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RITENUTO IN FATTO
[…]
2.1. Con il primo motivo si deduce vizio della motivazione ai sensi dell’art. 606 comma 1, lett. e), cod. proc. pen. per non avere la Corte territoriale risposto alla questione dedotta nella discussione finale con riguardo alla diversità del fatto contestato rispetto al fatto per il quale era intervenuta condanna, sul rilievo che la violazione accertata era relativa alla inosservanza del permesso di uscita concesso al ricorrente e di cui non vi era menzione nell’imputazione ascritta, con la conseguente nullità della sentenza ai sensi degli artt. 521 e 522 cod. proc. pen.
2.2. Con il secondo motivo si deduce la violazione di legge processuale in relazione alla dichiarata inammissibilità della richiesta di applicazione della causa di non punibilità prevista dall’art. 131-bis cod. pen. perché avanzata solo in sede di discussione e non dedotta con la proposizione di motivi aggiunti ai sensi dell’art. 585 cod. proc. pen., “senza tenere conto della circostanza che i motivi aggiunti devono riferirsi comunque ai motivi legittimamente posti nel ricorso principale” e che si tratta di “ius superveniens successivo alla sentenza di primo grado”;
2.3. Con il terzo motivo si deduce […].
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. In ordine al primo motivo si deve innanzitutto chiarire se la questione di nullità della sentenza per fatto diverso, non avanzata in sede di formulazione dei motivi dell’atto di appello, ma sollevata per la prima volta nel corso della discussione del gravame, debba essere o meno rilevata di ufficio dal giudice dell’appello. La questione è stata affrontata già da questa Corte che ha affermato il principio secondo cui la diversità del fatto accertato rispetto a quello contestato può e deve essere rilevata d’ufficio dal giudice d’appello ogni qual volta è investito, con l’atto di impugnazione, della richiesta di verificare la sussistenza dell’addebito, perché il principio di devoluzione non implica che la specifica questione sia stata dedotta con l’atto di impugnazione, ma solo che la stessa attenga al punto della decisione interessato dall’atto di appello. Dall’affermata esistenza del potere/dovere del giudice di appello di rilevare di ufficio l’eventuale difetto di correlazione tra l’accusa formulata ed i fatti accertati in ogni caso in cui è investito, con l’atto di impugnazione, della richiesta di verificare la sussistenza dell’addebito, deriva l’obbligo per il giudice dell’appello di fornire puntuale risposta nel merito quando una delle parti, nel corso del giudizio davanti a lui, sollevi la relativa questione. L’omissione di una risposta nel merito alla specifica richiesta di una delle parti in proposito implicando l’inosservanza dell’obbligo di motivazione può costituire causa di nullità della sentenza d’appello. Tuttavia, nel caso di specie non conoscendosi quale sia stato il contenuto preciso delle argomentazioni dedotte dalla difesa in sede di discussione, non emergendone traccia dal verbale dell’udienza, non può neppure ravvisarsi la dedotta nullità per mancanza di motivazione in ordine ad una questione che non costituendo motivo di gravame, oltre che per la mancata specificazione del suo fondamento di fatto, non consente neppure l’individuazione precisa delle questioni che sono state concretamente ed effettivamente proposte al giudice dell’appello. La questione deve comunque ritenersi nel merito manifestamente infondata desumendosi dalla motivazione della sentenza di appello che l’imputato, avendo fornito in sede di esame la giustificazione della propria condotta, era perfettamente a conoscenza che la contestazione riguardava … . Quindi, la sua difesa è stata articolata conformemente alla specifica violazione accertata, come si evince dalla giustificazione fornita dall’imputato …. Si deve rilevare, inoltre, che la questione è stata posta in modo fuorviante perché dalla stessa doglianza del ricorrente si evince che la violazione di legge eccepita attiene al diverso aspetto della sufficiente determinatezza della descrizione del fatto, e non a quello dedotto della diversità del fatto ritenuto in sentenza rispetto al fatto contestato.
