Corte di Cassazione, Sez. L., Sentenza n. 12459 del 1998, dep. il 10 dicembre 1998

[…]

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con separati ricorsi in data 11.3.1994, […] e per […] e […] S.a.S., e […], in proprio e per la medesima Società, proponevano opposizione, ai sensi dell’art.18 L.689/1981, avverso le ordinanze-ingiunzioni del ….2.1994, rispettivamente n.1…/94 e n…./94, emanate dall’Ispettorato […] per la denunziata violazione dell’art.27, 2^ comma L.29.4.1949 n.264, come sostituito dall’art.26, 2^ comma L.28.2.1987 n.56, consistita nell’aver assunto quattordici lavoratori subordinati, senza il tramite della competente sezione circoscrizionale per l’impiego. Lo […] deduceva, in primo luogo, la propria estraneità ai fatti, perché, nonostante fosse socio accomandatario al momento delle assunzioni sosteneva di non avervi provveduto personalmente, avendovi invece provveduto la […]. Invocava, in proposito, l’art.3 L.689/81, secondo cui “ciascuno è responsabile delle proprie azioni ed omissioni…” e, quindi, il principio della responsabilità personale anche in sede di illecito amministrativo. Entrambi gli opponenti, nei rispettivi ricorsi, affermavano, poi, la mancanza del presupposto, consistente nella inesistenza di subordinazione nei rapporti in questione, per l’assenza di soggezione dei lavoratori, per cui è causa, al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro; invocavano comunque la propria esclusione di punibilità per buona fede ex art.5 c.p., nel testo rinnovellato dalla sentenza della Corte Cost. n. 364/88, estensibile, per consolidata giurisprudenza, anche all’illecito amministrativo. In subordine, i ricorrenti rilevavano l’eccessiva entità della sanzione e la insufficienza di motivazione al riguardo. Chiedevano, pertanto, l’annullamento delle ordinanze-ingiunzioni nn. …/94 e …/94 impugnate, ed, in subordine, la riduzione della misura delle sanzioni.Si costituiva in entrambi i giudizi, successivamente riuniti, l’Ispettorato […], osservando, in relazione al ricorso dello […], che, all’epoca dell’illecito amministrativo contestato (accertamenti del 26.9.1992), i poteri di gestione della Società erano attribuiti ad entrambi i soci accomandatari, […] e […] e, di fatto, dagli stessi esercitati, precisando che solo successivamente (in data 17.3.1993), quest’ultimo era diventato accomandante. Affermava, altresì, sussistere la prova che i 14 lavoratori, relativamente alla assunzione dei quali era stata riscontrata la violazione di cui alla impugnata ordinanza-ingiunzione, fossero parti di un rapporto di lavoro subordinato e non autonomo, e che non era da ravvisarsi alcun errore inevitabile da parte degli opponenti, tale da scusare l’ignoranza della legge, in materia di tale illecito amministrativo. Offriva, inoltre, gli elementi di conteggio della sanzione irrogata, a dimostrazione dell’equità e correttezza, nella sua individuazione, da parte dell’autorità procedente. Chiedeva, pertanto, il rigetto di entrambe le opposizioni, in quanto infondate.Espletata l’istruttoria, con sentenza del 5.8.1995, l’adito Pretore di Bologna rigettava le opposizioni, confermando le opposte ordinanze ingiunzioni. Ricorrono per cassazione i soccombenti, sulla base di quattro motivi, illustrati con memoria. Resiste l’Ispettorato […] con controricorso.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo, i ricorrenti deducono violazione e falsa applicazione dell’art.26, 2^ comma L.28.2.1987 n.56, che ha sostituito l’art.27, 2^ comma L. 29.4.1949 n.264 nonché violazione o falsa applicazione dell’art.2094 c.c.(art.360 n.3 c.p.c.); ed ancora, omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, in relazione all’art.360 n.5 c.p.c. In particolare, lamentano che l’impugnata sentenza, omettendo di considerare che il presupposto delle sanzioni amministrative irrogate era costituito dall'”assunzione” di lavoratori dipendenti senza il tramite dell’ufficio di collocamento (art.26 L. n.56/1987), avrebbe tenuto conto solo dello svolgimento dei vari rapporti e non anche del momento dell’assunzione”, ben potendosi verificare che un rapporto, sorto con determinate caratteristiche, assumesse connotazione e natura diversa nel corso della sua attuazione.
