Corte di Cassazione, Sez. Lavoro, sentenza n. 19308 del 2016, dep. il 29.09.2016

[…]

SVOLGIMENTO del PROCESSO

Il giudice del lavoro di Cagliari, adito con ricorso depositato il 20 gennaio 2006, con sentenza numero 49 del 14 gennaio 2011 dichiarava la natura subordinata del rapporto di lavoro intercorso (da settembre 1997 a tutto giugno 2005) tra l’attore […] e […], poi dichiarata fallita (previa quindi interruzione del giudizio, quindi riassunto
nei confronti del Fallimento), nonché ingiustificato il licenziamento intimato il 30.06.05 al ricorrente dalla società a suo tempo in bonis, con la condanna dello stesso Fallimento alla reintegrazione nel posto di lavoro, oltre che al pagamento dell’indennità prevista dall’articolo 18 L. n. 300/1970.
La Corte di Appello di Cagliari con sentenza numero 322 del 25 settembre / 7 ottobre 2013 rigettava il gravame interposto avverso l’anzidetta pronuncia dal fallimento, ritenendo alla stregua delle acquisite risultanze probatorie dimostrata la natura subordinata del rapporto di lavoro intercorso tra il […] e la società […], ancorché tra le parti fossero intervenuti contratti di lavoro autonomo (1° settembre 1997, 2 marzo 1998 e 10 marzo 1999), trattandosi di circostanze non decisive, in quanto era provato il pieno inserimento dell’attore nell’organizzazione aziendale facente capo alla convenuta, per cui il […] restava a disposizione di quest’ultima per circa dieci ore al giorno, collaborando attivamente nell’ambito della stessa, laddove prestava le sue energie lavorative. Inoltre, l’intimato recesso risultava del tutto ingiustificato ed era applicabile la tutela c.d. reale di cui al citato articolo 18. La Corte territoriale riteneva, altresì, legittima la condanna generica del Fallimento al pagamento
dell’indennità rísarcitoria di cui all’articolo 18, trattandosi di conseguenza automatica come per legge alla declaratoria d’illegittimità del licenziamento, risultando inoltre pacifico il requisito dimensionale previsto dalla norma. Tale condanna generica non comportava alcun accertamento relativo al quantum, la cui determinazione restava affidata al tribunale fallimentare a tutela della par condicio creditorum. In tal;sensi citava il principio affermato da questa Corte con sentenza del 25 febbraio 2009, n. 4547 (secondo cui, in caso di sottoposizione della società datrice di lavoro a liquidazione coatta amministrativa, spetta al giudice del lavoro la cognizione non soltanto sulle domande del lavoratore di impugnazione del licenziamento e di condanna del datore alla reintegrazione nel posto di lavoro, in quanto dirette
ad ottenere una pronuncia costitutiva, ma anche della domanda di condanna generica al risarcimento dei danni mediante il pagamento di una indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento a quello dell’effettiva reintegrazione, trattandosi di istanza meramente riproduttiva del contenuto dell’art. 18, quarto comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300 come modificato dall’art. 1 della legge 11 maggio 1990, n. 108, e conseguenziale alle richieste principali di dichiarazione di inefficacia del licenziamento, che non comporta alcun accertamento aggiuntivo sul “quantum” del risarcimento, né, quindi, impone lo scorporo della domanda per la preventiva verifica in via amministrativa – in sede di
accertamento dello stato passivo avanti ai competenti organi della procedura concorsuale – a tutela degli altri creditori, dovendosi ritenere, sul piano della “ratio legis”, l’inutilità di una simile verifica, idonea ad appesantire ingiustificatarnente la durata del processo). Infine, la Corte territoriale rigettava l’eccezione di parte appellante, secondo cui le spese di primo grado non andavano poste a suo carico, attesa l’ammissibilità della condanna generica ex articolo 18 davanti al giudice del lavoro. In ogni caso, lo stesso appellante aveva riconosciuto che la domanda di accertamento dell’illegittimità del licenziamento andava trattata con il rito di cui agli artt. 409 e ss. c.p.c.. Il ricorso al giudice del lavoro, dunque, non poteva dirsi frutto di una libera scelta del lavoratore, senza contare poi che il ricorrente aveva proposto l’azione, quando la società era in bonis, anche per ottenere differenze retributive.
