Corte di Cassazione, Sez. U, Sentenza n. 15781 del 2005, dep. il 28/07/2005

[…]

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

[…], con atto di citazione del 21.12.1981, esponeva che, con contratto di appalto del 26.07.1976, aveva affidato all’impresa edile […] la costruzione di un fabbricato, all’ing. […] l’incarico della progettazione e direzione dei lavori strutturali in cemento armato e allo […] la progettazione e direzione dei lavori concernenti la parte architettonica. Dopo che i lavori erano stati ultimati (luglio 1976), collaudati (marzo 1977) e consegnati (aprile 1977), aveva rilevato vizi e lesioni ai pavimenti, alle pareti e ai solai. Alla denuncia dei vizi aveva fatto seguito un accordo in data …1979 che prevedeva sia il risanamento delle strutture, con attuazione degli interventi progettati da un diverso professionista, […], sia l’eliminazione di ogni difetto. Il collaudo dei lavori di ripristino era stato effettuato in data 22.10.1980 e successivamente, con lettera del 30.07.1981, aveva chiesto il risarcimento dei danni, ma senza alcun esito.
Pertanto, il […] conveniva dinanzi al Tribunale di Forlì l’impresa […], l’ing. […] e lo Studio […] al fine di ottenere il risarcimento del danno subito, costituito nel diminuito valore dell’edificio emendato dai vizi. Il Tribunale, con sentenza non definitiva (n. 490/1987), respingeva le eccezioni di decadenza e prescrizione sollevate dai convenuti in riferimento agli artt. 2226 e 1667 c.c, e, con sentenza definitiva (39/1996), escludeva ogni addebito dello Studio […] ed affermava la corresponsabilità dell’ing. […] e dell’impresa […], determinando in misura prevalente e pari all’80% la percentuale di colpa del professionista, riferita sia ad errore nei calcoli delle opere in cemento armato quale progettista, sia ad omissione delle verifiche sulla qualità dei materiali, oltre che a mancata acquisizione della documentazione prescritta dall’art. 4 della legge n. 1086/71, in relazione alla diversa e ulteriore veste di direttore dei lavori afferenti le parti in cemento armato. Condannava, pertanto, […] e l’impresa […], in misura del rispettivo apporto causale (80% e 20%), a pagare al […], a titolo di risarcimento danni, la somma di L. 170 milioni, con rivalutazione secondo indici ISTAT dal 16 giugno 1993 alla data della sentenza, oltre agli interessi legali, calcolati anno per anno sulla somma capitale.
Con sentenza n. 1261/99 del 5.11/2.12.1999, la Corte d’appello di Bologna, in parziale accoglimento dell’appello principale proposto dall'[…], riduceva l’entità del danno risarcibile da L.. 170 milioni a L. 136 milioni dovuto al […] e confermava nel resto la decisione del Tribunale, respingendo l’appello incidentale del […] nei confronti dello Studio […]. Per quanto è rilevante in questa sede, in relazione all’appello principale dell’ing.[…] e alle eccezioni di decadenza e prescrizione dallo stesso sollevate, la Corte bolognese, premesso che in primo grado la responsabilità dell’ing. […] era stata affermata in relazione ad entrambi gli incarichi ricevuti di progettazione e di direzione dei lavori in cemento armato, dopo aver richiamati gli orientamenti giurisprudenziali in tema di responsabilità del professionista intellettuale per difformità e vizi occulti dell’opera, osservava, innanzitutto, che, secondo l’orientamento giurisprudenziale prevalente, le disposizioni di cui all’art. 2226 c.c., in tema di lavoro autonomo e di decadenza (per mancata denuncia nel termine di otto giorni) e prescrizione annuale dell’azione di garanzia, spettante al committente in caso di difformità e vizi occulti dell’opera, avrebbero potuto applicarsi solo alla prestazione progettuale dell’ing. […], qualificabile come obbligazione di risultato e non anche all’attività di direzione dei lavori, inquadrabile fra le obbligazioni di mezzi. Riteneva che tale orientamento non era condivisibile, in quanto la valutazione di compatibilita prescritta dall’art. 2230 c.c., avrebbe dovuto portare ad escludere in ogni caso l’applicabilità dell’art. 2226 c.c. sul lavoro autonomo, inconciliabile con l’essenza stessa delle prestazioni d’indole intellettuale.
Osservava, in particolare, che la distinzione delle obbligazioni d’opera intellettuale a seconda che fossero o meno produttive di un opus era frutto di un equivoco, consistente nel confondere il supporto del prodotto dell’obbligazione con il prodotto stesso, equivoco a sua volta dovuto a due ragioni, ossia alla non sempre agevole possibilità di attribuire prevalenza al profilo intellettuale piuttosto che al risultato materiale della prestazione ed alla necessità di trasfondere su supporto materiale il prodotto dell’attività ideativa.
Concludeva che nelle prestazioni intellettuali “…l’attività mentale assume netta prevalenza su quella fisica” sicché “la trasformazione della materia o manca del tutto…o assume un ruolo del tutto marginale e secondario”.
Contro tale sentenza l’ing. […] ha proposto ricorso per Cassazione, formulando nove motivi di censura.
Il […] ha resistito con controricorso, svolgendo altresì due motivi di ricorso incidentale.
Gli altri intimati non si sono costituiti.
La seconda sezione civile, con ordinanza del 29.04.2003/ 20.01.2004, riuniti i ricorsi, in ordine al primo motivo del ricorso principale, con il quale si deducono due profili di censura, ha rilevato la presenza di orientamenti giurisprudenziali divergenti.
Quanto al primo profilo, l’ordinanza interlocutoria ha osservato che l’obbligazione del progettista, secondo l’indirizzo maggioritario (Cass. 27.2.1996, n. 1530; 28.1.1995, n. 1040; 1.12. 1992, n. 12820; 28.1.1985, n. 488; 8.4.1977, n. 1346; 7.2.1975, n. 475; 10.12.1974, n. 4159) avrebbe natura di obbligazione di risultato; secondo quello minoritario (Cass. 27.5. 1997, n. 4704; 9.3.1985, n. 1917; 17.4.1981, n. 234) sarebbe, invece, un’obbligazione di mezzi.
Quanto al secondo profilo, ha evidenziato due precedenti contrastanti: uno (Cass. 22.4.1974, n. 1156) ha ritenuto che il cumulo delle funzioni di progettista e direttore dei lavori può, tenuto conto delle caratteristiche del caso concreto, dare luogo ad un’obbligazione di risultato; l’altro (Cass. 29.1.2003, n. 1294) ha affermato che anche nel caso di cumulo dei due ruoli, l’obbligazione del direttore dei lavori resta un’obbligazione di mezzi, a differenza di quella del progettista che è un’ obbligazione di risultato. Per la composizione del contrasto, il Primo Presidente, ai sensi dell’art. 374, 2^ comma, c.p.c., ha rimesso la questione alle sezioni unite.
Le parti hanno depositato memorie.

MOTIVI DELLA DECISIONE

I due ricorsi, principale e incidentale, sono stati già riuniti ai sensi dell’art. 335 c.p.c. con l’ordinanza del 29.4.2003.

1. Il ricorso principale dell'[…] contiene nove motivi.

a) Il primo motivo riguarda la “violazione e falsa applicazione dell’art. 2230 c.c. in relazione all’art. 2226 c.c. e 360 n. 3 c.p.c. e 360 n. 5 c.p.c. per aver l’impugnata sentenza ritenuto inapplicabili le sollevate eccezioni di decadenza e di prescrizione ad un’opera intellettuale del progettista e direttore dei lavori, senza considerare che nel caso specifico […] aveva assommato la funzione e la prestazione di progettista e di direttore dei lavori in cemento armato”.
Si censura la sentenza impugnata sotto due profili, adducendo che: a) il giudice d’appello, seguendo l’indirizzo giurisprudenziale minoritario, ha errato nel negare valore di opus al progetto di opere edilizie; b) la sentenza impugnata, trascurando di considerare che nel caso in esame nell’unico professionista si assommavano i ruoli di progettista e direttore dei lavori, si è allontanata dall’indirizzo giurisprudenziale secondo cui in tale caso l’obbligazione del professionista, unitariamente considerata, costituisce un’obbligazione di risultato.

b) Il secondo motivo denuncia la “violazione ed errata interpretazione del contratto d’opera professionale e della responsabilità del ricorrente come direttore dei lavori con violazione dell’art 2230 c.c. e 360 n. 3 c.p.c. ed omessa o insufficiente motivazione su un punto essenziale della controversia, ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c. nonché sulla legge 1086/71.” Si assume che erroneamente l’impugnata sentenza ha affermato la responsabilità dell'[…] anche come direttore dei lavori, senza considerare che non rientra tra i compiti del direttore dei lavori la verifica della correttezza del progetto, consistendo le sue funzioni nell’assicurare che l’opera realizzata sia conforme alle specifiche progettuali.