Col secondo motivo, i ricorrenti deducono violazione e falsa applicazione dell’art.2094 c.c. e dell’art.4 Cost., nonché violazione o falsa applicazione degli artt, 1321, 1414 e ss. e 1230 c.c. ed, in ogni caso, omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in relazione all’art.360 nn.3 e 5 c.p.c. Più precisamente, ci si duole che, poiché l’assetto, dato dalle parti al loro rapporto, era di lavoro autonomo (fatture con partita IVA), la sentenza avrebbe dovuto accertare se vi fosse stata simulazione al riguardo od anche una novazione oggettiva del rapporto, dando rilevanza al nomen iuris, concordato dalle stesse parti. Sul punto, non vi sarebbe stata motivazione, tanto più necessaria, considerando che le parti sono libere di scegliere le modalità del loro rapporto e che l’art.4 Cost. assegna pari dignità al lavoro autonomo e a quello subordinato, senza che sia rinvenibile, quindi, nel nostro ordinamento, una presunzione a favore di quest’ultimo. Pertanto, anche la valutazione delle prove doveva esser fatta tenendo presenti le norme e i principi sopra menzionati. Nell’accertamento del preteso rapporto di lavoro vi sarebbero state, inoltre, una serie di false applicazioni dell’art. 2094 c.c. e dell’art.409 n.3 c.p.c. ed errori nella motivazione, il tutto in relazione all’art.360 nn.3 e 5 c.p.c. (terzo motivo di ricorso), giacché la sentenza impugnata, anziché, preliminarmente, spiegare e motivare perché, nel caso in oggetto, non fosse agevolmente apprezzabile l’esistenza o meno di subordinazione, sarebbe passata a valutare gli indici sussidiari, che di regola caratterizzano il relativo rapporto ed, in particolare, quello della “continuità” del lavoro nell’interno dell’impresa, che, peraltro, contraddistingue anche i rapporti, di cui al n.3 dell’art.409 c.p.c. Non avrebbe, poi, dato conto delle risultanze istruttorie (interrogatorio, dichiarazioni rese agli ispettori e testimonianze), dalle quali emergeva che i collaboratori potevano rifiutare il lavoro, erano svincolati da un orario fisso e potevano assentarsi dal lavoro con “semplici comunicazioni”. In subordine (quarto motivo), i ricorrenti deducono violazione degli artt.3 e 6 comma 3 L. 1981 n.689 e violazione sui principi delle prove e dei poteri istruttori del giudice, in relazione all’art.360 n.3 c.p.c. e, comunque, omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, in relazione al n. 5 del medesimo articolo. In particolare, osservano che la sentenza, senza considerare che, nella specifica materia, la responsabilità è personale, ha ritenuto responsabile ogni accomandatario, indipendentemente dalla commissione del fatto -quindi, nella specie, lo […]-, nonostante che sia delle trattative che dell’assunzione dei nuovi collaboratori si fosse occupata la sola […]. Il Pretore avrebbe dovuto, perciò -ad avviso dei ricorrenti- dare ingresso alle prove richieste dallo […], dirette ad accertare la sua estraneità ai fatti, mentre, al contrario, pur disponendo l’assunzione di tutte le prove richieste, di fatto, aveva omesso ogni interrogatorio al riguardo.
I primi tre motivi, da trattare congiuntamente per la loro stretta connessione, sono infondati.
