Corte di Cassazione, Sez. L. Sentenza n. 12489 del 2015, dep. il 17.06.2015

[…]

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza depositata il 15.11.11 la Corte d’appello di Roma rigettava il gravame interposto dalla […] S.p.A. contro la pronuncia n. 8562/07 con cui il Tribunale capitolino, dichiarata l’illegittimità del licenziamento intimato il ….05, per sopravvenuta totale inabilità al lavoro, all’ausiliaria socio-sanitaria […], ne aveva ordinato la reintegra ex art. 18 legge n. 300/70 con condanna della predetta società al pagamento del risarcimento dei danni.
Per la cassazione della sentenza ricorre la […] S.p.A. affidandosi a due motivi, poi ulteriormente illustrati con memoria ex art. 378 c.p.c.
[…] resiste con controricorso.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1- Con il primo motivo il ricorso lamenta violazione e falsa applicazione degli arti. 1334 c.c., 1 e 3 legge n. 604/66, 113 e 116 c.p.c., nonché vizio di motivazione, per avere l’impugnata sentenza, in base alle relazioni dei c.t.u. officiati in primo e secondo grado, ritenuto la lavoratrice non del tutto inabile al lavoro: obietta la società ricorrente che la sentenza non ha considerato che il licenziamento era stato correttamente intimato unicamente in base al giudizio reso da un organismo pubblico, ossia dalla Commissione medica ospedaliera, che all’epoca aveva giudicato […] totalmente e permanentemente inabile al lavoro, il che di per sé impediva la prosecuzione del rapporto e giustificava il recesso, senza che si dovesse accertare la possibilità di adibire la dipendente ad altre mansioni equivalenti od inferiori e dovendosi avere riguardo solo a quella che era la situazione di totale inabilità all’epoca accertata; infine — conclude il motivo — l’accertamento peritale eseguito in corso di causa è per più versi censurabile.

Il motivo è infondato.

Nel caso di specie l’impugnata sentenza ha diffusamente motivato la propria condivisione delle relazioni dei c.t.u. che, sia in primo che in secondo grado, hanno in confermato il giudizio di non incompatibilità (fatte salve talune limitazioni), già all’epoca del licenziamento (come si evince dalla relazione tecnica trascritta proprio in ricorso), della infermità riscontrata nell’odierna controricorrente con le mansioni di ausiliaria socio-sanitaria da lei espletate alle dipendenze della […].
Dunque, anche a voler avere riguardo solo alla situazione in essere alla data del licenziamento, i giudici di merito hanno dato atto che non sussisteva incompatibilità fra patologia e mansioni della lavoratrice.
Ma neppure un ipotetico mutamento di tale situazione verificatosi dopo il recesso lo avrebbe giustificato, atteso che – ad ogni modo – la società ricorrente non era vincolata al difforme giudizio all’epoca espresso dalla Commissione medica ospedaliera ex art. 5 legge n. 300/70, perché esso non ha valore vincolante né per il datore di lavoro né per il giudice, che — infatti — può sottoporlo al proprio controllo nel contesto più ampio di tutte le prove acquisite, avvalendosi, se del caso, dell’ausilio di un consulente tecnico. Conseguentemente, in caso di contrasto tra l’accertamento sanitario predetto e la consulenza disposta nel corso del processo, il giudice del merito è tenuto a porre a raffronto le diverse risultanze allo scopo di stabilire quale sia maggiormente attendibile e convincente, con un apprezzamento valutativo sottratto al sindacato di legittimità ove correttamente e logicamente motivato (cfr. Cass. n. 4507/92; Cass. n. 6607/87; Cass. n. 4560/84).
A ciò si aggiunga che un giudizio pur di totale inabilità del lavoratore alle mansioni precedentemente svolte, formulato ex art. 5 legge n. 300/70 dalla Commissione medica ospedaliera, come non impone il licenziamento così non integra un caso di impossibilità sopravvenuta della prestazione lavorativa tale da risolvere il rapporto, essendo pur sempre onere del datore di lavoro dimostrare l’inesistenza in azienda di altre mansioni (anche diverse ed eventualmente inferiori) compatibili con lo stato di salute del lavoratore e a lui attribuibili senza alterare l’organizzazione produttiva (cfr. Cass. n. 15500/09; Cass. n. 3245/03), sempre che il dipendente non abbia già manifestato, a monte, il rifiuto di qualsiasi diversa assegnazione (ma non è questo il caso).
È, dunque, fuori centro la doglianza secondo cui la Corte territoriale avrebbe errato nel richiedere un qualche accertamento aziendale circa la possibilità di adibire […] a mansioni equivalenti e, se del caso, anche inferiori a quelle già espletate.
Per il resto le censure rivolte alla relazione del c.t.u., motivatamente condivisa dalla gravata sentenza, non sono in grado di scalfirla.
Infatti, il vizio di motivazione – denunciabile mediante ricorso per cassazione – della sentenza che abbia aderito alle conclusioni del consulente tecnico d’ufficio è ravvisabile solo in caso di palese deviazione dalle nozioni correnti della scienza medica (la cui fonte va indicata dal ricorrente) o nell’omissione degli accertamenti strumentali dai quali, secondo le predette nozioni, non si possa prescindere per la formulazione di una corretta diagnosi.
Al di fuori di tale ambito la censura costituisce mero dissenso diagnostico non attinente a vizi del processo logico-formale, che si traduce, quindi, in una inammissibile critica del convincimento del giudice (giurisprudenza consolidata: v., e pluribus, Cass. n. 26558/11; Cass. 29.4.09 n. 9988; Cass. 3.4.08 n. 8654).
Con il ricorso in esame non vengono dedotti vizi logico-formali che si concretino in deviazioni dalle nozioni della scienza medica o si sostanzino in affermazioni manifestamente illogiche o scientificamente errate, ma vengono effettuate solo osservazioni concernenti il merito di causa, non deducibili innanzi a questa Corte Suprema.
Quanto al diniego di nuova c.t.u., per ormai consolidata giurisprudenza (cfr., ex aliis, Cass. 17.12.2010 n. 25569), cui va data continuità, la decisione — anche solo implicita – di non disporre una nuova indagine non è sindacabile in sede di legittimità qualora gli elementi di convincimento per disattendere la richiesta di rinnovazione della consulenza siano stati tratti dalle risultanze probatorie già acquisite e ritenute esaurienti dal giudice con valutazione immune da vizi logici e giuridici, come — appunto — avvenuto nel caso per cui è processo.