Avverso la sentenza della Corte cagliaritana ha proposto ricorso per cassazione il Fallimento […] con atto di cui alla richiesta di notifica a mezzo posta in data 30
dicembre 2013 (vedi avviso di ricevimento immesso in cassetta in data 2 gennaio 2014 restituito al mittente con timbro postale 7 gennaio 2004), affidato a due motivi: violazione delle norme sulla competenza in particolare dell’articolo 24 della legge fallimentare di cui al regio decreto 16 marzo 1942 numero 267 successive modificazioni; violazione e falsa applicazione delle norme sulla subordinazione ed in particolare dell’articolo 2094 del codice civile.
[…] non risulta in atti aver spiegato difese avverso il ricorso del Fallimento, di modo che è rimasto intimato.
Non vi sono memorie ex art. 378 c.p.c., nonostante previo avviso per la pubblica udienza issata al 19 maggio 2016, alla quale è comparso il difensore di parte ricorrente.

MOTIVI della DECISIONE

Il R. D. 16 marzo 1942, n. 267 (disciplina del fallimento, del concordato preventivo,
dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa) nel testo in vigore dal 21 -4-1942 al 16-7-2006 , all’art. 24 (competenza del tribunale fallimentare) così recitava: «Il tribunale che ha dichiarato il fallimento è competente a conoscere di tutte le azioni che ne derivano, qualunque ne sia il valore e anche se relative a rapporti di lavoro, eccettuate le azioni reali immobiliari, per le quali restano ferme le norme ordinarie di competenza» . Iltesto vigente successivamente, dal 17 -7-2006 31-12-2007, era così formulato: Il tribunale che ha dichiarato il fallimento è competente a conoscere di tutte le azioni che ne derivano, qualunque ne sia il valore.
Salvo che non sia diversamente previsto, alle controversie di cui al primo comma si applicano le norme previste dagli articoli da 737 a 742 del codice di procedura civile. Non si applica l’articolo 40, terzo comma, del codice di procedura civile.
Infine, l’art. 24 della c.d. L.F., nel testo in vigore dal primo gennaio 2008, risulta cosìtestualmente recita: «Il tribunale che ha dichiarato il fallimento è competente a conoscere di tutte le azioni che ne derivano, qualunque ne sia 11 valore. (Il successivo comma è stato abrogato dal d.lgs. 12 settembre 2007, n. 169, il cui art. 22, comma 2, ha peraltro stabilito che “Le disposizioni del presente decreto si applicano ai procedimenti per dichiarazione di fallimento pendenti alla data della sua entrata in vigore, nonché alle procedure concorsuali e di concordato fallimentare aperte successivamente alla sua entrata in vigore”)».
Orbene, secondo il ricorrente Fallimento, appare logico ritenere che anche sotto la vigenza del nuovo articolo 24 della legge fallimentare, la prioritaria esigenza di garantire il rispetto dellapar condicio creditorum imponga l’instaurazione dinanzi al tribunale fallimentare delle controversie aventi ad oggetto l’accertamento della sussistenza di un rapporto di lavorosubordinato, della legittimità del recesso e della conseguente condanna al risarcimento dell’indennità ex articolo 18 statuto lavoratori.
Inoltre, richiamando dottrina, parte ricorrente sostiene che nel caso in cui intervenga fallimento sarebbe impossibile disporre la reintegra nel posto di lavoro per cessazione dell’attività di impresa, venendo così in meno l’interesse a proseguire la causa davanti al giudice del lavoro, residuando unicamente aspetti patrimoniali del rapporto, sicché sarebbe il tribunale fallimentare competente a decidere incidenter tantum della sussistenza del rapporto stesso posto a base della pretesa creditoria.
