[…]
MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE
[…] conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Ragusa la madre […] ed i fratelli […] e […] per ottenere lo scioglimento della comunione ereditaria sorta a seguito del decesso del padre […]. I convenuti aderivano alla domanda, ma chiedevano di tenere conto ai fini della collazione, della donazione ricevuta dall’attrice con atto pubblico del 1968 e della presenza nel relitto della somma di £. 100.00.000, trattandosi di una donazione affetta da nullità per vizio di forma.
L’attrice a sua volta deduceva che i fratelli avevano ricevuto una donazione indiretta, essendo stato loro fornito dal padre il denaro per l’acquisto di un immobile in […].
Il Tribunale con la sentenza non definitiva n. 564/2010 dichiarava rinunciata dall’attrice la domanda concernente la collazione della donazione indiretta effettuata in favore dei germani, ma dichiarava nulla per difetto di forma la donazione della somma di £. 90.000.000 fatta dal de cuius all’attrice nel gennaio 1994, con l’obbligo della donataria di imputare detta somma alla sua quota, aggiungendo che andava portata in collazione anche la donazione della somma di sei milioni di lire fatta dal de cuius a […].
Con successiva sentenza definitiva n. 116/2011 il Tribunale scioglieva la comunione ereditaria assegnando ad ognuno dei convenuti uno dei tre lotti individuati dal CTU, dichiarando che ognuno dei convenuti doveva alla sorella […] un conguaglio in denaro, atteso che la quota successoria di quest’ultima era assorbita dai donativi fatti in vita dal genitore e dal debito di cui alla donazione nulla, da imputare alla sua quota. Infine compensava il credito da conguaglio fino alla concorrenza con il controcredito dei convenuti scaturente dall’avere estinto dei debiti ereditari.
La Corte d’Appello di Catania con la sentenza n. 401 del 10 marzo 2016 nel decidere sull’appello principale dell’attrice e sull’appello incidentale dei convenuti, a modifica della sentenza non definitiva, dichiarava che la donazione nulla aveva ad oggetto solo la metà della somma indicata dal Tribunale e per l’effetto rideterminava la misura della quota vantata dall’attrice in € 34.339,27.
In primo luogo riteneva corretta la decisione del Tribunale che aveva ravvisato una rinuncia dell’attrice a far valere la collazione di una pretesa donazione indiretta effettuata in favore dei germani, posto che le conclusioni rese nell’apposita udienza avevano fatto rinvio solo a quelle di cui all’atto di citazione, il che escludeva che si potesse tenere conto di quelle diverse richieste formulate in corso di causa.
Risultava invece fondato il mezzo di gravame volto a contestare la circostanza che l’appellante avesse ricevuto in donazione l’intera somma di £. 90.000.000.
Infatti agli atti vi erano nove vaglia cambiari dell’importo di £. 10.000.000 cadauno girati in favore del marito dell’appellante e di […]; tuttavia dalla deposizione di quest’ultimo doveva trarsi il convincimento che si trattava di somme erogate dal de cuius per far fronte all’obbligo di ricapitalizzare le casse della società di cui […], così che si trattava all’evidenza di una donazione indiretta posta in essere sotto forma di adempimento del debito altrui.
Tuttavia beneficiari della donazione erano sia la figlia del donante che il di lei marito, che del pari aveva tratto vantaggio dall’emissione degli assegni, con la conseguenza che la somma da imputare alla quota della appellante era pari a £. 45.000.000.
A seguito di tale statuizione, occorreva quindi rideterminare le somme ancora dovute alla attrice, al netto di quanto la stessa deve imputare per donazioni ricevute in vita e del debito di £. 45.000.000.
Inoltre, la Corte distrettuale rigettava l’appello incidentale con il quale si riproponeva la questione di legittimità costituzionale dell’art. 751 c.c. in punto di rivalutazione delle donazioni di denaro da portare in collazione, facendosi richiamo a quanto già manifestato dalla Consulta nell’ordinanza del 27/7/1989.
Quanto infine alle spese di lite, condannava gli appellati al pagamento della metà delle spese del grado di appello, compensando la residua parte.
Per la cassazione di tale sentenza propongono ricorso […], […], sulla base di tre motivi.
[…] resiste con controricorso proponendo a sua volta ricorso incidentale affidato ad un motivo.
Il primo motivo di ricorso denunzia la violazione e falsa applicazione degli artt. 2033, 1292 e 737 e ss. c.c., in quanto sarebbero state violate le norme in tema di collazione. In primo grado si era, infatti, richiesto di accertare la nullità per vizio di forma della donazione della somma di £. 90.000.000 effettuata dal de cuius in favore dell’attrice, richiesta che era stata appunto accolta dal Tribunale.