2- Con il secondo motivo il ricorso deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 115, 116 e 195 c.p.c., 18 Stat., 1226 c.c. e 432 c.p.c., nella parte in cui l’impugnata sentenza non ha detratto, dal risarcimento del danno, l’ aliunde perceptum, quantunque dalla relazione del c.t.u. officiato in prime cure (relazione fidefaciente, secondo la società ricorrente) sia emerso che, dopo il licenziamento, […] ha svolto in proprio attività di assistenza malati in strutture di cura e a domicilio.

Il motivo è infondato.

L’ art. 194 co. 10 c.p.c. prevede che il c.t.u. possa essere autorizzato a domandare chiarimenti alle parti, ad assumere informazioni da terzi e a eseguire piante, calchi e rilievi: si tratta di poteri, a lui delegabili, di ampiezza maggiore rispetto a quello di acquisire documenti forniti dalle parti, che costituisce un minus, in quanto tale suscettibile di essere compreso in facoltà di più ampio respiro.
Trattandosi pur sempre di poteri delegabili dal giudice, la fonte si rinviene in una decisione di quest’ultimo che, nel rito del lavoro, è riconducibile all’art. 421 co. 2° c.p.c.
Ma la società ricorrente non allega neppure che all’atto del conferimento dell’incarico peritale il giudice abbia delegato al c.t.u. la richiesta di chiarimenti alle parti e, soprattutto, che lo abbia fatto allo scopo di accertare un eventuale aliunde perceptum da parte dell’odierna controricorrente.
Né in contrario possono invocarsi i poteri officiosi d’indagine del c.t.u., perché il fatto che questi, nell’esercizio della propria attività valutativa, possa acquisire elementi necessari per la risposta ai quesiti non significa che egli possa sopperire a carenze probatorie imputabili alla parte, eludendo termini di decadenza propri della fase istruttoria.
Ciò valga ancor più ove si consideri che l’accertamento d’un eventuale aliunde perceptum era estraneo all’oggetto del quesito.
In breve, ove mai un aliunde perceptum fosse davvero emerso nel corso delle indagini peritali, si tratterebbe comunque di circostanza di fatto non dimostrabile attraverso un elaborato peritale in assenza di specifica autorizzazione in tal senso da parte del giudice.

3- In conclusione, il ricorso è da rigettarsi. […]