Sotto tale profilo si deve ribadire il principio già affermato da questa Corte secondo cui ai fini della completezza dell’imputazione, è sufficiente che il fatto sia contestato in modo da consentire la difesa in relazione ad ogni elemento di accusa, anche attraverso il richiamo al contenuto di atti presupposti noti all’imputato e che concorrono ad integrare la descrizione del fatto. Inoltre l’indeterminatezza dell’imputazione generando a norma dell’art. 429, comma 2, cod. proc. pen. la nullità del decreto che dispone il giudizio, andava eccepita ai sensi dell’art. 181 cod. proc. pen. entro il termine previsto dall’art. 491, comma 1, cod. proc. pen, e pertanto non essendo stata dedotta tempestivamente nel corso del giudizio di primo grado non poteva essere più dedotta nel successivo grado di giudizio, trattandosi di una ipotesi di nullità relativa.
2. Il secondo motivo è, invece, fondato.
La causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen. può essere rilevata di ufficio dal giudice dell’appello, potendo rientrare per assimilazione alle altre cause di proscioglimento nella previsione di cui all’art. 129 cod. proc. pen. per le quali vi è l’obbligo di immediata declaratoria in ogni stato e grado del processo.
La questione è stata già affrontata ma con orientamenti contrastanti in riferimento alla rilevabilità di ufficio nella sede di legittimità.
In senso affermativo si richiama la sentenza n. 7606 de/ 16/12/2016 della Sesta Sezione, Curia, secondo cui la causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto prevista dall’art. 131-bis cod. pen., nel giudizio di legittimità, può essere rilevata d’ufficio, in presenza di un ricorso ammissibile, anche se non dedotta nel corso del giudizio di appello pendente alla data di entrata in vigore della norma, a condizione che i presupposti per la sua applicazione siano immediatamente rilevabili dagli atti e non siano necessari ulteriori accertamenti fattuali a tal fine.
In senso opposto si è espressa la sentenza n. 23174 del 21/03/2018 della Terza Sezione, Sarr., secondo cui la causa di esclusione della punibilità per la particolare tenuità del fatto, ex art. 131-bis cod. pen., non può essere dedotta per la prima volta in cassazione, se tale disposizione era già in vigore alla data della deliberazione della sentenza di appello, ostandovi la previsione di cui all’art. 606, comma 3, cod. proc. pen.
Tuttavia, avuto riguardo alla diversa sede del giudizio di merito, anche aderendo all’orientamento contrario perché maggioritario, le relative argomentazioni si attagliano unicamente al ricorso per cassazione ed anzi offrono argomenti a favore della rilevabilità di ufficio davanti al giudice di appello, ove investito da un atto di appello ammissibile pur se relativo a motivi diversi.
L’orientamento contrario formatosi con riguardo al giudizio di legittimità si fonda, infatti, sulla considerazione che «le ponderazioni sull’esistenza dei presupposti essenziali per l’applicabilità della causa di non punibilità ex art. 131-bis cod. pen. […] sono caratterizzate da un’intrinseca ed insuperabile natura di merito; e come tali sono proprie del giudizio di merito e quindi destinate ad essere tempestivamente proposte per essere poi valutate solo in tale sede».
Pertanto, nel giudizio di merito, potendo essere apprezzati tutti i presupposti della predetta causa di non punibilità, si deve ritenere ammissibile che la richiesta possa essere avanzata in sede di conclusioni nel giudizio di appello anche se non dedotta con uno specifico motivo, e comunque entro i limiti del principio devolutivo, ove i punti investiti dai motivi ammissibili dell’appello proposto attengano al merito dei fatti posti a fondamento della responsabilità ed agli ulteriori profili di fatto attinenti alle modalità della condotta, all’esiguità del danno o del pericolo, al carattere abituale della condotta, ai motivi del delinquere.