I giudici di appello, senza però che vi fosse un’espressa richiesta in tal senso, hanno ravvisato una donazione effettuata oltre che in favore dell’attrice anche del di lei marito.
Inoltre, consentendo l’imputazione della donazione de qua alla quota della sorella sarebbe stata violata la previsione in tema di ripetizione dell’indebito che imponeva alla donataria di dover restituire alla massa la somma ricevuta invalidamente in donazione.
Il motivo è evidentemente destituito di fondamento.
Ed, invero, va esclusa la violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, che pur sembra profilarsi dalla difesa dei ricorrenti, laddove denunziano l’accoglimento di un argomento mai sollevato dall’appellante, atteso che con il gravame l’attrice aveva inteso contestare in radice l’esistenza di una donazione in suo favore mediante l’emissione degli assegni utilizzati come forma di finanziamento della società della quale era socia.
I giudici di appello, sulla scorta degli elementi fattuali ritualmente acquisiti in giudizio, se da un lato hanno disatteso la tesi secondo cui non potesse parlarsi nella fattispecie di una donazione, ritenendo che fosse evidente l’intento del de cuius di compiere una liberalità mediante l’adempimento del debito gravante sulla figlia e sul genero nei confronti della società, hanno però ritenuto che gli stessi fatti allegati denotassero l’esistenza di una liberalità effettuata in favore anche del genero, il quale era a sua volta socio, e quindi obbligato in relazione al debito che è stato estinto con la somma offerta dal de cuius.
Trattasi quindi a bene vedere dell’esercizio del potere spettante al giudice di provvedere alla qualificazione dei fatti sottoposti alla sua attenzione, qualificazione che appare adeguatamente e correttamente argomentata.
Quanto invece alle modalità con le quali si è tenuto conto ai fini delle operazioni divisionali della donazione de qua, oltre a doversi evidenziare che il metodo al quale si è conformato il giudice di appello è il medesimo al quale si era attenuto il Tribunale, e senza che sul punto fossero state sollevate censure da parte degli appellati, essendosi semplicemente modificata l’individuazione dei valori matematici sulla scorta dei quali determinare l’ammontare della quota successoria ancora spettante alla originaria parte attrice, la censura si rivela del pari priva di fondamento. Ed, invero, oltre a potersi rilevare che dalla sentenza di appello traspare la convinzione che la donazione de qua, piuttosto che essere stata considerata nulla in quanto compiuta in assenza della prescritta forma, è stata qualificata in termini di donazione indiretta, sub specie di adempimento del debito altrui, e come tale suscettibile di essere portata in collazione, va evidenziato che, anche a voler tenere ferma la qualificazione in termini di donazione nulla, il criterio seguito dalla sentenza gravata è corretto in quanto corrispondente a quanto dettato dalla legge, così come interpretata dalla giurisprudenza di questa Corte.
In tal senso valga il richiamo a quanto affermato da Cass. n. 20633/2014, a mente della quale, qualora la donazione di danaro fatta in vita dal “de cuius” sia dichiarata nulla, la relativa somma diviene oggetto di un credito del “de cuius” verso l’erede donatario, alla cui quota la somma stessa deve essere imputata, a norma dell’art. 724, secondo comma, cod. civ., e ciò quindi conformemente a quanto statuito dai giudici di appello nel caso in esame.
Il secondo motivo denunzia la violazione dell’art. 727 e 728 c.c. in quanto secondo la prima norma le quote devono rispettare il criterio della omogeneità, non solo quantitativo, ma anche qualitativo.
Il motivo è evidentemente destituito di fondamento.
Ed, infatti, oltre a segnalare la stessa parte ricorrente che la disomogeneità delle quote era già presente nella divisione approvata dal Tribunale (e senza che fosse stato sollevato uno specifico mezzo di gravame), i ricorrenti appaiono consapevoli del principio costantemente ribadito da questa Corte secondo cui (cfr. Cass. n. 573/2011) il principio di omogeneità indicato nell’art. 727 cod. civ., secondo il quale le porzioni di ciascuno dei condividenti devono essere formate in modo da avere beni mobili ed immobili o crediti di uguale natura o qualità, non è assoluto, ma indica soltanto un criterio di massima dal quale il giudice può discostarsi non solo nelle ipotesi espressamente previste dagli art. 720 e 722 cod. civ., ma anche quando la rigorosa applicazione del principio determinerebbe un pregiudizio del diritto dei condividenti a conseguire una porzione di valore proporzionalmente corrispondente a quella spettante singolarmente sulla massa, come potrebbe verificarsi in caso di diseguaglianza delle quote (conf. ex multis Cass. n. 15105/2000).
