra citata sentenza della Corte Edu, si è escluso che la demolizione dell’opera abusiva possa legittimamente avvenire solo ove il condannato abbia a disposizione un alloggio alternativo, ovvero qualora a ciò abbia provveduto lo Stato, non potendosi riconoscere un diritto assoluto all’inviolabilità del domicilio e, dunque, dell’abitazione (art. 8 Cedu), tale da precludere l’esecuzione dell’ordine di demolizione dell’opera abusiva. Ciò che invece hanno dichiarato indefettibile i giudici di Strasburgo è una valutazione, caso per caso, finalizzata al bilanciamento del diritto del singolo alla tutela dell’abitazione e dell’interesse dello Stato ad impedire l’esecuzione di interventi edilizi in assenza di un regolare titolo abilitativo, ossia in altri termini gli interessi tutelati mediante la concreta applicazione della normativa in materia edilizia e territorio.
Alla luce della giurisprudenza sovranazionale, la Corte di Cassazione ha affermato che l’esecuzione dell’ordine di demolizione di un immobile abusivo non contrasta con il diritto al rispetto della vita privata e familiare e del domicilio di cui all’art. 8 CEDU, posto che, non essendo desumibile da tale norma la sussistenza di alcun diritto “assoluto” ad occupare un immobile, anche se abusivo, solo perché casa familiare, il predetto ordine non viola in astratto il diritto individuale a vivere nel proprio legittimo domicilio, ma afferma in concreto il diritto della collettività a rimuovere la lesione di un bene o interesse costituzionalmente tutelato e a ripristinare l’equilibrio urbanistico-edilizio (Cass., Sez. III, 20 agosto 2019, n. 36257; Cass., Sez. III, 8 aprile 2019, n. 15141).

6. Tanto premesso, tenuto conto della giurisprudenza nazionale, nonché di quella sovranazionale, in cui si sottolinea che il diritto all’abitazione non può essere qualificato come assoluto, dovendo lo stesso essere comparato con l’interesse della collettività all’effettiva applicazione della normativa in materia edilizia, deve ritenersi che l’ordine di demolizione non costituisce una sanzione penale, bensì una misura funzionalmente diretta al ripristino dello status quo ante, la cui non esecuzione è limitata ad ipotesi specificamente individuate dal legislatore (come la c.d. fiscalizzazione ex art. 34 TU Edilizia).

7. Nel caso in esame, la demolizione ordinata non può, d’altronde, essere considerata sproporzionata rispetto all’interesse del singolo, tenuto conto, come rilevato dal giudice dell’esecuzione, che essa concerne unicamente una porzione dell’opera, ossia un suo ampliamento, e non essa nella sua interezza (“gli abusi edilizi accertati riguardano unicamente interventi di ampliamento rispetto al fabbricato preesistente … tale unità immobiliare originaria…è composta da 5 vani; conseguentemente l’ordine di demolizione impartito dall’a.g., siccome riguardante solo gli interventi in ampliamento, non pregiudica affatto il diritto all’abitazione del […], che continuerebbe legittimamente ad esplicarsi rispetto al fabbricato preesistente, non interessato dall’ordine di demolizione“- ordinanza impugnata pag. 1).

8. Anche il secondo motivo è infondato.

8.1. Ed invero, in relazione al disposto dell’art. 34 d.p.r. n. 380/2001, deve osservarsi che la c.d. fiscalizzazione dell’abuso edilizio, operante ove la rimozione della porzione abusiva del manufatto realizzato non possa avvenire senza pregiudizio per la restante parte, eseguita in conformità, prevede che il dirigente ovvero il responsabile dell’ufficio comunale competente possa procedere alla determinazione di una sanzione pecuniaria, sostitutiva della eliminazione delle parti realizzate abusivamente. È evidente la eccezionalità di tale strumento, sicché non ne è consentita una applicazione oltre i precisi confini ex lege fissati. Il legislatore fa riferimento esclusivamente alle ipotesi in cui sussista solo una parziale difformità, al netto del limite di tolleranza individuato dall’ultimo comma del medesimo art. 34, la cui percentuale ha quale parametro di riferimento “le misure progettuali” fra quanto oggetto del permesso a costruire e quanto invece realizzato (Cass., Sez. III, 24 maggio 2010, n. 19538).
Tale procedura non è configurabile come una sanatoria dell’abuso edilizio, la quale estingue, ex art. 45, co.3, D.P.R. 309/1990, il corrispondente reato. La “fiscalizzazione”, infatti, non integra una regolarizzazione dell’illecito, né ovviamente autorizza il completamento delle opere realizzate, venendo le parti abusive tollerate, nello stato in cui si trovano, solo in funzione di conservazione di quelle realizzate legittimamente (Cass., Sez. III, 11 maggio 2018, n. 28747). Si precisa, inoltre, la diversità delle nozioni di totale e parziale difformità di un immobile abusivo, nozioni tra loro antitetiche, dalle quali discende anche un diverso approccio valutativo e comparativo (Cass., Sez. III, 21 novembre 2018, n. 55372). La parziale difformità implica la sussistenza di un titolo abilitativo descrittivo di uno specifico intervento costruttivo, al quale si pervenga all’esito della fase realizzativa, seppure secondo caratteristiche in parte diverse da quelle fissate a livello progettuale. Diversamente, il concetto di totale difformità presuppone un intervento costruttivo che, considerato complessivamente, sia qualificabile, ai sensi dell’art. 31 del D.P.R. n. 380 del 2001, come “un organismo edilizio integralmente diverso per caratteristiche tipologiche, planovolumetriche o di utilizzazione da quello oggetto del permesso stesso…”. Conseguentemente, mentre il metodo valutativo utilizzabile per definire il concetto di “parziale difformità” ha carattere analitico, quello destinato ad accertare la “totale difformità” si fonda su una valutazione di sintesi, collegata alla rispondenza o meno del risultato complessivo dell’attività edilizia rispetto a quanto è stato rappresentato nelle previsioni progettuali, le uniche prese in considerazione in fase di assenso amministrativo (Cass.,Sez. III, 18 giugno 2014, n. 40541).