In sostanza, riguardo alla nuova formulazione dell’articolo 24 della legge fallimentare l’eliminazione della previsione della ricomprensione nella competenza funzionale del tribunale delle controversie di lavoro va obbligatoriamente intesa riconoscimento della validità dell’orientamento giurisprudenziale sorto sotto la vigenza del vecchio testo dell’articolo 24, che considerava proponibili, nelle forme dell’accertamento del passivo, le domande dei lavorato rivolte al riconoscimento di un credito nei confronti del datore di lavoro (fallito), mentre tutte le altre azioni spettanti ai lavoratori, ma non ancora direttamente prodromiche ad una domanda di condanna, rientrano ancora nella competenza prevista dall’articolo 409 c.p.c..
La tesi sostenuta da parte ricorrente sarebbe, inoltre, funzionale all’esigenza di interpretazione adeguatrice dell’articolo 24 legge fallimentare, norma il cui contenuto andrebbe letto in relazione alla recente riforma c.d. Fomero, che ha portato sostanziali modifiche all’articolo 18 dello Statuto, eliminando quale automatica conseguenza della declaratoria di licenziamento illegittimo la reintegrazione del lavoratore. Di conseguenza, l’attribuzione al tribunale fallimentare di tutte le controversie in tema di licenziamento si rende quanto mai opportuna, soprattutto in una prospettiva evolutiva della normativa fallimentare.
Pertanto, la Corte di Appello di Cagliari aveva errato nell’aderire alla isolata tesi espressa dalla Corte di Cassazione con la sentenza numero 4547 del 25 febbraio 2009, condivisa per il solo fatto che non risultavano precedenti che si fossero occuriati specificamente dell’ammissibilità di domande di condanna generica al pagamento dell’indennità in questione. Per contro, era consolidata, secondo parte ricorrente, la tesi interpretativa dell’articolo 24, secondo cui la domanda volta ad ottenere la declaratoria d’illegittimità del licenziamento – quando come quella del […] pacificamente strumentale all’accertamento di un diritto di credito nei confronti della procedura – sia di competenza esclusiva del tribunale fallimentare.
In relazione al secondo motivo del ricorso, circa la denunciata erronea applicazione dell’articolo 2094 c.c. in tema di subordinazione, parte ricorrente ha sostenuto che la Corte distrettuale aveva del tutto trascurato elementi rivelatori dell’autonomia, così pervenendo alla erronea qualificazione del rapporto in esame in termini di subordinazione, tenuto conto della ricostruzione fattuale della vicenda lavorativa, che traeva origine da formali contratti di lavoro autonomo, stipulati il 1° settembre 1997, 2 marzo 1998 e il 10 marzo 1999, aventi ad oggetto la manutenzione dei circuiti elettrici di alcuni impianti aziendali. Nella specie il […] – possessore di partita Iva e titolare dell’omonima impresa individuale installazione di impianti, ditta iscritta presso la Camera di Commercio di Torino – aveva sempre percepito il compenso
consensualmente pattuito, del tutto congruo e comunque commisurato ai risultati previsti e conseguiti, in relazione ai quali egli aveva sempre regolarmente emesso le certificazioni fiscali. Mai il […] aveva mosso la benché minima contestazione o doglianza, né aveva rivendicato pretese di sorta, neanche dopo aver ricevuto la comunicazione mediante la quale la società aveva provveduto alla risoluzione del contratto, avuto riguardo alla lettera trasmessa in data 5 luglio 2005 dal lavoratore alla società, dal cui tenore letterale risultava confermata la genuina natura autonoma delle attività prestata, nonché il concreto convincimento che di tale natura lo stesso interessato aveva manifestato. In sede di libero interrogatorio, il ricorrente aveva dichiarato di aver firmato i contratti per prestazioni di lavoro autonomo, in quanto si trattava dell’unico modo per avere un lavoro, precisando che il primo contratto era stato effettivamente un contratto di lavoro autonomo, che aveva ricevuto congrua retribuzione come pattuito emettendo la relativa fattura, laddove poi la situazione era mutata in relazione ad altri due contratti, dopo aver chiuso la fase di avviamento degli impianti nel 1997, periodo in cui aveva operato in piena autonomia.