Invero, come da insegnamento della Suprema Corte, l’elemento distintivo del rapporto di lavoro subordinato rispetto a quello di lavoro autonomo è costituito dall’inserimento del prestatore nell’organizzazione del datore di lavoro con conseguente assoggettamento del primo al potere organizzativo, direttivo e disciplinare del secondo, fermo restando che, in ogni caso, assume valore decisivo non già il nomen iuris adottato dalle parti, ma il modo concreto di atteggiarsi del rapporto nella sua concreta esplicazione. La valutazione degli elementi di fatto, idonei nel caso concreto a ricondurre il rapporto nell’ambito dell’uno o dell’altro schema contrattuale, è riservata al giudice del merito, rimanendo censurabile in sede di legittimità solo la violazione dei generali ed astratti criteri distintivi (Cass.25.7.1994 n. 6919).Ciò non significa, evidentemente, che si debba prescindere dalla preventiva ricerca della volontà delle parti, giacché il principio, ora esposto, secondo cui, ai fini della distinzione in questione, è necessario avere riguardo all’effettivo contenuto del rapporto stesso, indipendentemente dal nomen iuris usato dalle parti, non implica che la dichiarazione di volontà di queste in ordine alla fissazione di tale contenuto, o di un elemento di esso qualificante ai fini della distinzione medesima, debba essere stralciata nell’interpretazione del precetto contrattuale e che non debba tenersi conto del relativo reciproco affidamento delle parti stesse e della concreta disciplina giuridica dei rapporto quale voluta dalle medesime nell’esercizio della loro autonomia contrattuale. Sicché, quando le parti, nel regolare i loro reciproci interessi, abbiano dichiarato di voler escludere l’elemento della subordinazione non è possibile – specie nei casi caratterizzati dalla presenza di elementi compatibili con l’uno e con l’altro tipo di rapporto – pervenire ad una diversa qualificazione se non si dimostra che in concreto il detto elemento della subordinazione si sia di fatto realizzato nello svolgimento del rapporto medesimo ( Cass. 25.2.1987, n. 1714; Cass.15.12.1990, n. 11925; Cass. 11.8.1992, n. 9483; Cass. 17/11/1994, n. 9718; Cass.4/11/1997, n. 10824). Nel caso in esame, tuttavia, l’unico sintomo, ricollegabile alla volontà delle parti, circa l’instaurazione di un rapporto di lavoro autonomo, sarebbe costituito – a detta degli stessi ricorrenti- da “fatture con partita IVA” e, cioè, dal riferimento ad un regime fiscale che caratterizza un tal tipo di rapporto, senza alcuna specificazione, quindi, delle connotazioni di carattere sostanziale – ovvero anche del semplice nomen iuris- del rapporto voluto. Appare del tutto corretto, pertanto, il giudizio del Pretore che si è preoccupato di analizzare il concreto svolgimento dei rapporti in discussione, dopo aver rimarcato -ed in ciò riportandosi al richiamato insegnamento del S.C.- che, in tema di qualificazione del rapporto di lavoro subordinato, il carattere distintivo essenziale è la subordinazione, intesa come vincolo di soggezione del lavoratore al potere organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, il quale deve estrinsecarsi nell’emanazione di ordini specifici, oltre che nell’esercizio di un’attività di vigilanza e di controllo nell’esecuzione delle prestazioni lavorative, sia pure diversamente atteggiata in relazione alla peculiarità di queste ultime. Ha soggiunto -sempre nel rispetto del cennato orientamento- che, allorché il predetto carattere distintivo non sia agevolmente apprezzabile a causa del concreto atteggiarsi dei rapporto, occorre fare riferimento ad altri criteri, complementari e sussidiari, come l’osservanza di un orario predeterminato, il versamento a cadenze fisse di una retribuzione prestabilita (generalmente a tempo ed indipendentemente dal risultato), il coordinamento dell’attività all’assetto organizzativo dato all’impresa dal datore di lavoro, l’assenza in capo al lavoratore di una sia pur minima struttura imprenditoriale, l’esecuzione del lavoro all’interno della struttura dell’impresa con materiali ed attrezzature proprie della stessa, la continuità della prestazione, l’incidenza soggettiva del rischio attinente all’attività produttiva in capo al datore di lavoro e non al lavoratore, l’esclusività della dipendenza in capo ad un solo datore di lavoro.