Come è stato affermato (Sez. U., n. 13681 del 25/02/2016, …, Rv. 266594) « il nuovo istituto è esplicitamente, indiscutibilmente definito e disciplinato come causa di non punibilità e costituisce dunque figura di diritto penale sostanziale », pertanto se ne deve dedurre che la sua applicazione in presenza dei relativi presupposti sostanziali non può essere rimessa alla discrezionalità del giudice, ma deve ritenersi oggetto di un vaglio obbligatorio ed indefettibile, che prescinde anche da una esplicita richiesta di parte, e che possa essere rilevata nel giudizio di appello, anche ove non sia stata dedotta come motivo specifico dell’impugnazione, purché non si tratti di appello inammissibile.
Nel caso si specie, quindi la Corte territoriale avrebbe potuto e dovuto, anche di ufficio, verificare la sussistenza dei presupposti della causa di non punibilità prevista dall’art. 131 bis cod. pen., ed in caso di esito positivo di detto vaglio, avrebbe dovuto pronunciare sentenza assolutoria in applicazione dell’art. 129 cod. proc. pen.
Invero, come evidenziato dalle Sezioni Unite, la disposizione appena citata di cui all’art. 129 cpp «ha portata generale, sistemica», e deve pertanto trovare applicazione anche in relazione all’ipotesi in cui ricorre una causa di non punibilità, quale quella di cui all’art. 131-bis cod. pen., sebbene tale evenienza, contemplata nella rubrica, non sia menzionata nel testo dell’articolo (cfr. Sez. U, n. 13681 del 25/02/2016, …, Rv. 266594, nonché Sez. U, n. 13682 del 25/02/2016, …).
Pertanto, avendo la Corte territoriale omesso di pronunciarsi al riguardo, sebbene sollecitata in sede di conclusioni, poiché investita da motivi di impugnazione che investendo il fatto, le sue modalità, il movente, la personalità dell’imputato, consentivano di affrontare in applicazione del principio devolutivo, anche tutti i profili relativi alla richiesta applicazione della causa di non punibilità di cui all’art. 131 bis cod. pen., sia sotto il profilo oggettivo che soggettivo, si deve ritenere sicuramente violata la norma di cui all’art. 129 cod. proc. pen. che impone l’obbligo di verificare, anche di ufficio, la sussistenza dei presupposti della dedotta causa di non punibilità. Si deve ritenere, invero, che sul giudice di merito gravi, anche in difetto di una specifica richiesta, l’obbligo di pronunciarsi sulla causa di esclusione della punibilità prevista dall’art. 131 bis. Cod. pen. introdotta dal DI.vo n. 28 del 16 marzo 2015, sicchè non pare dubbio che un siffatto obbligo ricorra maggiormente allorquando sia stata avanzata al riguardo specifica richiesta, sia pure per la prima volta nelle conclusioni del giudizio di appello, tanto più nel caso di specie la predetta causa di non punibilità non era ancora entrata in vigore alla data della deliberazione della sentenza di primo grado, e non poteva quindi essere avanzata in quella sede.
Per quanto osservato dalle Sezioni Unite sull’applicabilità dell’art. 129 cod. proc. pen. si deve ritenere errata l’interpretazione seguita dalla Corte territoriale secondo cui, essendo la detta normativa entrata in vigore dopo la sentenza di primo grado ma prima della presentazione dell’atto di appello, la questione doveva essere dedotta nei termini e nei modi di cui al quarto comma dell’art. 585 cod. proc. pen., ovvero con la presentazione di un motivo nuovo e non in sede di discussione, come è avvenuto, per cui il ricorrente sarebbe incorso nella decadenza sancita dal quinto comma.
Ne consegue l’annullamento della sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Napoli per verificare la sussistenza dei presupposti di fatto previsti per l’applicazione della causa di non punibilità prevista dall’art. 131- bis cod. pen.. […]