Per contro; la Corte cagliaritana, pur dando conto delle anzidette dichiarazioni, ne aveva totalmente svilito la valenza, invero difficilmente contestabile, per cui aveva tuttavia incomprensibilmente ravvisato la sussistenza del vincolo della subordinazione anche in relazione al periodo di prestazioni in cui neppure il lavoratore aveva ritenuto sussistere tale vincolo. In ogni caso, il […] non aveva fornito un sufficiente sostegno probatorio sul fatto di aver svolto, in favore della società (poi) fallita, attività lavorativa di natura subordinata del periodo compreso tra il settembre 1997 e giugno 2005. Dalle testimonianze era emerso che l’attore prestava la sua attività dieci ore al giorno, normalmente dalle 7 alle 17.30 (per ovvie ragioni di sicurezza degli impianti, connessi all’estrazione e alla lavorazione di oro), senza tuttavia il vincolo di alcun orario di lavoro fisso e predeterminato e comunque in assenza di potere direttivo e disciplinare, con il solo limite di eseguire e realizzare le opere commissionategli, secondo le indicazioni contenute nel programma di lavoro predisposto di volta in volta dalla società. Né vi era stata sanzione alcuna
in caso di mancato rispetto del preteso orario di lavoro, comunque mai imposto. Nemmeno la reperibilità notturna o festiva in caso di guasti era indice di subordinazione, non essendo dato sapere se la stessa avesse il potere di sanzionare il […] in caso di sua irreperibilità.
Poteva accadere che le priorità di interventi fossero indicate dallo stesso ricorrente o dal direttore dell’azienda. Dunque, alla società interessava unicamente il risultato del servizio affidato al […], restando nella sua piena autonomia discrezionale l’individuazione delle concrete modalità di esecuzione del servizio stesso. Il compenso, poi, era stato del tutto congruo e proporzionato come da fatture quietanzate dal medesimo lavoratore.
Pertanto, secondo il ricorrente Fallimento, mancando la subordinazione, non era ipotizzabile il licenziamento, tale erroneamente qualificato dalla Corte distrettuale in ordine al valido recesso esercitato dalla società.
Entrambe le censure vanno disattese in forza delle seguenti considerazioni.
Ed invero, preliminarmente, va osservato come il ricorso non contenga precisi elementi di riferimento circa le questioni affrontate con il primo motivo, laddove invero si assume che il Fallimento appellava la sentenza di primo grado, sostenendo in via pregiudiziale l’incompetenza del giudice del lavoro in ordine alla condanna del Fallimento al pagamento del risarcimento del danno ex art. 18 L. n. 300/70 (evidentemente secondo il testo allora ratione temporis applicabile, cfr. pag. 7 del ricorso, laddove tra l’altro detta eccezione d’incompetenza non appare riferita anche all’ordine di reintegra ex art. 18 cit., né invero allo stesso accertamento della natura subordinata del rapporto da parte del giudice del lavoro adito con ricorso del 20 gennaio 2006, ancor prima quindi delle modificazioni dell’art. 24 L.F. introdotte soltanto dal 17 luglio 2006).
Null’altro è stato precisato dal ricorrente circa il primo motivo di appello, di cui nemmeno consta il formale deposito ex art. 369 II n. 4 c.p.c. (non risultando sufficiente al riguardo la mera indicazione contenuta nel generico indice di cui a pagg. 26/27 del ricorso: «Si producono e si offrono in comunicazione: …3. fascicolo di parte dei giudizi e di primo e secondo grado»).
Deve, invece, rilevarsi quanto desumibile dal testo della sentenza qui impugnata, secondo cui tra l’altro a seguito della riassunzione del giudizio di primo grado, la Curatela del Fallimento non si costituiva e che il primo motivo di appello esaminato dalla Corte territoriale riguardava l’eccezione, evidentemente di merito, attinente alla contestata natura subordinata del rapporto, invece rivendicata dall’attore, mentre soltanto dopo veniva delibata e disattesa la doglianza relativa alla condanna di parte convenuta al pagamento delle retribuzioni maturate dal recesso alla riammissione in servizio ed al versamento dei contributi previdenziali,evidentemente a titolo risarcitorio ex art. 18 cit., senza tener conto che una volta intervenuto il
fallimento tutti i crediti pecuniari vantati nei confronti del soggetto fallito andavano fatti valere nella procedura concorsuale, restando applicabile il rito del lavoro solo per l’accertamento della legittimità o meno del licenziamento.
Dunque, a fronte di quanto sul punto emergente dalla sentenza di appello ed in mancanza di precisi diversi elementi da parte ricorrente (v. altresì l’art. 366 co. I nn. 3 e 6 c.p.c., secondo cui il ricorso deve contenere, a pena di inammissibilità l’esposizione, ancorché sommaria, ossia sintetica ma sufficientemente completa, dei fatti della causa, e la specifica indicazione degli atti processuali, dei documenti e dei contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda), la questione circa la competenza ex art. 24 L.F. è ammissibile e per l’effetto qui esaminabile unicamente negli anzidetti termini e limiti, esaminati dalla Corte distrettuale.
Ne deriva che resta preclusa (per la rilevata inammissibilità ex art. 366, in part. nn. 3 e 6, e per l’improcedibilità di cui all’art. 369 n. 4, citati) ogni doglianza attinente alla competenza del giudice adito quanto all’accertamento della natura del rapporto contrattuale dedotto, secondo l’attore di carattere subordinato sulla scorta del ricorso introduttivo risalente al gennaio 2006 (prima quindi delle modifiche apportate all’art. 24 della c.d. L.F. – cfr. anche il principio della perpetuatio ex art. 5 c.p.c., secondo cui la giurisdizione e la competenza si determinano con riguardo alla legge vigente e allo stato di fatto esistente al momento della proposizione della domanda e non hanno rilevanza rispetto ad esse i successivi mutamenti della legge o dello stato medesimo), nonché circa l’ordine di reintegra (laddove tra l’altro vale ancora, almeno di
regola, il principio fissato dall’art. 2119, comma II, c.c.: non costituisce giusta causa di risoluzione del contratto il fallimento dell’imprenditore o la liquidazione coatta amministrativa dell’azienda. V. tra le altre Cass. Sez. un. civ. n. 2637 del 27/10/1966, secondo cui la disposizione dell’art 2119, secondo comma, c.c., come risulta evidente dalla formula adoperata e come è chiarito nei lavori preparatori, si riferisce ad entrambe le parti del rapporto di lavoro e fissa il principio che il fallimento dell’imprenditore non determina la risoluzione ipso jure del contratto di lavoro subordinato. La ratio della disciplina legislativa si fonda sulla considerazione dell’unitarietà e sopravvivenza dell’azienda alla dichiarazione di fallimento in relazione non solo alla eventualità di un esercizio provvisorio, ma anche alla possibilità di una cessione in blocco dell’azienda o della ripresa della sua amministrazione da parte del fallito a seguito di concordato. Spetterà perciò al curatore, sotto la vigilanza degli altri organi fallimentari, stabilire se sia conveniente procedere al licenziamento dei lavoratori secondo le circostanze particolari in relazione alle suddette eventualità ed anche in relazione al lavoro da espletarsi, il quale potrebbe presupporre necessariamente un’azienda in attività ed essere necessaria anche in una fase di sospensione dell’attività medesima).
Quanto, poi, alla condanna generica al risarcimento, spettante ai sensi dell’art. 18, commisurato alle retribuzioni maturate dal riconosciuto licenziamento sino al momento dell’effettiva reintegra, il collegio ritiene del tutto corretto il percorso argomentativo seguito in proposito dalla Corte di merito (laddove peraltro nessuna pronuncia risulta emessa in ordine alle pretese creditorie azionate dal […] con riferimento alle differenze retributive vantate con l’inziale ricorso introduttivo).