8.2. Tale diversità consente di comprendere anche le diverse scelte sanzionatorie operate dal legislatore, prevedendosi l’incondizionata demolizione in caso di interventi realizzati “in assenza di permesso, in totale difformità dal medesimo ovvero con variazioni essenziali”, ex art. 31, co. 2, D.P.R. n. 380/01, mentre l’ordine di demolizione può non trovare esecuzione per abusi realizzati in parziale difformità “quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità”, ai sensi dell’art. 34, co.2, D.P.R. n. 380/01.
In entrambe le ipotesi, comunque, è richiesta l’avvenuta adozione di un titolo abilitativo rilasciato dall’autorità amministrativa, con il quale sia stato dato assenso alla realizzazione di un programmato intervento edilizio. Diversa, è invece l’ipotesi di un abuso intervenuto in mancanza del suddetto titolo rispetto al quale confrontare gli esiti della successiva fase. Questa Corte ha precisato che “laddove ci si riferisce a parziale o totale difformità fra quanto eseguito e quanto assentito deve essere preso in considerazione esclusivamente il corpus delle opere oggetto di attuale intervento; nel senso che non integra certamente un’ipotesi di parziale difformità, costituendo, viceversa, un intervento in assenza di permesso, la realizzazione di un manufatto del tutto nuovo, ancorché esso sia innestato su di una preesistente struttura di per sé conforme agli strumenti ed alle prescrizioni urbanistiche” (Cass., Sez. III, 16 giugno 2016, n. 16548). Pertanto, ove un immobile sia stato già realizzato, anche se legittimamente, gli ulteriori, successivi interventi operati su di esso, in assenza di nuovo titolo abilitativo, anche qualora non stravolgano l’organismo edilizio, non possono essere qualificati come opere realizzate in “parziale difformità”, stante l’assenza del necessario parametro di riferimento, rectius il titolo abilitativo che abbia autorizzato l’intervento e cui comunque deve riconnettersi la parte parzialmente difforme.

9. Tanto premesso, relativamente alla negata applicazione dell’art. 34 TUE, dal testo della ordinanza si evince che il consulente tecnico del ricorrente non ha fornito dati scientificamente attendibili idonei a dimostrare l’effettiva incidenza della demolizione parziale sull’intero immobile. In sede di legittimità, d’altronde, non è possibile censurare la valutazione operata dal giudice del merito di elementi probatori, ove sulla posizione assunta sui medesimi il giudice abbia dato motivazione, logica e non contraddittoria, in sentenza. La situazione limite riconducibile all’art. 125 c.p.p. (assenza, manifesta illogicità o contraddittorietà della motivazione) non è riscontrabile nel caso in esame.

10. È comunque opportuno precisare, inoltre, che l’art. 34 sopra citato non è applicabile al caso di specie. Nella sentenza di condanna (Tribunale di Brindisi, n. …) si legge testualmente che “dell’indubbio carattere abusivo delle opere realizzate che, importando un incremento della volumetria e della superfice ed una sostanziale trasformazione dell’originario fabbricato…necessitavano del previo rilascio del permesso di costruire…“.
È stato accertato, pertanto, che l’opera abusiva realizzata non risultava (solo) difforme parzialmente dal titolo abilitativo previamente rilasciato, ma che la medesima difettava del necessario permesso di costruire, configurandosi pertanto una ipotesi non riconducibile – secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione – all’art. 34 TUE (“laddove ci si riferisce a parziale o totale difformità fra quanto eseguito e quanto assentito deve essere preso in considerazione esclusivamente il corpus delle opere oggetto di attuale intervento; nel senso che non integra certamente un’ipotesi di parziale difformità, costituendo, viceversa, un intervento in assenza di permesso, la realizzazione di un manufatto del tutto nuovo, ancorché esso sia innestato su di una preesistente struttura di per sé conforme agli strumenti ed alle prescrizioni urbanistiche”: Cass., Sez. III, 16 giugno 2016, n. 16548).

11. Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato […]