Corte di Cassazione, Sez, IV, Sentenza n. 988 del del 11/07/2002 – dep. 14/01/2003

[…]

La Corte osserva:
I) La Corte d’Appello di Venezia, con sentenza 15 gennaio 2001, ha parzialmente confermato la sentenza pronunziata in giudizio abbreviato, il 3 giugno 1998, dal Giudice per le indagini preliminari presso la pretura circondariale di Padova che, con sentenza 3 giugno 1998, aveva condannato […] e […] per il delitto di omicidio colposo in danno di […]. La Corte ha ritenuto accertato che i due imputati, quali componenti del consiglio di amministrazione (e […] quale amministratore delegato) della società per azioni […] – nei cui stabilimenti si producevano, riparavano e demolivano carrozze ferroviarie – avessero omesso, nel periodo dal … 1970 al .. 1974 ([…]) e dal … 1970 … 1973 ([…]), di rendere edotti i lavoratori dei rischi specifici derivanti dalla inalazione delle polveri di amianto, di fornire loro idonei mezzi di protezione, di sottoporli a periodici controlli sanitari, di denunciare all’Inail l’esistenza delle lavorazioni a rischio di inalazione di amianto, di adottare misure atte ad impedire o ridurre la diffusione delle polveri di amianto negli ambienti nei quali le lavorazioni a rischio venivano eseguite e, infine, di adottare idonei sistemi per evitare il propagarsi delle polveri anche negli ambienti adiacenti a quelli dove si eseguivano le lavorazioni in questione; così provocando, con le riferite condotte, l’insorgenza di malattie (mesotelioma pleurico, mesotelioma peritoneale, carcinoma broncogeno) con esito mortale per le persone indicate che avevano svolto la loro attività lavorativa all’interno degli stabilimenti indicati nei periodi indicati. La Corte ha poi condiviso l’opinione del primo giudice sull’esistenza della violazione di norme di prevenzione contestate agli imputati e ha ritenuto accertata l’esistenza del rapporto di causalità tra le condotte degli imputati e le morti delle persone offese con l’eccezione della morte di […], un lavoratore che prestava la sua attività in ambiente separato e la cui affezione (carcinoma broncogeno) non è stata ritenuta, in termini di certezza o elevata probabilità, causalmente ricollegabile all’esposizione alle polveri di amianto. All’esito ha assolto gli imputati da tale omicidio colposo confermando le condanne in relazione agli altri decessi, riducendo conseguentemente le pene inflitte e revocando le statuizioni civili pronunziate dal primo giudice a seguito della revoca delle costituzioni di parte civile in conseguenza dell’intervenuto risarcimento dei danni.
II) Contro questa sentenza hanno proposto ricorso in cassazione entrambi gli imputati.
Il ricorrente […] ha dedotto le seguenti censure:
– manifesta illogicità della motivazione (art. 606 comma 1° lett. e c.p.p.) in relazione agli esiti delle risultanze peritali. La Corte di merito avrebbe infatti immotivatamente e contraddittoriamente ritenuto che i rischi dell’esposizione all’inalazione di fibre di amianto fossero conosciuti solo dalla fine degli anni ’80 e avrebbe addebitato al ricorrente di non aver tenuto conto di questi rischi, pur avendo egli svolto le funzioni di componente del consiglio di amministrazione solo nei primi anni ’70, ricavando questa consapevolezza da una circostanza irrilevante (il mancato pagamento del sovrappremio). Inoltre la sentenza impugnata sarebbe caduta in una palese contraddizione per un verso valorizzando l’efficacia causale di un’esposizione verificatasi per un periodo limitato di tempo e per altro verso ipotizzando un effetto positivo sulla salute nel caso di adozione anticipata delle misure di prevenzione tanto più che la dose “iniziante” risalirebbe ai primi anni ’60. Si evidenzia poi la contraddittorietà’ della sentenza impugnata sotto un diverso profilo: le cautele che sarebbero state omesse dal ricorrente erano dirette ad evitare il rischio di contrarre l’asbestosi e non sarebbero state idonee ad evitare il rischio delle diverse malattie che avevano colpito le persone offese. Inoltre le medesime omissioni avrebbero potuto avere effetto esclusivamente sull’allungamento del periodo di latenza della malattia e non certo sulla sua insorgenza;
– violazione dell’art. 521 c.p.p. per mancata correlazione tra l’accusa contestata e la sentenza. La contestazione si riferiva infatti all’aver determinato la morte delle persone offese mentre la sentenza impugnata avrebbe affermato la responsabilità del ricorrente per aver contribuito a ridurre la durata della vita delle medesime;
– mancanza di motivazione sulle omissioni addebitabili al ricorrente […] in quanto la sentenza impugnata non avrebbe individuato quali condotte omissive a lui addebitabili gli siano state in concreto ascritte;
– violazione dell’art. 606 comma 1° lett. c) ed e) del c.p.p., in relazione all’art. 43 cod. pen., in quanto la sentenza impugnata avrebbe illogicamente attribuito al ricorrente, componente del consiglio di amministrazione, compiti che per statuto della società erano attribuiti all’amministratore delegato; in particolare, poiché all’amministratore delegato erano devoluti tutti i poteri per gli affari di ordinaria amministrazione, nessuno escluso, e la predisposizione delle cautele antinfortunistiche rientra tra questi, non potrebbe essere addebitata al ricorrente alcuna omissione;
– violazione degli artt. 40 cpv. e 41 cod. pen.; indipendentemente dalle affermazioni di principio contenute nella sentenza i giudici di merito avrebbero di fatto introdotto “nell’accertamento causale il criterio dell’imputazione obbiettiva dell’evento, sotto il profilo della teoria dell’aumento del rischio”; ne conseguirebbe una palese violazione delle norme in tema di accertamento degli elementi costitutivi del reato perché, di fatto, i giudici si sarebbero limitati ad accertare l’esistenza del rischio ma non del rapporto di causalità;
– inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 43 cod. pen., 21 d.p.r. 303/1956, 377 e 387 d.p.r. 547/1955. Erroneamente la sentenza impugnata avrebbe ritenuto sussistente la colpa specifica del ricorrente senza verificare se la condotta prevista dalle norme cautelari che si assumono violate sarebbe stata idonea, se attuata, ad evitare gli eventi in concreto verificatisi; dando anzi per scontato che ciò sarebbe avvenuto senza tener conto della circostanza che, in tempi successivi alle condotte addebitate al ricorrente, quelle norme di cautela sono state ritenute insufficienti dal legislatore; per quanto riguarda la colpa generica la sentenza impugnata richiamerebbe nozioni ed esperienze che all’epoca non erano comuni o conoscibili;
– violazione dell’art. 606 comma 1° lett. c) ed e) del c.p.p. in relazione all’omessa concessione della prevalenza delle attenuanti generiche sulle contestate aggravanti.
Il ricorrente […] ha invece dedotto censure concernenti la violazione degli artt. 40 e 43 comma 3° cod. pen., in relazione all’art. 606 comma 1° lett. b) ed e) del c.p.p., sulla ravvisabilità del rapporto di causalità e di una condotta colposa ascrivibili al ricorrente. La sentenza impugnata, su questi punti, peccherebbe di “aspecificità” perché non avrebbe compiuto alcuna verifica in concreto delle argomentazioni di carattere teorico esposte in sentenza omettendo di considerare che la colpa va accertata con riferimento alle nozioni conosciute all’epoca in cui la condotta è posta in essere e non a quelle acquisite successivamente.
Scorretta, inoltre, sarebbe l’affermazione riferita al riconoscimento dell’esistenza del rapporto di causalità in relazione ad eventi lesivi che le regole di cautela non erano dirette ad evitare; con la conseguenza di addebitare all’imputato l’evento a titolo di responsabilità oggettiva perché l’osservanza di quelle regole era diretta ad evitare un evento diverso. Ancora, in tema di rapporto di causalità, la sentenza impugnata avrebbe in realtà omesso di accertarlo limitandosi ad individuare gli elementi di colpa a carico dell’imputato (in sintesi la mancata eliminazione o riduzione dell’esposizione) senza individuare la soglia al di sotto della quale il rischio sarebbe stato eliminato e quindi trasformando il reato contestato in reato di pericolo.
Con un secondo motivo di ricorso […] deduce poi violazione di legge sulla mancata concessione dell’attenuante prevista dall’art. 62 n. 6 cod. pen. e sulla mancata dichiarazione di prevalenza delle concesse attenuanti generiche sull’aggravante contestata malgrado la ricorrenza nel tempo delle condotte contestate, la brevità del periodo in cui aveva svolto le funzioni di componente del consiglio di amministrazione, le ridotte conoscenze all’epoca disponibili e addebitando al ricorrente un fatto doloso (l’omessa comunicazione all’Inail delle lavorazioni pericolose) a lui non riconducibile.
Con memoria difensiva depositata il 27 giugno 2002 il ricorrente […] ha ulteriormente sviluppato il tema dell’esistenza del rapporto di causalità, richiamando la giurisprudenza più recente di questa sezione, e precisando che la sentenza impugnata non si sarebbe attenuta ai criteri indicati dal giudice di legittimità, per un caso analogo a quello oggetto del presente processo, perché dopo avere in teoria accolto la teoria condizionalistica ha in realtà adottato quella dell’aumento del rischio; e ciò per l’impossibilità di determinare con un grado di probabilità vicino alla certezza che la condotta dell’imputato era stata causa degli eventi.
Alla pubblica udienza dell’11 luglio 2002 il Procuratore generale presso questo Ufficio ha concluso chiedendo il rigetto dei ricorsi dei quali, al contrario, i difensori degli imputati hanno chiesto l’accoglimento.
III) I motivi contenuti nei ricorsi verranno esaminati nell’ordine logico e, dopo l’esame di quello preliminare e di quello che attiene all’addebitabilità della condotta omissiva, proposti da […], si tratterà, raggruppando quelli omogenei, dei motivi che attengono all’esistenza dell’elemento oggettivo del reato (in particolare il rapporto di causalità) e, successivamente, di quelli che attengono alla colpa.
Il secondo motivo del ricorso […] – che deduce la violazione della corrispondenza tra l’imputazione e la sentenza – è manifestamente infondato. Non esiste alcuna immutazione del fatto ove, contestata l’ipotesi di aver cagionato la morte, la sentenza ritenga di condannare per aver ridotto il tempo di sopravvivenza trattandosi di ipotesi sovrapponibili in quanto la riduzione della vita corrisponde alla morte avvenuta in tempi anteriori rispetto a quelli conseguenti al naturale decorso del tempo. Parimenti infondato è il terzo motivo del ricorso […] – che lamenta non essere state individuate le condotte omissive a lui addebitabili – potendosi queste agevolmente individuare in quelle descritte nel capo di imputazione delle quali la Corte di merito ha ritenuto di affermare l’esistenza come si vedrà in prosieguo.
IV) Più ampio discorso merita l’esame del quarto motivo del ricorso […] il quale, in sintesi, si duole che sia stata ravvisata la sua responsabilità per la mancata predisposizione delle misure di prevenzione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali pur avendo egli, nel periodo preso in considerazione, svolto esclusivamente funzioni di componente del consiglio di amministrazione della società. Trattandosi di compiti di ordinaria amministrazione tutti i poteri in tema di misure di prevenzione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, nessuno escluso, dovevano ritenersi attribuiti agli amministratori delegati e quindi il semplice componente del consiglio di amministrazione nessun potere avrebbe potuto esercitare in questa materia e nessuna responsabilità potrebbe quindi derivargli da eventuali carenze nei settori indicati.
È opportuno, su questo punto, riassumere le considerazioni dei giudici di merito (la Corte ha ripreso, sviluppandole, le considerazioni del primo giudice). La premessa è che, nelle società di capitali, destinatario degli obblighi del lavoratore è, “in prima battuta”, il consiglio di amministrazione (o l’amministratore unico). Nel caso in cui lo statuto preveda la presenza di uno o più amministratori delegati, ed essi siano effettivamente nominati, da ciò non discende automaticamente l’esonero da responsabilità dei consiglieri di amministrazione;
occorre infatti verificare, di volta in volta, l’ambito della delega. E questa verifica, condotta dalla Corte d’appello sulla scorta degli atti sociali analiticamente esaminati, ha portato alla conclusione che da nessun atto risultava che agli amministratori delegati fossero stati delegati i poteri in materia di igiene e sicurezza negli ambienti di lavoro. Il che, se non escludeva il concorrente obbligo di dirigenti e preposti, neppure poteva escludere la responsabilità dei componenti dell’organo di gestione della società (tra l’altro, si evidenzia in sentenza, […] era anche componente del comitato, esecutivo).
Le considerazioni svolte dalla Corte paiono ineccepibili e lo stesso ricorrente non ne contesta la giuridica correttezza; pone però in evidenza che i compiti descritti rientrerebbero nell’ordinaria amministrazione e che risulterebbe, in base allo statuto e agli altri atti sociali, che all’amministratore delegato erano stati appunto riservati tutti i poteri di ordinaria amministrazione. Su questo punto le argomentazioni, contenute nella sentenza impugnata (peraltro fondate sul presupposto costituito da un accertamento in fatto esente dal sindacato di legittimità) appaiono, anche per il mancato rilievo sul punto nei motivi di appello, effettivamente sintetiche, e per alcuni versi implicite, ma ciò non ostante le conclusioni risultano corrette ed esenti da vizi logici giuridici. Il compendio probatorio, così come acquisito ed incensurabilmente valutato dai giudici di merito, è infatti astrattamente idoneo a dimostrare come la gran parte degli interventi omessi dagli imputati per evitare le conseguenze dannose dell’attività lavorativa non riguardassero soltanto la mancata utilizzazione, da parte dei lavoratori, dei mezzi di protezione individuale (che comunque non furono adottati) ma altresì, e soprattutto, la mancata adozione di complessi e costosi interventi che, solo a prezzo di radicali modificazioni degli ambienti e dell’organizzazione del lavoro, avrebbero consentito di immutare profondamente le modalità e le tecniche produttive utilizzate presso le […] in modo da consentire di eliminare, o ridurre significativamente, l’esposizione dei lavoratori ai rischi di inalazione delle fibre di amianto. Interventi, quindi, che non possono certo rientrare nell’ordinaria amministrazione per le rilevanti trasformazioni dell’ambiente e delle modalità di lavoro che si rendevano necessarie e per gli ingentissimi capitali richiesti per operare queste trasformazioni.
Trattandosi quindi di atti ritenuti di straordinaria amministrazione viene meno il fondamento della doglianza proposta rimanendo l’obbligo della loro esecuzione in capo al “datore di lavoro” identificabile nel consiglio di amministrazione e quindi, sotto il profilo penale, nei singoli suoi componenti.
Per altro verso, e prescindendo dalla formale distinzione tra atti di ordinaria e straordinaria amministrazione, il ricorrente neppure allega che all’amministratore delegato, ferma restando l’attribuzione dei poteri di ordinaria amministrazione, fossero stati attribuiti poteri organizzativi, deliberativi e di spesa nella materia in questione che soli avrebbero potuto esonerare i componenti del consiglio di amministrazione dalla responsabilità; e sempre che i medesimi avessero, in adempimento della ineliminabile parte residua della posizione di garanzia ad essi attribuita, esercitato il perdurante potere di controllo (e di eventuale intervento sostitutivo) dell’operato dell’amministratore delegato che non viene meno con il conferimento della delega.
Se è infatti tuttora discusso in dottrina il principio della inderogabilità della posizione di garanzia (nel senso che, secondo questo principio, la delega avrebbe carattere aggiuntivo rispetto alle funzioni del delegante) trova invece maggior consenso la tesi secondo cui, anche in presenza di valida delega di funzioni, esista un residuo non delegabile costituito dal dovere di vigilanza e da doveri di intervento sostitutivo su situazioni conosciute o che avrebbero dovuto essere conosciute, anche se, una parte della dottrina contesta che questo principio possa essere applicato al trasferimento di funzioni che si realizza con la nomina dell’amministratore delegato.
Va peraltro sottolineato che la teoria del perdurante obbligo di controllo della gestione da parte degli amministratori delegati trova un importante argomento di conferma, sia pure sul piano civilistico (con conseguenze che, peraltro, non possono che riflettersi su quello penalistico comune essendo la matrice e la giustificazione degli obblighi di garanzia), nel testo dell’art. 2392 comma 2° cod. civ. che ribadisce, anche nel caso di attribuzioni proprie del comitato esecutivo o di uno o più amministratori, la solidale responsabilità degli amministratori (di tutti gli amministratori) “se non hanno vigilato sul generale andamento della gestione o se, essendo a conoscenza di atti pregiudizievoli, non hanno fatto quanto potevano per impedirne il compimento o eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose”. Ragionevolmente si è escluso in dottrina che questo obbligo riguardasse anche gli aspetti minuti della gestione ma non è posta in dubbio l’esigibilità di un dovere di vigilanza sul generale andamento della gestione. E non sembra dubbio che si riferisca a tale generale andamento non l’adozione di una singola misura di prevenzione per la tutela della salute di uno o più lavoratori o il mancato intervento in un settore produttivo ma la complessiva gestione aziendale della sicurezza per un’impresa il cui oggetto sociale era interamente riferibile alla lavorazione di beni nei quali veniva sempre, e significativamente, utilizzato l’amianto. In conclusione con il trasferimento di funzioni (come anche nella delega di funzioni) il contenuto della posizione di garanzia gravante sull’obbligato originario si modifica e si riduce agli indicati obblighi di controllo e intervento sostitutivo e, ove egli non adempia a tali obblighi residuali e, in conseguenza di questa omissione, si verifichi l’evento dannoso si dovrà ravvisare la colpa nell’inosservanza di tali obblighi.
V) Passando all’esame degli elementi oggettivi del reato va osservato che la più parte delle censure che vengono rivolte dai ricorrenti alla sentenza impugnata riguarda l’esistenza del rapporto di causalità tra le singole condotte omissive accertate in capo agli imputati e gli eventi mortali verificatisi nel corso del tempo. Ciò premesso può rilevarsi in generale che il concetto di causa delle azioni umane o degli eventi naturali costituisce da lungo tempo oggetto della ricerca filosofica, scientifica e delle scienze sociali. Nel più ristretto ambito della scienza giuridica il rapporto di causalità costituisce un criterio di imputazione oggettiva di un evento alla condotta di un soggetto; solo se l’evento può essere ritenuto ricollegabile alla condotta l’agente potrà essere tenuto a risponderne (concorrendo i criteri di imputabilità soggettiva).
Il codice penale ha esplicitato questo concetto nella formula usata dall’art. 40, comma 1°, con la previsione che l’evento dannoso o pericoloso, da cui dipende l’esistenza del reato, debba essere “conseguenza” della sua azione od omissione. Con questa formulazione il codice, come è tradizionalmente riconosciuto, ha inteso accogliere la c.d. teoria condizionalistica della causalità (“condicio sine qua non”) o dell’equivalenza delle cause. All’accertamento dell’esistenza del rapporto di causalità si perviene con un procedimento di eliminazione mentale: un’azione è causa di un evento se non può essere mentalmente eliminata senza che l’evento venga meno o si verifichi con modalità diverse. Essa costituisce una condizione c.d. necessaria (contrapposta alle condizioni c.d. sufficienti) per il verificarsi dell’evento. Si tratta di una ricostruzione largamente approssimativa, come è stato in più occasioni dimostrato, ma un approfondimento di questo tema è impossibile in questa sede. Al solo fine di evidenziare la complessità del problema si pensi alla duplice, contemporanea, indipendente ed efficace azione omicida: con il processo di eliminazione mentale l’evento si verifica ugualmente ma apparirebbe singolare escludere il nesso di condizionamento per una delle due condotte.
Il problema si pone in termini più complessi nel caso di causalità omissiva perché, in questo caso, decorso degli avvenimenti non è, nella realtà fenomenica, influenzato dall’azione (che non esiste) di un soggetto; per cui la causalità omissiva – che, proprio per queste caratteristiche, parte della dottrina qualifica come “equivalente normativo della causalità” – si configura come una costruzione giuridica (art. 40 comma 2° cod. pen. che non a caso usa la locuzione “equivale”, secondo l’equazione: non impedire equivale a cagionare) che consente di ricostruire l’imputabilità oggettiva come violazione di un obbligo di agire, di impedire il verificarsi dell’evento (in violazione del c.d. obbligo di garanzia); omissione che provoca l’evento di pericolo o di danno (reati omissivi impropri o commissivi mediante omissione; contrapposti ai reati omissivi propri nei quali il reato si perfeziona con la mera omissione della condotta dovuta).
La maggior complessità dei problemi in tema di causalità nei reati omissivi impropri non è ricollegata tanto alla necessità, in questo tipo di reati, di individuare (secondo i criteri ai quali si accennerà più avanti) se l’evento sia conseguenza dell’omissione accertata (problema comune ai reati commissivi), ne’ dalla ricostruzione in via meramente ipotetica dell’efficacia del trattamento omesso (anche questo è problema comune alla causalità attiva perché, anche in questi casi, il giudice deve ricostruire, in via di ipotesi, l’effetto dell’eliminazione della condotta commissiva) ma dalla necessità ulteriore di individuare la condotta positiva che, se posta in essere, avrebbe evitato il prodursi dell’evento (si è detto che, nella causalità omissiva, il procedimento logico è doppiamente ipotetico). Ovvio essendo che se l’evento fosse destinato a prodursi ugualmente (in base all’indicato processo di eliminazione mentale che più propriamente, nella causalità omissiva, dovrebbe essere chiamato di “aggiunta” mentale), anche nel caso in cui l’agente avesse attivato tutti gli interventi richiestigli, le conseguenze dell’omissione non potrebbero essere a lui addebitate.
La causalità omissiva, proprio per essere giustificata in base ad una ricostruzione logica e non in base ad una concatenazione di fatti materiali esistenti nella realtà ed empiricamente verificabili, costituisce una causalità costruita su ipotesi e non su certezze. Si tratta quindi di una causalità ipotetica, normativa, fondata, come quella commissiva, su un giudizio controfattuale (“contro i fatti”: se l’intervento omesso fosse stato adottato si sarebbe evitato il prodursi dell’evento?) alla quale si fa ricorso per ricostruire una sequenza che però, a differenza della causalità commissiva, non potrà mai avere una verifica fenomenica che invece, nella causalità commissiva è normalmente (non sempre però) verificabile. In questo caso, si è detto, il rapporto si istituisce tra un’entità reale (l’evento verificatosi) e un’entità immaginata (la condotta omessa) mentre nella causalità commissiva il rapporto è tra due entità reali.
Secondo un orientamento, ormai largamente diffuso e condiviso, per compiere questa ricostruzione devono essere utilizzate (come nella causalità commissiva ma con l’ulteriore ricordata necessità di verificare ipoteticamente l’efficacia salvifica della condotta omessa) le leggi c.d. di copertura (espressione ermetica che starebbe a significare che la spiegazione di un evento può aversi solo “coprendo” – meglio sarebbe dire “spiegando” – l’evento con una legge o, come parimenti si dice, sussumendo l’evento sotto una legge). Leggi di copertura, di origine scientifica, che possono avere un valore universale o un valore semplicemente statistico e la cui funzione è quella di attribuire un valore generalizzante a sequenze di accadimenti altrimenti tra di loro arbitrariamente collegate sulla base di presunzioni non fondate su leggi dotate di un pari grado di credibilità.
Va ancora precisato che la riferita conclusione teorica sulla diversità della causalità omissiva rispetto a quella commissiva, pur prevalente, è peraltro posta in discussione da una corrente dottrinaria che invece motivatamente sostiene che, anche nella causalità omissiva, “l’effetto condizionante è dunque reale: il tasso di ipoteticità del sillogismo che così si imposta non è maggiore ne’ diverso da quello di un sillogismo relativo alla causalità attiva” (la dottrina che fa proprio questo orientamento richiama gli studi che hanno inquadrato la condotta omissiva tra i “processi statici” e, pur riconoscendo la natura reale del condizionamento, ritiene che nella causalità omissiva la spiegazione dell’evento avvenga non con una “ricostruzione del passato”, come nella causalità commissiva, ma con un giudizio “prognostico”).
Indipendentemente dalla soluzione di questi problemi teorici va segnalato che il pluridecennale dibattito, giurisprudenziale e dottrinale, diretto ad individuare criteri soddisfacenti per ricollegare l’evento all’omissione in termini di ragionevolezza non si è ancora concluso e, ancora di recente, ha trovato nuovi sviluppi. L’interprete deve infatti constatare come, a seconda delle epoche, il problema della causalità omissiva si sia posto oscillando da impostazioni teoriche (per es. quella dell’aumento del rischio) che tendevano a trasformare i reati omissivi in questione in reati di mera condotta – con grave lesione dei principi di legalità e di determinatezza per averli invece il legislatore indiscutibilmente configurati come reati di evento (per es. i delitti di lesioni e omicidio) – ed altre che richiedevano invece l’impossibile prova della certezza dell’esistenza del rapporto eziologico non raggiungibile in questa materia non solo per le caratteristiche ipotetiche della causalità omissiva ma anche per la variabilità dei casi specifici, per la normale coesistenza di concause e per la frequentissima non assolutezza delle leggi scientifiche applicate.
La giurisprudenza di legittimità, formatasi prevalentemente (con riferimento non solo alla causalità omissiva) sul tema della responsabilità professionale medica in tema di trattamenti chirurgici e terapeutici, ha prevalentemente seguito, negli ultimi due decenni, una linea che può definirsi di tipo “probabilistico” affermando – con varianti per lo più terminologiche – che, per ritenere esistente il rapporto di causalità materiale, si dovesse accertare che l’intervento omesso, se tempestivamente e correttamente eseguito, avrebbe avuto “serie ed apprezzabili probabilità di successo” (in realtà le formulazioni usate sono le più diverse e quella indicata è la formula riassuntiva che meglio esprime questa linea interpretativa).
Spesso questo giudizio di natura probabilistica si è espresso in termini percentuali con margini di oscillazione, per la verità, eccessivamente ampi (verso il basso) secondo un percorso interpretativo che si è spinto fino all’attribuzione di un evento a un soggetto sol perché, con la sua condotta, ha eliminato o diminuito le chances di salvezza del bene individuale protetto. In queste ipotesi è palese che l’orientamento c.d. “probabilistico” si risolve in quello dell’aumento del rischio e a questo rischio non si sottraggono neppure i sostenitori di un’altra teoria, quella dell’imputazione oggettiva dell’evento, sorta peraltro per restringere l’ambito di applicazione della teoria condizionalistica. Anche in questo campo l’impostazione probabilistica trova il suo fondamento (peraltro di natura più pratica che teorica) sulle medesime difficoltà ricostruttive: la natura ipotetica della ricostruzione a posteriori, le difficoltà di individuazione del trattamento omesso che avrebbe potuto salvare il bene o diminuire il rischio, la più frequente diversità delle condizioni soggettive e la compresenza di concause rende ancor più difficoltosa la ricostruzione del fatto sotto il profilo della causalità. Ma identico è il fondamento teorico – pratico che sta alla base della teoria probabilistica: la constatazione dell’impossibilità, nella causalità omissiva impropria, di individuare con certezza il fattore condizionante omesso che, se compiuto, avrebbe impedito il verificarsi dell’evento.
Questo orientamento è stato sottoposto a vivace critica da parte di alcune sentenze (v. in particolare Cass., sez. IV, 28 settembre 2000 n. 1688, Baltrocchi, per esteso in Foro it., 2001, I, 420; più di recente sez. IV, 25 settembre 2001 n. 1652, Covili e altri, proprio sul tema della esposizione all’inalazione delle fibre di amianto) di questa medesima sezione che, richiamando un autorevole orientamento dottrinario, ha capovolto l’impostazione tradizionale della giurisprudenza di legittimità fondata sul giudizio probabilistico giungendo ad affermare che “in tanto il giudice può affermare che un’azione od omissione sono state causa di un evento, in quanto possa effettuare il giudizio controfattuale avvalendosi di una legge o proposizione scientifica che <enunci una connessione tra eventi in una percentuale vicina a cento>”.
I passaggi logici attraverso i quali questo orientamento è pervenuto alle conclusioni riportate possono così riassumersi:
premesse le acquisizioni in precedenza riferite sulla natura del giudizio controfattuale da operarsi nel caso di reato omissivo improprio, al valore – universale o semplicemente statistico – delle leggi di copertura, al dibattito dottrinale sulla diversa natura, o meno, della causalità omissiva rispetto a quella commissiva la sentenza citata afferma che il giudice non può non prendere atto dei migliori esiti della ricerca giuridico scientifica ed in particolare del fatto che tali orientamenti, pur divergendo sulla natura della causalità omissiva, purtuttavia convergono sulla necessità che, per ritenere esistente il rapporto di causalità, a conclusione del giudizio controfattuale, il giudice dovrà verificare che l’intervento omesso, se effettuato, avrebbe impedito il verificarsi dell’evento con una probabilità vicino alla certezza.
All’esito di questa ricostruzione la Corte, nella sentenza Baltrocchi, ha annullato senza rinvio la sentenza d’appello che aveva affermato la responsabilità del medico in un caso nel quale le probabilità di sopravvivenza erano state percentualizzate (a seconda dell’accoglimento di due diverse ipotesi ricostruttive) nel 50 e nel 28 per cento.
A conferma della ricostruzione effettuata le sentenze citate richiamano le conclusioni contenute nel progetto di riforma del codice penale, elaborato dalla commissione ministeriale istituita con d.m. 1° ottobre 1998, che effettivamente, nella prima stesura, si esprimeva sul rapporto di causalità nei reati omissivi in termini di certezza.
VI) Più recentemente, per dirimere il contrasto insorto all’interno di questa medesima sezione, sono intervenute le sezioni unite di questa Corte che, con la sentenza 10 luglio 2002 n. 30328, Franzese (depositata l’11 settembre 2002), hanno posto un punto fermo su questa complessa problematica proponendone una condivisibile ricostruzione.
In sintesi le sezioni unite, dopo aver ribadito la perdurante validità della teoria condizionalistica (ritenuta temperata con il riferimento alla teoria della “causalità umana” quanto alle serie causali sopravvenute, autonome e indipendenti di cui all’art. 41 comma 2° cod. pen.) e la necessità di procedere al giudizio controfattuale al fine di verificare se, eliminata mentalmente la condotta presa in considerazione, l’evento si sarebbe ugualmente verificato, hanno poi confermato la necessità che la spiegazione causale dell’evento verificatosi hic et nunc provenga da attendibili risultati di generalizzazioni del senso comune ovvero facendo ricorso generalizzante della sussunzione del singolo evento sotto leggi scientifiche che consenta di affermare che l’antecedente può essere considerato condizione necessaria dell’evento se rientra tra quelle conseguenze che le indicate leggi di “copertura” consentono di ritenere aver provocato l’evento.
Secondo le sezioni unite “il ricorso a generalizzazioni scientificamente valide consente infatti di ancorare il giudizio contro fattuale, altrimenti insidiato da ampi margini di discrezionalità e di indeterminatezza, a parametri oggettivi in grado di esprimere effettive potenzialità esplicative della condizione necessaria, anche per i più complessi sviluppi causali dei fenomeni naturali, fisici, chimici o biologici”. Passando poi a trattare più specificamente della causalità omissiva la sentenza citata, senza addentrarsi nella soluzione del problema teorico della natura reale o meramente normativa dell’effetto condizionante nei reati omissivi impropri, ha però richiamato, condividendolo, l’orientamento che ritiene valido il “paradigma unitario di imputazione dell’evento” con riferimento al “condizionale controfattuale” la cui formula deve rispondere al quesito se “mentalmente eliminato il mancato compimento dell’azione doverosa e sostituito alla componente statica un ipotetico processo dinamico corrispondente al comportamento doveroso, supposto come realizzato, il singolo evento lesivo, hic et nunc verificatosi, sarebbe, o non, venuto meno, mediante un enunciato esplicativo ‘copertò dal sapere scientifico del tempo”.
Da queste premesse le sezioni unite sono giunte alla conclusione che, “superato l’orientamento che si sostanzia in pratica nella ‘volatilizzazione del nesso eziologico”, il contrasto giurisprudenziale verta sui “criteri di determinazione e di apprezzamento del valore probabilistico della spiegazione causale”;
non viene dunque in considerazione lo statuto condizionalistico e nomologico della causalità ma la sua concreta “verificabilità processuale” e su tale problema la Corte ha ritenuto di non condividere l’orientamento che, particolarmente sul tema dei trattamenti terapeutici, fa riferimento, al fine di ritenere accertato il nesso di condizionamento, alle “serie e apprezzabili probabilità di successo” del trattamento omesso in quanto, con questa formula, si esprimono coefficienti indeterminati di probabilità con il rischio di violare i principi di legalità e tassatività della fattispecie e della garanzia di responsabilità per fatto proprio.
Fatte queste premesse le sezioni unite hanno indicato una via che riconduce la soluzione del problema all’accertamento processuale dell’esistenza del nesso di condizionamento alla stregua di quei canoni di “certezza processuale”, non dissimili da quelli utilizzati per l’accertamento degli altri elementi costitutivi della fattispecie, che conduca, all’esito del ragionamento di tipo induttivo, ad un giudizio di responsabilità caratterizzato da “alto grado di credibilità razionale”. In quest’ottica, secondo la sentenza citata, “non è sostenibile che si elevino a schemi di spiegazione del condizionamento necessario solo le leggi scientifiche universali e quelle statistiche che esprimano un coefficiente probabilistico ‘prossimo ad 100, cioè alla ‘certezza’, quanto all’efficacia impeditiva della prestazione doverosa e omessa rispetto al singolo evento”.
Seppur con riferimento alla scienza medica, ma con argomentazioni di carattere generale utilizzabili nel caso in esame come si dirà più avanti, le sezioni unite da questa considerazione traggono la conclusione che la “certezza processuale” può derivare anche dall’esistenza di coefficienti medio bassi di probabilità c.d. frequentista quando, corroborati da positivo riscontro probatorio circa la sicura non incidenza nel caso di specie di altri fattori interagenti, possano essere utilizzati per il riconoscimento giudiziale del rapporto di causalità. Per converso livelli elevati di probabilità statistica o addirittura schemi interpretativi dedotti da leggi universali richiedono sempre la verifica concreta che conduca a ritenere irrilevanti spiegazioni diverse. Con la conseguenza che non è “consentito dedurre automaticamente – e proporzionalmente – dal coefficiente di probabilità statistica espresso dalla legge la conferma dell’ipotesi sull’esistenza del rapporto di causalità”.
È inadeguato, infatti, secondo la sentenza in esame, esprimere il grado di corroborazione dell’explanandum mediante coefficienti numerici mentre appare corretto enunciarli in termini qualitativi per cui le sezioni unite mostrano di condividere quell’orientamento della giurisprudenza di legittimità che fa riferimento alla c.d. “probabilità logica” che, rispetto alla c.d. “probabilità statistica, consente la verifica aggiuntiva dell’attendibilità dell’impiego della legge statistica al singolo evento. Solo con l’utilizzazione di questi criteri può giungersi alla certezza processuale sull’esistenza del rapporto di causalità in modo non dissimile dall’accertamento relativo a tutti gli altri elementi costitutivi della fattispecie con criteri non dissimili “dalla sequenza del ragionamento inferenziale dettato in tema di prova indiziaria dall’art. 192 comma 2 c.p.p.” al fine di pervenire alla conclusione, caratterizzata da alto grado di credibilità razionale, che “esclusa l’interferenza di decorsi alternativi, la condotta omissiva dell’imputato, alla luce della cornice nomologica e dei dati ontologici, è stata condizione ‘necessaria’ dell’evento, attribuibile per ciò all’agente come fatto proprio”. Mentre l’insufficienza, la contraddittorietà e l’incertezza del riscontro probatorio, e quindi il ragionevole dubbio sulla reale efficacia condizionante della condotta omissiva, non possono che condurre alla negazione dell’esistenza del nesso di condizionamento. VII) Ciò premesso sui risultati della ricerca in merito al rapporto di causalità si osserva preliminarmente che nessuna doglianza viene dai ricorrenti proposta per quanto attiene ai criteri utilizzati dai giudici di merito per accertare la situazione di fatto esistente nello stabilimento dove le vittime prestavano la loro attività e all’interno del quale è stata accertata l’esistenza di “una consistente, e comunque non controllata, dispersione di fibre d’amianto, con la conseguente incontrollata esposizione dei dipendenti alle relative polveri”. Questa situazione, accertata dai giudici di merito sulla scorta delle dichiarazioni di numerose persone che avevano lavorato negli ambienti di cui si è detto, delle consulenze tecniche disposte, dell’incidente probatorio svolto nel corso delle indagini preliminari e di tutta una serie di accertamenti dei quali si dà conto nelle sentenze, ha riguardato anche gli anni dal 1970 al 1974 nei quali gli imputati hanno svolto le ricordate funzioni.
Quanto, invece, al rapporto di causalità tra l’esposizione continuata (quindi anche nei periodi nei quali gli imputati nessuna funzione svolgevano all’interno della società) non viene posto in discussione che la morte delle persone offese sia stata cagionata dall’inalazione delle fibre di amianto avvenuta nel corso della prestazione lavorativa presso le […] ne’ si afferma l’esistenza di cause alternative degli eventi dannosi verificatisi; mentre si censura vivacemente la sentenza impugnata per quanto riguarda l’efficienza causale delle omissioni riferibili agli odierni imputati.
Va premesso che la Corte di merito ha dichiaratamente optato per la scelta di un modello “forte” o “rigoroso” di causalità, quello cioè che si rifà ai principi enunciati nelle citate sentenze Baltrocchi e Covili di questa sezione. I ricorrenti peraltro contestano che la sentenza impugnata abbia effettivamente seguito questi criteri e sostengono, al contrario, che la decisione avrebbe di fatto accertato l’esistenza del rapporto di causalità seguendo i criteri della teoria dell’aumento del rischio o dell’imputazione oggettiva dell’evento.
Occorre pertanto verificare in dettaglio le doglianze proposte dai ricorrenti in merito al problema della causalità, per la verità spesso inevitabilmente frammiste a quelle concernenti l’elemento soggettivo, per verificare se la sentenza impugnata si sia attenuta non tanto ai criteri dichiarati quanto a quelli, del tutto condivisibili, indicati nella citata sentenza delle sezioni unite. A) Un primo gruppo di censure si riferisce alle finalità delle cautele la cui adozione sarebbe stata omessa dagli imputati. All’epoca in cui i medesimi svolgevano le funzioni di cui si è detto le conoscenze in materia conseguenze della inalazione di polveri di amianto indicavano come questa inalazione comportasse il rischio dell’asbestosi e non certo il rischio di tumore polmonare o broncogeno o di mesotelioma pleurico o peritoneale; malattie che solo in tempi più recenti la ricerca scientifica ha consentito di riferire al rischio in questione. Ne deriverebbe per un verso l’inesistenza della colpa sotto il profilo della prevedibilità dell’evento; per altro verso l’inesistenza, altresì, del rapporto di causalità tra condotte omissive ed eventi dannosi posto che le cautele non adottate sarebbero state predisposte per evitare un rischio di diversa natura.
Il motivo è da ritenere innanzitutto inammissibile nella parte in cui è diretto ad una rivalutazione dei dati di fatto incensurabilmente accertati dai giudici di merito i quali hanno dato conto – sulla base dei pareri di periti e consulenti tecnici criticamente valutati – della circostanza che già nel 1965 era unanimemente riconosciuta l’associazione tra amianto e mesotelioma mentre quella con il tumore polmonare era conosciuta addirittura dal 1955. In particolare, per quanto riguarda il mesotelioma, i giudici di merito hanno escluso che le persone offese fossero state esposte agli unici altri fattori di rischio conosciuti (eronite e radiazioni ionizzanti); per quanto riguarda i tumori polmonari la sentenza impugnata, sempre con il richiamo ai pareri tecnici acquisiti, ha rilevato che, anche per coloro che avessero in ipotesi l’abitudine del fumo di tabacco, l’esposizione alle inalazioni di amianto aveva avuto quantomeno efficacia di concausa con effetto sinergico. Devesi inoltre dare atto che non esiste, nella sentenza impugnata, l’affermazione (pag. 2 del ricorso […] che la conoscenza degli effetti cancerogeni dell’amianto risale alla fine degli anni ’80; mentre, per quanto riguarda le dichiarazioni del medico di fabbrica, non compete al giudice di legittimita’ valutarne l’attendibilità, come pretenderebbe il medesimo ricorrente, in presenza di motivazione certamente non illogica su tale punto (in buona sostanza la Corte ha evidenziato l’interesse anche personale del medico a sottovalutare l’esposizione a rischio e a minimizzare le conoscenze scientifiche dell’epoca su tale problema).
Ma il motivo è altresì infondato.
La prevedibilità dell’evento – e qui il discorso attiene prevalentemente alla colpa ma non è estraneo al problema della causalità, come proposto dai ricorrenti, sotto il profilo finalistico delle norme di prevenzione – non riguarda soltanto specifiche conseguenze dannose che da una certa condotta possono derivare ma si riferisce a tutte le conseguenze dannose che possono derivare da una condotta che sia conosciuta come pericolosa per la salute (o per altri beni tutelati dall’ordinamento). Orbene l’inalazione da amianto è ritenuta da ben oltre i tempi citati di grande lesività della salute (se ne fa cenno nel r.d. 14 giugno 1909 n. 442 in tema di lavori ritenuti insalubri per donne e fanciulli ed esistono precedenti giurisprudenziali risalenti al 1906) e la malattia da inalazione da amianto, l’asbestosi (conosciuta fin dai primi del ‘900 ed inserita nelle malattie professionali dalla L. 12 aprile 1943 n. 455), e’ ritenuta conseguenza diretta, potenzialmente mortale, e comunque sicuramente produttrice di una significativa abbreviazione della vita se non altro per le patologie respiratorie e cardiocircolatorie ad essa correlate.
Ne consegue che la mancata eliminazione, o riduzione significativa, della fonte di assunzione comportava il rischio del tutto prevedibile dell’insorgere di una malattia gravemente lesiva della salute dei lavoratori addetti. Se solo successivamente sono state conosciute altre conseguenze di particolare lesività non v’è ragione per, escludere il rapporto di causalità con l’evento e il requisito della prevedibilità dell’evento medesimo. E non v’è ragione di escluderlo, in particolare, perché le misure di prevenzione da adottare per evitare l’insorgenza della malattia conosciuta erano identiche (fino all’approvazione della L. 27 marzo 1992 n. 257 che ha vietato in assoluto l’uso dell’amianto) a quelle richieste per eliminare o ridurre gli altri rischi, anche non conosciuti; con la conseguenza, sotto il profilo obiettivo, che ben può affermarsi che la mancata adozione di “quelle” misure ha cagionato l’evento e, sotto il profilo soggettivo, che l’evento era prevedibile perché erano conosciute conseguenze potenzialmente letali della mancata adozione di quelle misure (v., in questo senso, Cass., sez. IV, 30 marzo 2000, Camposano, per esteso in Foro it., 2001, II, 278; 11 maggio 1998, Calamandrei e altri, per esteso in Foro it., 1999, II, 236; ma l’orientamento deve ritenersi assai più risalente ove si consideri che la sentenza sul disastro di Stava, Cass., sez. IV, 6 dicembre 1990, Bonetti, già così icasticamente si esprimeva: “ai fini del giudizio di prevedibilità, deve aversi riguardo alla potenziale idoneità della condotta a dar vita ad una situazione di danno e non alla specifica rappresentazione ex ante dell’evento dannoso, quale si è concretamente verificato in tutta la sua gravità e estensione”).
B) Un secondo gruppo di censure, sempre relative all’esistenza del rapporto di causalità, riguarda invece l’efficienza causale delle omissioni addebitate agli imputati sull’insorgenza delle malattie che hanno provocato la morte delle persone offese. In sintesi i ricorrenti addebitano ai giudici di merito di essersi limitati ad accertare l’esistenza della colpa e non del rapporto di causalità; di avere, di fatto, accolto la teoria c.d. dell’aumento del rischio non tenendo conto della brevità del tempo in cui avevano svolto le funzioni in precedenza ricordate; di non aver tenuto conto della circostanza che non era conosciuta l’epoca di insorgenza della malattia (per i tumori polmonari o broncogeni) e l’epoca di assunzione della dose c.d. “scatenante” (per il mesotelioma). I motivi in esame, dei quali non può non rilevarsi una complessiva genericità (vengono infatti omessi specifici riferimenti alla motivazione), sono infondati avendo i giudici di merito fornito di adeguato e non illogico apparato argomentativo tutti i passaggi del loro ragionamento su questo tema fondamentale.
Il tema centrale della critica rivolta alla Corte veneziana riguarda la circostanza che, per tutte le malattie che hanno cagionato la morte delle vittime, non è conosciuta la data di insorgenza della patologia. Non essendo stato accertato tale momento non potrebbero essere riferite ai ricorrenti le morti provocate da tali patologie perché, se insorte prima, le loro omissioni non avrebbero avuto effetto condizionante sul successivo sviluppo delle malattie; se insorte dopo sarebbe del tutto esclusa ogni efficacia eziologica sul loro insorgere. In mancanza, quindi, di ogni prova sull’insorgenza delle patologie all’epoca in cui i ricorrenti svolgevano le funzioni di amministratori delle […] non potrebbe essere ritenuto esistente il nesso di condizionamento in questione. La sentenza impugnata e quella di primo grado, espressamente richiamata in più parti, hanno fornito, su questi temi, risposte appaganti e certamente non illogiche.
È stato infatti rilevato, da parte del giudice di appello, come i periti e i consulenti tecnici abbiano “evidenziato il rapporto esponenziale tra dose di cancerogeno assorbita (determinata dalla concentrazione e dalla durata dell’esposizione) e risposta tumorale:
aumentando la dose di cancerogeno, non solo è maggiore l’incidenza dei tumori che derivano dall’esposizione, ma minore è la durata della latenza, il che significa aumento degli anni di vita perduti o, per converso, anticipazione della morte”. Questo processo è stato dalla Corte riferito non solo al tumore polmonare o broncogeno ma anche al mesotelioma.
E ancora, rispondendo alle critiche contenute negli atti di appello sull’uso di criteri probabilistici da parte di periti e consulenti tecnici, la Corte ha posto in evidenza come questi accertamenti convergessero “in termini di sostanziale certezza/alta probabilità razionale nella descrizione degli effetti finali dei fenomeni”; ne ha tratto il convincimento che “anche l’apporto dell’indiscriminata esposizione all’amianto per solo alcuni del complesso di anni lavorativi del dipendente rileva, quanto meno come concausa, nella determinazione dell’evento morte hic et nunc quale che sia il momento dell’inizio della patologia”; e ha quindi concluso che “anche il periodo di oltre tre anni, contestato agli imputati, ha concorso o ad agevolare l’insorgere o a favorire l’evoluzione della patologia, comunque, in ogni caso, a ridurre il periodo di latenza e quindi ad anticipare l’evento morte … se gli imputati avessero adempiuto agli obblighi che loro incombevano … si sarebbe determinata una contrazione imponente dell’esposizione: pertanto, e in termini di alta probabilità razionale, quantomeno un allungamento dei termini di latenza”.
Queste argomentazioni si sottraggono alle censure che sono state ad esse rivolte dai ricorrenti.
In merito alla denunziata violazione ed erronea applicazione delle norme in tema di causalità si è infatti più volte chiarito, in dottrina e in giurisprudenza (che, sotto questo profilo, appaiono sufficientemente uniformi) che il rapporto causale, sia nella causalità commissiva che in quella omissiva, va riferito non solo al verificarsi dell’evento prodottosi ma anche in relazione alla natura e ai tempi dell’offesa nel senso che dovrà riconoscersi il rapporto in questione non solo nei casi in cui sia provato che l’intervento doveroso omesso (o quello corretto in luogo di quello compiuto nella causalità commissiva) avrebbe evitato il prodursi dell’evento in concreto verificatosi, o ne avrebbe cagionato uno di intensità lesiva inferiore, ma altresì nei casi in cui sia provato che l’evento si sarebbe verificato in tempi significativamente (non minuti od ore) più lontani ovvero ancora quando, alla condotta colposa omissiva o commissiva, sia ricollegabile un’accelerazione dei tempi di latenza di una malattia provocata da altra causa (o che non sia possibile ricollegare eziologicamente alla condotta in questione).
Si è detto, in questi casi, che “non v’è quindi dubbio che una morte avvenuta in un giorno successivo sia un fatto diverso, dal punto di vista naturalistico prima ancora che giuridico”. Orbene, nel caso in esame, pur non essendo stato con certezza accertato se, all’epoca dell’assunzione delle funzioni di amministratore da parte degli imputati, la patologia fosse già insorta, i giudici di merito hanno incensurabilmente accertato che, in ogni caso, l’esposizione all’inalazione delle massicce dosi di polveri di amianto ha avuto effetto patogenetico sulla latenza di una malattia già esistente o sull’insorgenza di una non ancora sorta.
Nè può avere rilievo che, nel caso delle morti cui questo processo si riferisce, non sia stato possibile accertare, per ciascuna di esse, il meccanismo preciso (riduzione della latenza o accelerazione dell’insorgenza). Il nesso di condizionamento deve infatti ritenersi provato non solo quando (caso assai improbabile) venga accertata compiutamente la concatenazione causale che ha dato luogo all’evento ma, altresì, in tutti quei casi nei quali, pur non essendo compiutamente descritto o accertato il complessivo succedersi di tale meccanismo, l’evento sia comunque riconducibile alla condotta colposa dell’agente sia pure con condotte alternative; e purché sia possibile escludere l’efficienza causale di diversi meccanismi eziologici. In questo senso cons. Cass., sez. IV, 15 marzo 1995 n. 2650, Trotta, che ha ritenuto irrilevante l’indicazione di una delle cause alternative dell’evento qualora le conseguenze dell’una o dell’altra soluzione siano identiche. Come è stato affermato in dottrina “non si può pretendere che il giudice spieghi l’intero meccanismo di produzione dell’evento, e non lo si può pretendere perché non è possibile conoscere esattamente tutte le ‘fasi intermedie’ attraverso le quali la causa ‘produce’ l’effetto finale”.
Queste considerazioni valgono anche ad escludere la fondatezza della critica (contenuta nel terzo motivo […]) relativa alla mancata individuazione della soglia al di sotto della quale il rischio sarebbe stato eliminato; con la conseguenza, secondo il ricorrente, della trasformazione del reato contestato in reato di pericolo. La mancata individuazione di tale soglia (individuazione peraltro impossibile) non infirma la complessiva correttezza del ragionamento del giudice di merito secondo cui un significativo abbattimento dell’esposizione avrebbe comunque agito positivamente sui tempi di latenza o di insorgenza delle malattie mortali. Né si comprendono le ragioni per le quali ciò varrebbe a trasformare in reato di pericolo quello contestato costituendo, l’elemento non conosciuto, uno dei complessivi meccanismi di produzione dell’evento dei quali, si è già accennato, non è necessario comprendere l’intero svolgimento.
C) Vanno disattese anche le critiche, formulate sotto il profilo della violazione dell’art. 606 comma 1° lett. e del codice di rito (mancanza e manifesta illogicità della motivazione) nei confronti della motivazione su questo punto.
Non può infatti essere ritenuta contradditoria – come si lamenta nel primo motivo del ricorso […] – la motivazione della sentenza impugnata nelle parti in cui per un verso afferma che tutte le condotte che, nell’arco della vita lavorativa, hanno consentito l’esposizione alle polveri di amianto, hanno concorso alla causazione dell’evento e, per altro verso, che se l’esposizione fosse stata sospesa l’evento non si sarebbe verificato. In realtà la sentenza impugnata dice una cosa diversa: che, se anche il processo morboso fosse iniziato prima dell’inizio dello svolgimento, da parte dei ricorrenti, delle funzioni di amministratori, la sospensione dell’esposizione avrebbe allungato i termini di latenza o di progressione delle malattie con conseguente protrazione dei tempi di vita delle vittime. E in ciò, come si è visto, è ravvisabile il rapporto di causalità.
Deriva da quanto detto anche l’infondatezza delle doglianze, contenute nel primo motivo del ricorso […], che lamentano come i giudici di merito, omettendo di individuare la soglia al di sotto della quale il rischio sarebbe stato eliminato, avrebbero di fatto trasformato il reato contestato in reato di pericolo. Una volta che siano stati accertati – come nella specie hanno fatto i giudici di merito – la macroscopica violazione delle norme in materia di prevenzione delle malattie professionali e la prolungata esposizione all’inalazione di sostanze conosciute come pericolose per la salute non possono che essere ritenute esaustive le considerazioni riferite secondo cui un abbattimento significativo di questa esposizione avrebbe consentito di prolungare i tempi di latenza e quelli di progressione delle malattie.
D) Con la memoria tempestivamente depositata il difensore di […] ha ripetutamente citato la sentenza di questa sezione 25 settembre 2001 n. 1652, Covili (erroneamente citata con il n. di R.G. che peraltro consente di individuarla) che avrebbe affermato principi diversi, in tema di rapporto di causalità, rispetto a quelli indicati nella sentenza impugnata.
Su questo punto va rilevato innanzitutto che questa sentenza, anch’essa relativa a decessi riconducibili all’inalazione di fibre di amianto, è stata pronunziata prima della più volte ricordata sentenza Franzese delle sezioni unite e quindi non può farsi esclusivo riferimento ai criteri di probabilità statistica (che, nella sentenza Covili, assumono rilievo determinante) per individuare, in base alla legge di copertura, l’elevato grado di probabilità razionale che la condotta omessa, se attuata, avrebbe evitato l’evento, proprio perché le sezioni unite hanno dichiaratamente ritenuto di dover privilegiare un criterio di probabilità logica rispetto a quello di probabilità statistica. Ma va comunque osservato che il caso esaminato dalla sentenza Covili si differenzia da quello oggi portato all’esame della Corte di legittimità perché in quel caso, pur essendo stato accertato con elevato grado di credibilità razionale che i lavoratori avessero contratto il mesotelioma pleurico a seguito dell’esposizione all’inalazione di fibre di amianto, era stata ritenuta solo apprezzabile la probabilità che, se gli imputati avessero posto in essere le misure di cautela richiesta per eliminare o diminuire in maniera consistente il rischio, i decessi non si sarebbero verificati. Peraltro, nel caso esaminato dalla sentenza Covili, il problema si era posto esclusivamente in relazione al verificarsi dell’evento e non ai tempi di tale evento. Sotto altro profilo i giudici di merito, nel caso ricordato, non si erano posti il problema, affrontato invece nel presente giudizio, dell’effetto provocato, dalla perdurante esposizione alla fonte di inalazione dell’amianto, sui tempi di insorgenza della malattia e su quelli della sua latenza.
E sono questi i due aspetti che consentono, nel caso in esame, di riaffermare l’esistenza del rapporto di causalità in termini di elevata probabilità logica e, quindi, di certezza processuale.
VIII) Vanno adesso esaminati i motivi che si riferiscono all’elemento soggettivo del reato.
Il primo motivo del ricorso […] (che, per quanto attiene agli aspetti che si riferiscono all’esistenza del rapporto di causalità, è stato esaminato insieme agli altri motivi proposti su questo tema) è in parte inammissibile ed parte infondato.
È inammissibile nella parte in cui si chiede, con le doglianze proposte contro la sentenza impugnata, che il giudice di legittimità rivaluti gli elementi di prova posti dai giudici di merito a fondamento della loro decisione. Ciò in particolare per quanto riguarda la valutazione degli esiti degli accertamenti peritali svolti dai quali, secondo il ricorrente, i giudici di merito avrebbero tratto l’erroneo convincimento che solo alla fine degli anni ’80 si sarebbero conosciuti i rischi derivanti dall’inalazione delle fibre di amianto. Ne conseguirebbe che non può essere ritenuto in colpa il ricorrente che ha svolto le funzioni in precedenza ricordate fino al 1974.
Corretta è la premessa da cui partono i ricorrenti: la colpa va accertata con riferimento alle nozioni conosciute o conoscibili all’epoca della condotta, non a quelle successivamente acquisite (diversamente da quanto può avvenire per il rapporto di causalità). Ma su questo punto la Corte di merito ha fornito di adeguato apparato argomentativo il suo convincimento – sulla conoscibilità delle nozioni all’epoca della condotta – richiamando gli esiti degli accertamenti peritali svolti nel processo, gli studi di carattere medico acquisiti, le deposizioni testimoniali, i precedenti giurisprudenziali di legittimità dai quali si ricava che l’associazione amianto mesotelioma era unanimemente riconosciuta fin dal 1965 a seguito degli studi di WAGNER risalenti al 1960; che i testi base per la formazione dei medici del lavoro dell’epoca già parlavano dell’associazione tra amianto e tumori; che, addirittura, un dizionario medico per la famiglia, pubblicato nel 1972, attestava, in termini di conoscenza acquisita, l’associazione tra amianto e mesotelioma.
È quindi motivatamente smentita, e contrastata con argomenti logici e congrui la tesi (v. il primo e, più specificamente, il settimo motivo del ricorso […], nonché il primo motivo del ricorso […]) secondo cui, in tema di ravvisata esistenza della colpa generica, la sentenza impugnata avrebbe addebitato ai ricorrenti la mancata conoscenza di nozioni ed esperienze che, all’epoca, non erano comunemente conosciute o conoscibili (o che l’avrebbero ricavata esclusivamente dalla circostanza del mancato pagamento del sovrappremio Inail) avendo il giudice di merito dimostrato, in base agli elementi di prova acquisiti che tali conoscenze erano disponibili già dalla metà degli anni ’60 (si tratta di un orientamento ormai conforme: ad analoga conclusione pervennero i giudici di merito con decisione confermata, su questo punto, da Cass., sez. IV, 11 maggio 1998, Calamandrei, per esteso in Foro it., 1999, II, 236, nonché’ le altre sentenze citate nel corso dell’esame della prevedibilità dell’evento riferita al nesso di causalità). Quanto alla colpa specifica la contestazione (contenuta nel settimo motivo del ricorso […]) in realtà non pone in discussione l’esistenza della violazione, in particolare, dell’art. 21 del d.p.r. 19 marzo 1956 n. 303 (norme generali per l’igiene del lavoro), concernente l’obbligo, per il datore di lavoro, di adottare i provvedimenti atti ad impedire o ridurre lo sviluppo e la diffusione delle polveri nell’ambiente di lavoro, e degli artt. 377 e 387 del d.p.r. 27 aprile 1955 n. 547 (norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro) concernenti i mezzi personali di protezione e (art. 387) la protezione, in particolare, contro le inalazioni pericolose di polveri. Ma pone il problema dell’idoneità della condotta omessa ad evitare l’evento e del fatto che, in tempi successivi alle condotte contestate, quelle norme di cautela sono state ritenute insufficienti dallo stesso legislatore. Entrambi i profili prospettati non sono condivisibili. Il primo profilo riproduce in realtà, sotto il profilo soggettivo dell’evitabilità dell’evento, le critiche formulate sotto il profilo dell’esistenza del rapporto di causalità per cui non può che rinviarsi alle considerazioni già svolte su questo tema; con la precisazione che le morti di cui si discute nel presente processo costituiscono gli eventi hic et nunc verificatisi e presi in considerazione ai fini dell’imputazione. Le morti erano evitabili nel senso che, se anche destinate a verificarsi con certezza (in considerazione dell’esposizione a rischio nell’intera vita lavorativa), con l’adozione, nei periodi considerati, delle cautele omesse l’allungamento dei tempi di latenza o di insorgenza le avrebbero provocate in tempi diversi e significativamente successivi.
Il secondo profilo (asserita insufficienza delle misure all’epoca previste al fine di evitare gli eventi dannosi in concreto verificatisi) è infondato per le seguenti ragioni: innanzitutto va rilevato che le due norme ricordate sono tuttora in vigore; in secondo luogo la circostanza che, in tema di protezione contro le inalazioni di fibre di amianto, siano state adottate misure normative di maggior rigore ed efficacia non esclude l’idoneità di quelle di natura più generica o minor efficacia, in passato e tuttora vigenti, a svolgere una reale azione preventiva quanto meno sotto il profilo, già esaminato, attinente ai tempi della latenza o dell’insorgenza della malattia cui si è già più volte accennato in precedenza. Ciò è sufficiente, per quanto attiene all’elemento soggettivo, per ritenere la correttezza della soluzione adottata dalla Corte di merito e per ritenere altresì infondata l’ulteriore critica, rivolta nel primo motivo del ricorso […], riferita ad un’asserita “aspecificità” in cui sarebbe incorsa la sentenza impugnata per non aver effettuato alcuna verifica in concreto delle argomentazioni di carattere teorico esposte. Critica smentita dalla riferita sintesi delle motivazioni contenute nella sentenza impugnata.
IX) Comune ad entrambi gli imputati è infine la censura che si riferisce al mancato riconoscimento della prevalenza delle attenuanti generiche sull’aggravante contestata ad entrambi gli imputati. Ma anche questa censura è infondata per avere, i giudici di merito, adeguatamente motivato la decisione di ritenere le attenuanti generiche concesse soltanto equivalenti. Non corrisponde infatti al vero che la sentenza impugnata non abbia tenuto conto dei fatti significativi indicati in ricorso (risalenza nel tempo delle condotte; limitatezza del periodo di svolgimento delle funzioni di amministratori rispetto alla complessiva vita lavorativa delle vittime; intervenuto risarcimento dei danni). La Corte ha peraltro ritenuto, in una valutazione complessiva della vicenda, che le gravi carenze ravvisate nell’organizzazione aziendale quanto alla tutela dei lavoratori dalle malattie professionali e le false attestazioni all’INAIL sull’inesistenza del rischio da inalazione di amianto non consentissero di ravvisare quella convergenza di situazioni positive che consentono di affermare la prevalenza delle attenuanti rispetto alle aggravanti.
Trattasi di valutazione adeguatamente motivata ed esente da vizi logici e giuridici che si sottrae pertanto al sindacato in sede di legittimità. […]