Il giudici di appello, infatti, si sono attenuti, peraltro condividendolo, al principio di diritto fissato da questa Corte (giudice della nomofilachia) con la citata sentenza in data 17 dicembre 2008 /25 febbraio 2009 n. 4547 (che ribadiva la giurisprudenza di legittimità, secondo la quale, in caso di sotto posizione del datore di lavoro alla procedura di liquidazione coatta amministrativa, deve distinguersi, come nel caso di fallimento, tra le domande del lavoratore che mirano a pronunce di mero accertamento oppure costitutive e domande dirette al pagamento di somme di denaro, anche se accompagnate da domande di accertamento aventi funzione strumentale: per le prime andava affermata la perdurante competenza del giudice del lavoro mentre per le seconde operava, in luogo della vis attractiva del foro fallimentare, la
regola della temporanea improcedibilità o improseguibilità della domanda sino alla conclusione della fase amministrativa di accertamento dello stato passivo avanti ai competenti organi della procedura concorsuale, ferma restando l’assoggettabilità del provvedimento attinente allo stato passivo ad opposizione o impugnazione avanti al tribunale fallimentare.
La medesima conclusione era riferibile anche alla domanda generica di condanna al conseguente risarcimento dei danni, mediante pagamento di una indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento a quello dell’effettiva reintegrazione, trattandosi di domanda consequenziale rispetto alle richieste principali relative alla dichiarazione di inefficacia del licenziamento collettivo e alla reintegrazione, meramente riproduttiva del contenuto della L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 18, comma 4, come modificato dalla L. 11 maggio 1990, n. 108, art. 1, che tale conseguenza ineluttabilmente vi riconnette.
Infatti, secondo Cass. n. 4547/09, non viene richiesto alcun ulteriore accertamento aggiuntivo relativamente al quantum del risarcimento, secondo le coordinate di legge, che come tale implichi la necessità di un precedente verifica in via amministrativa, in base alle regole della procedura, a necessaria tutela degli altri creditori. Lo scorporo di tale domanda dalle altre per essere sottoposta alla verifica degli organi della procedura sarebbe, pertanto, anche sul piano della ratio legis, del tutto superflua, contribuendo viceversa unicamente ad appesantire ingiustificatamente la durata del processo).
Ed invero, la decisione appare oltretutto costituzionalmente orientata alla regola della ragionevole durata del giusto processo ex art. 111 Cost., tanto più poi che nel caso di specie, iniziata la lite nell’ormai lontano gennaio 2006 nei riguardi della società allora in bonis, previa rituale instaurazione del contraddittorio, in seguito pure nei confronti della curatela fallimentare (che invece non si costituiva in prime cure), quest’ultima soltanto con l’appello proposto nell’anno 2011 ha posto, peraltro nei limiti suindicati, la questione della competenza. Il fatto, poi, che il principio affermato da Cass. n. 4547/09 costituisca un precedente specifico isolato non ne sminuisce perciò soltanto la valenza. D’altro canto, va pure ricordato il principio (v. Cass. lav. n. 7129 del 29/03/2011), secondo cui ove il lavoratore abbia agito in giudizio chiedendo, con la dichiarazione di illegittimità o inefficacia del licenziamento, la reintegrazione nel posto di lavoro nei confronti del datore di lavoro dichiarato fallito, permane la competenza funzionale del giudice del lavoro, in quanto la domanda proposta non è configurabile come mero strumento di tutela di diritti patrimoniali da far valere sul patrimonio del fallito, ma si fonda anche sull’interesse del lavoratore a tutelare la sua posizione all’interno della impresa fallita, sia per l’eventualità della ripresa dell’attività lavorativa, sia per tutelare i connessi diritti non patrimoniali, ed i diritti previdenziali, estranei all’esigenza della “par condicio creditorurn” (in senso conforme anche Cass. n. 4051 del 2004).
Peraltro, si è osservato da taluni in dottrina che il “vecchio” art. 24 L.F. si limitava a prevedere la cd. vis attractiva, attribuendo al tribunale che aveva dichiarato il fallimento la competenza a conoscere di tutte le azioni che ne derivavano, ivi comprese le controversie relative a rapporti di lavoro ed escluse soltanto le azioni reali immobiliari.
Il “nuovo” art. 24 L.F. si compone di due commi: nel primo viene sostanzialmente riproposto, con alcune modifiche, il testo anteriore; nel secondo si dispone che, salvo che non sia diversamente stabilito, alle controversie che derivano dal fallimento si applicano le norme dei procedimenti in camera di consiglio e non si applica l’art. 40, comma terzo, c.p.c.. Orbene, quanto alle cause di lavoro, si è opinato che la modifica non pare abbia avuto attitudine innovativa, in quanto, venuta meno l’espressa previsione contenuta nell’art. 24 L.F., soccorrerebbe la disposizione dell’art. 413 c.p.c., che devolve al giudice del lavoro le controversie previste dall’art. 409 c.p.c.. Di conseguenza, il rispetto della doppia competenza esclusiva (quella del giudice del lavoro per le relative controversie e quella del tribunale fallimentare per l’accertamento dei crediti che vogliono insinuarsi al passivo) comporta che continueranno ad essere di competenza del giudice del lavoro le questioni relative alla esistenza del rapporto di lavoro o alla legittimità degli atti che ne hanno causato la cessazione; continueranno, invece, a doversi esaminare nella sede endofallimentare le questioni relative alla quantificazione dei crediti.
Nei sensi anzidetti, pertanto, va respinto il primo motivo di ricorso, dovendosi infine appena rilevare che nel caso qui in esame (licenziamento di giugno 2005, giudizio introdotto nel gennaio 2006) appare del tutto inconferente ogni riferimento alla c.d. riforma Fornero (L. 28 giugno 2012, n. 92 – Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita in G.U. n. 153 del 3-7-2012 – Suppl. Ordinario n. 136, in vigore dal 18luglio 2012), entrata in vigore il 18 luglio 2012, perciò qui assolutamente inapplicabile ratione temporis.
Parimenti, deve poi disattendersi la seconda censura, circa il contestato riconoscimento della natura subordinata, di cui al rapporto formalizzato mediante tre contratti di lavoro autonomo.
Va premesso che nella specie non rileva la natura autonoma del rapporto, sulla scorta di quanto riconosciuto dallo stesso […] in sede d’interrogatorio libero, però limitatamente al primo periodo, visto che non solo i giudici di merito hanno omesso di pronunciarsi espressamente sul punto, comunque senza alcuna condanna di pagamento per le vantate differenze retributive (nemmeno relativamente ai successivi archi temporali), ma tenuto altresì conto che l’accertata subordinazione rileva unicamente ai fini del licenziamento di cui è causa, in data 30 giugno 2005, dichiarato illegittimo con conseguente tutela reale.
Orbene, correttamente e motivatamente, è stata ritenuta la natura subordinata ex art. 2094 c.c. del rapporto in questione, avendo il competente giudice di merito esaminando dettagliatamente gli elementi di fatto disponibili, considerati all’uopo rilevanti, osservando come non fosse dirimente il nomen juris dei contratti, i quali non avevano di certo il contenuto tipico del rapporto di lavoro autonomo, laddove, a fronte della clausola secondo cui il […] avrebbe agito come imprenditore indipendente, l’art: 3 conteneva una precisa indicazione dell’orario di lavoro (dieci ore giornaliere distribuite in sei giornate lavorative, salvo le eventuali deroghe ed eccezioni. Cfr. tra re altre Cass. lav. n. 7024 del 08/04/2015, secondo cui la qualificazione del rapporto di lavoro, operata dalle parti, come contratto di collaborazione coordinata e continuativa non assume rilievo dirimente in presenza di elementi fattuali – quali la previsione di un compenso fisso, di un orario di lavoro stabile e continuativo, il carattere delle mansioni, nonché il collegamento tecnico organizzativo e produttivo tra la prestazione svolta e le esigenze aziendali – che costituiscono indici rivelatori della natura subordinata del rapporto stesso, anche se svolto per un arco temporale esiguo. Cfr. ancora Cass. n. 22289 del 21/10/2014, secondo cui ai fini della distinzione fra lavoro subordinato e lavoro autonomo, deve attribuirsi maggiore rilevanza alle concrete modalità di svolgimento del rapporto, da cui è ricavabile l’effettiva volontà delle parti -iniziale o sopravvenuta- rispetto al “nomen iuris” adottato dalle parti e ciò anche nel caso di contratto di lavoro a progetto, normativamente delineato come forma particolare di lavoro autonomo, ai sensi dell’art. 61 del digs. 10 settembre 2003, n. 276. Conforme Cass. n. 19568 del 2013. V. ancora in senso analogo tra le altre Cass. n. 13858 del 2009, n. 14573 del 2012).