Nel caso di specie il motivo appare del tutto generico quanto alla deduzione circa la possibilità di assicurare una formazione omogenea delle quote, ed inoltre laddove denunzia il difetto di motivazione circa la scelta operata dal giudice di appello (che sul punto ricalca quella del Tribunale, come detto non censurata in appello), omette di considerare che a differenza delle quote spettanti ai ricorrenti, quella dell’attrice risultava quantitativamente differente da quella degli altri condividenti, essendo in consistente parte già assorbita dalle liberalità ricevute e dall’obbligo di imputazione ex art. 724 co. 2 c.c., residuando quindi un importo tale evidentemente da non poter essere soddisfatto mediante attribuzioni immobiliari.
Il terzo motivo si articola a sua volta in tre punti.
Nel primo si lamenta che, pur essendosi disposta la compensazione delle spese di appello nella misura di un terzo, gli appellati erano stati condannati alla restituzione degli esborsi nella somma di € 1.592,00, laddove nella nota specifica, le spese vive sostenute dall’appellante erano state quantificate nell’ammontare di € 528,00.
Il motivo difetta evidentemente del requisito di specificità di cui all’art. 366 co. 1 n. 6 c.p.c. nella parte in cui omette di riportare il contenuto della nota spese invocata, omettendo altresì di indicare con precisione in quale sede processuale tale documento sia attualmente reperibile.
Il secondo punto denunzia che sia illegittima la condanna, sia pur parziale, al rimborso delle spese di appello, in assenza di soccombenza da parte degli appellati.
In realtà la stessa deduzione difensiva parte dal presupposto che il motivo di appello concernente l’entità della donazione effettivamente ricevuta dall’appellante sia stato illegittimamente accolto, sulla base di quanto dedotto nel primo motivo di ricorso. Tuttavia, una volta disatteso tale mezzo di impugnazione, e ritenuta quindi corretta la statuizione resa sul punto dalla Corte distrettuale, deve ritenersi del pari incensurabile la valutazione dei giudici di appello che, ravvisando la prevalente soccombenza degli appellati, hanno ritenuto di dover porre a carico di questi ultimi parte delle spese del giudizio di secondo grado.
Il terzo motivo lamenta poi che sia errata la quantificazione delle spese di lite sulla base dello scaglione relativo al valore dell’intero asse ereditario, occorrendo invece procedere in base allo scaglione corrispondente al valore della donazione affetta da nullità.
A tal riguardo si evidenzia che in alcun modo il giudice di appello ha indicato lo scaglione in base al quale ha provveduto alla liquidazione, essendosi limitato solo ad indicare la somma riconosciuta in favore dell’appellante principale per ognuna delle fasi processuali.
L’individuazione dello scaglione di riferimento appare frutto di una deduzione personale dei ricorrenti, ma in mancanza di un’espressa adesione del giudice di appello ad uno specifico scaglione di valore, la censura concernente la liquidazione delle spese avrebbe dovuto essere supportata con il richiamo alla pretesa violazione dei massimi tariffari, censura che invece non risulta essere stata proposta.
Anche il terzo motivo del ricorso principale deve quindi essere disatteso.
Il motivo del ricorso incidentale denunzia la violazione dell’art. 769 c.c. nonché vizio di motivazione ex art. 360 co. 1 n. 5 c.p.c.
Il motivo appare però complessivamente volto a sollecitare una non consentita rivalutazione dei mezzi istruttori, lamentandosi, in maniera non più permessa, a seguito della novella del 2012, una non adeguata motivazione circa la valutazione delle prove, contestandosi ad esempio il giudizio di attendibilità espresso nei confronti del teste […].
Quanto invece all’affermazione secondo cui la causa sarebbe stata decisa avvalendosi indebitamente di un certificato camerale tardivamente prodotto dalle controparti nel giudizio di primo grado, oltre a doversi evidenziare che trattasi di questione nuova e che non era sufficiente sollevare nel corso del giudizio di primo grado, dovendo poi essere reiterata in appello con apposito mezzo di gravame, valga osservare che la valutazione circa la qualità di socia della ricorrente incidentale non risulta che la Corte d’Appello l’abbia tratta da tale documento, ma, come si evince dalla lettura della motivazione, dalla deposizione testimoniale del teste […], nella quale questi ha riferito circa la qualità di socia dell’attrice.
Anche tale motivo deve quindi essere rigettato.
Attesa la reciproca soccombenza ricorrono i presupposti per compensare integralmente le spese del presente giudizio […]