Sulla base di tali esatti presupposti e dell’altrettanto esatto rilievo, secondo cui tali indici sono privi di autonomo valore decisivo e sono valutabili come meri elementi indiziari nell’ambito di un doveroso apprezzamento globale della vicenda, il Pretore si è preoccupato di inquadrare la concreta fattispecie, osservando che, dalle “visure camerali”relative alla […] S.a.S. e dalle stesse affermazioni dei ricorrenti nell’atto di opposizione, era emerso che la predetta Società compiva un’attività consistente in sviluppo di progetti impiantistici meccanici, chimici e nucleari; che, committenti nei confronti della Società erano, per lo più, imprese impiantistiche; che oggetto di appalto erano operazioni, quali, ad esempio, elaborazioni di disegni costruttivi, calcoli di flessibilità, progettazionì e disegni costruttivi di sostegni, ecc.; che i lavoratori, in elenco nell’ordinanza-ingiunzione impugnata, svolgevano attività di disegnatori (teste […] e verbale d’ispezione ….7.92); che il lavoro – come da dichiarazioni rese all’Ispettorato […] dai lavoratori […] -era svolto negli uffici della Società e con l’uso delle attrezzature della stessa (anche mediante computer); che per tutti gli altri lavoratori, oltre che per i precedenti, l’esercizio del lavoro all’interno dell’impresa era dimostrato, in particolare, dai fogli di registrazione delle presenze e da quelli riepilogativi per il 1991 e 1992, da cui emergeva la continuità delle prestazioni e la registrazione giornaliera delle ore effettuate e dei singoli lavori svolti. Ritenuto provato l’organico inserimento dei lavoratori nelle strutture aziendali dei ricorrenti, l’indagine del Pretore si è volta ad accertare se le prestazioni da questi svolte fossero eseguite con vincolo di subordinazione o quale mero espletamento di una collaborazione da parte di liberi professionisti, rilevando che dalle risultanze di causa era emerso che il lavoro veniva svolto secondo le direttive impartite di volta in volta (nei fogli di presenza erano, infatti, specificati le singole mansioni giornalmente svolte) ed era assoggettato a controlli. Osservava, in proposito, che ciò risultava non solo dalle testimonianze dell’Ispettore […] ma anche dalle dichiarazioni raccolte dall’Ispettorato […] e dalle testimonianze (succintamente riportate per gli aspetti rilevanti) di alcuni disegnatori indicati nell’ordinanza impugnata. Evidenziava come non fosse esatto l’assunto dei ricorrenti, secondo cui le operazioni affidate ai lavoratori erano altamente specialistiche ed i controlli venivano effettuati dalle committenti della […], essendo ciò smentito dalle risultanze istruttorie ed in particolare dalla espletata prova per testi. Rimarcava la sussistenza di un orario di lavoro, cui erano sottoposti tutti i lavoratori, emergente oltre che dal testimoniale acquisito, dai fogli di registrazione delle presenze, comprovante anche la continuità delle prestazioni. Aggiungeva che la espletata istruttoria dimostrava che i lavoratori ricevevano, di regola, per le prestazioni rese, un compenso orario di L.8.000 lorde, con cadenza mensile e che, in caso di errore nell’esecuzione del lavoro, la tariffa non veniva ridotta, con ciò significando che trattavasi di obbligazioni di mezzi e non di risultato e che il rischio dell’impresa incombeva comunque sul datore di lavoro. Soggiungeva che dalla stessa istruttoria emergeva che, in caso di trasferta, delle spese si occupava l’ing. […] e che, quindi, anche fuori degli uffici dell’impresa, i lavoratori non utilizzavano mezzi propri, ed infine che nessuno dei lavoratori aveva dichiarato di lavorare contemporaneamente per altre ditte. Così argomentando , il Giudice del merito si è adeguato ai principi enunciati in materia da questa Corte, e più sopra specificati. Pertanto, essendo la motivazione, riferita all’effettiva attuazione dei rapporto, da ritenersi congrua e corretta dal punto di vista del suo svolgimento logico, la stessa si sottrae alla censura mossale con i primi tre motivi del ricorso.
Fondato è invece, il quarto e subordinato motivo.