L’istruttoria svolta, comunque aveva dimostrato in maniera più che convincente come il […], aldilà del vincolo di presenza e di orario, fosse in ogni caso inserito in modo pieno ed indefettibile nell’organizzazione aziendale, non avendo alcuna autonomia se non quella di carattere tecnico, strettamente attinente alle sue mansioni. Il requisito della c.d. eterodirezione si ricavava dalle testimonianze di […] e di […], da ritenersi attendibili in quanto non più dipendenti, il tutto così come al riguardo dettagliatamente argomentato, nei confronti dell’attore, sempre presente nello stabilimento in quanto responsabile della manutenzione elettrica, da lunedì al sabato, da prima mattina fino ameno alle 17,30 o 18, dovendo altresì rendersi reperibile anche di notte. Egli ogni mattina, inoltre, partecipava alle riunioni in cui la direzione stabiliva il programma dei lavori, eventualmente ma non sempre su proposta dei vari responsabili di ciascun settore. In termini del tutto analoghi si erano espressi anche i testi […] e […], questi ultimi due ancora dipendenti della […] spa unitamente altresì all’operaio […].
Pertanto, secondo la Corte di merito, era indubitabile che quando un tecnico opera quotidianamente in un’azienda per non meno di dieci ore al giorno, rivestendo un ruolo preciso nell’organizzazione interna ed attenendosi alle disposizioni superiori, il suo rapporto di lavoro andasse qualificato come dipendente. Né valeva in senso contrario sostenere che tale prolungata attività quotidiana fosse connaturata al tipo di prestazione pattuita, trattandosi di prestazione che richiedeva ogni giorno interventi per tutta la giornata e persino costante reperibilità notturna nonché festiva, non trattandosi perciò evidentemente di collaborazione esterna, ma di attività costituente un tutt’uno con la conduzione produttiva, sicché non poteva che essere resa a titolo di subordinazione (tra l’altro era emerso che il […] deteneva le chiavi della cassaforte e della camera dell’oro e che aveva partecipato con altri dipendenti ad un corso di sicurezza antincendio. Né, a fronte degli anzidetti elementi, unitariamente considerati, era rilevante la sua iscrizione alla Camera di Commercio come ditta individuale o l’emissione di fatture mensili a fronte dei pagamenti ricevuti, corrispondendo tale regime fiscale necessariamente alla forma giuridica che la società aveva dato fittiziamente al rapporto, laddove peraltro le ammissioni del […] in sede di libero interrogatorio riguardavano l’opera prestata con effettiva autonomia soltanto con il primo contratto, relativo al periodo settembre 1997/ febbraio 1998).
Essendo stato, pertanto, correttamente qualificato il rapporto in termini di subordinazione, era stato quindi ravvisato un vero e proprio licenziamento nel recesso unilaterale, da parte della società comunicato con lettera del 30 giugno 2005, però ingiustificato, non essendo stato provati, ma nemmeno allegati, né una giusta causa e neanche un giustificato motivo.
Pertanto, apprezzati gli evidenziati elementi complessivamente, e non frammentariamente, pure in relazione al recesso di cui alla missiva in data 30 giugno, a fronte di un rapporto durato senza soluzione di continuità sin dal settembre 1997 (mentre l’ultimo formale contratto di lavoro autonomo risale al 10 marzo 1999, quindi presumibilmente a tempo indeterminato, nulla in senso contrario avendo precisato parte ricorrente), i giudici di merito hanno concordemente ritenuto la natura subordinata del rapporto (in effetti da marzo 1998), secondo gli estremi indispensabili richiesti dall’art. 2094 c.c. (obbligazione a collaborare nell’impresa, con stabile inserimento nell’organizzazione della stessa, mediante retribuzione in cambio di lavoro intellettuale o manuale, prestato alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore). In tale contesto, dunque, non sussiste alcuna violazione o falsa applicazione, nella specie, di norme di legge sulla subordinazione ed in particolare del citato art. 2094. Ne deriva il rigetto del ricorso […]