In proposito, il Pretore, dal presupposto che i poteri di gestione della S.a.S. erano attribuiti ad entrambi i soci accomandatari -nella specie, lo […] e la […]- e che, in mancanza di diversa pattuizione, il potere gestorio spettava disgiuntamente a ciascuno di essi, ha tratto la conseguenza che lo […] aveva l’obbligo giuridico, nella sua qualità (all’epoca dei fatti contestati) di amministratore della società […] di impedire che l’altro amministratore commettesse illeciti amministrativi mediante l’assunzione di manodopera senza il tramite della competente sezione circoscrizionale per l’impiego.
Tale tesi non può essere condivisa.
Invero, come già affermato da questa Corte, nella disciplina delle infrazioni amministrative, di cui alla L.24.11.1981 n.689, i soci di una società di persone non possono essere assoggettati a sanzioni in base a tale loro qualità, perché la pena pecuniaria deve essere irrogata a carico della persona fisica autrice del fatto, con l’eventuale responsabilità solidale della società, a norma dell’art,6 L. cit. (Cass. 29.11,1989 n. 5212). Ne discende che, in tema di illeciti amministrativi, compiuti nell’interesse di una società in accomandita semplice, in forza dell’art.3 della richiamata legge, alla cui stregua ” ciascuno è responsabile della propria azione od omissione, cosciente e volontaria, sia essa dolosa o colposa”, risponde dell’illecito, se consistente in un comportamento attivo, il singolo socio che lo ha posto in essere, senza che sia invocabile, al fine di ritenere la responsabilità di tutti i soci, ed, in ispecie, dei soci accomandatari, l’art.2313 c.c., posto che tale norma delinea per il singolo socio la responsabilità civile, conseguente ad obbligazione della società (anche quale contenuto di eventuale sanzione amministrativa), responsabilità che, unitaria, resta divisa per il numero dei soci , secondo le modalità, fissate nell’art. cit.; ma non prevede la diretta responsabilità di ogni singolo socio per eventuali obbligazioni, anche amministrative. Ove, invece, la violazione amministrativa sia integrata da un’omissione, rispondono di essa i soci ai quali è stata attribuita l’amministrazione della società (art. 2319 c.c.). Più precisamente, il principio che la responsabilità per le sanzioni amministrative è personale e che quindi della singola violazione risponde la persona fisica autore dell’illecito, salva la responsabilità solidale della società (art. 3 e 6 L. n.689 del 1981), comporta conseguenze applicative che possono differire a seconda della natura della condotta illecita per cui è comminata la sanzione amministrativa; se, infatti, per la violazione di legge è richiesto un comportamento positivo, la responsabilità della condotta illecita ricade solo su chi materialmente l’ha messa in essere, salvo, naturalmente, l’eventuale concorso morale o materiale di altre persone fisiche, e in particolare di altri amministratori. da provarsi da parte dell’autorità irrogatrice della sanzione, qualora, invece, sia in questione un comportamento omissivo, come il mancato versamento alle scadenze previste dalla legge dei contributi previdenziali dovuti per un lavoratore dipendente, rileva il dovere di provvedere incombente personalmente su ciascuno dei soci aventi il potere di amministrare la società (salva l’eventuale prova dell’esistenza di un amministratore preposto in via esclusiva alla gestione del personale e all’adempimento di tutti gli obblighi conseguenti) ( in tal senso: Cass.21.8.1996 n. 7692). Alla luce dei principi esposti, l’iter argomentativo del Pretore appare, dunque, erroneo, poiché, pur ipotizzandosi, in via astratta, che lo […] “non abbia provveduto personalmente” all’assunzione dei 14 lavoratori, lo si è ritenuto egualmente responsabile, indipendentemente , cioè, dalla commissione del fatto, soltanto perché avrebbe dovuto impedirlo; postulandosi, in tal modo, un obbligo, sicuramente inesistente, a carico dello stesso, di un preventivo controllo delle intenzioni dell’altro socio accomandatario -nella specie, la […]- e di un correlativo potere interdittale. Ne consegue la cassazione della sentenza impugnata in relazione al motivo accolto, con rinvio ad altro giudice, affinché valuti in concreto la eventuale responsabilità dello […], sulla base del principio di diritto enunciato.