c) Il terzo motivo concerne la “violazione dell’art. 360 n. 5 c.p.c. e 2226 c.c. per aver l’impugnata sentenza determinato con ricorso all’equità la riduzione del valore dell’immobile senza adeguata motivazione”.
Si sostiene che nella varietà delle opinioni dei tecnici, la Corte d’appello avrebbe dovuto scegliere uno dei criteri di determinazione del danno e, in ogni caso, mai avrebbe dovuto considerare, in mancanza di prova al riguardo, come ulteriore componente del danno la notorietà che la vicenda aveva assunto in loco.

d) Il quarto motivo denuncia “errata ed immotivata determinazione del danno risarcibile con violazione dell’art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c. e dei limiti della condanna”.
Si afferma che l’iperbolico risarcimento (L. 136 milioni) non ha alcuna spiegazione logica, atteso che era stato acclarato e dato per certo che gli interventi strutturali eseguiti avevano ripristinato la statica dell’immobile. Inoltre, una svalutazione commerciale del 25%, ancorché ridotta dalla Corte d’appello al 20%, rapportata al valore commerciale dell’immobile e non al suo costo, resta oltre che immotivata, esagerata, considerato che un immobile che abbisogni di una ristrutturazione integrale ha un valore commerciale ridotto del 50%.

e) Il quinto motivo denuncia la “violazione ed erronea applicazione dell’art. 2230 e segg. c.c. e 360 n. 3 e 5 c.p.c. per avere l’impugnata sentenza immotivatamente attribuito una responsabilità del progettista e direttore dei lavori ad una percentuale prevalente di sua colpa senza avere individuato ed adeguatamente motivato i fatti ed i comportamenti addebitabili a lui, male rapportandoli altresì agli obblighi che gravavano sulla impresa appaltatrice”.
Con tale motivo, dopo un lunga e analitica esposizione delle varie consulenze, si sostiene l’incompletezza ed erroneità degli elaborati peritali, dolendosi che i giudici di primo e secondo grado non abbiano accolto la richiesta di espletamento di ulteriore c.t.u. per l’esame dei materiali impiegati per la costruzione del fabbricato e per la realizzazione del solaio: esame che se effettuato avrebbe comportato l’attribuibilità dei vizi lamentati a causa diversa dal ritenuto errore di progettazione dell'[…]. Nell’ultima parte di detto motivo, si deduce che la sentenza d’appello sarebbe carente di motivazione in ordine alla distribuzione delle colpe e degli oneri risarcitori, dovendo l'[…], quale progettista, rispondere solo delle proprie colpe contrattuali, ammesso che ci fossero.

f) Il sesto motivo denuncia la “violazione dell’art. 360 n. 5 c.p.c. e 2226 c.c. per avere la Corte d’appello immotivatamente assolto da ogni colpa e quindi da un concorso risarcitorio il geom. […].”
Si sostiene che la responsabilità dello Studio […] emergeva dalla prima consulenza tecnica dell’ing. […] ed il parere del tutto discorde del secondo consulente tecnico […], al quale i giudici di merito si sono uniformati, non sarebbe giustificato ne’ plausibile.

g) Il settimo motivo riguarda la “violazione ed erronea applicazione degli artt. 1655 e segg. c.c. e 1218 c.c. con riferimento all’art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c. per avere l’impugnata sentenza omesso ogni indagine ed ogni motivazione sugli obblighi ed i doveri ineseguiti della impresa appaltatrice, gravando sul progettista conseguenze economiche per colpe e responsabilità che erano e restavano di questa, se pure si fosse prescritto il diritto o verificatesi decadenze in ordine ad un diritto risarcitorio dell’appaltante”. Si censura l’impugnata sentenza per aver ritenuto non più perseguibile dal […] l’impresa appaltatrice di […], perché il relativo diritto risarcitorio “sarebbe comunque prescritto per il decorso del termine annuale di denuncia”. Si sostiene che nessuna prescrizione e decadenza si sarebbero maturate nei confronti del prestatore d’opera professionale e che l’impresa appaltatrice non sarebbe esonerata da responsabilità anche nel caso di presenza di un direttore dei lavori e di imperfezioni progettuali, essendo tenuta a rilevare eventuali carenze ed errori.

h) L’ottavo motivo denuncia la “violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., con riguardo all’art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c., per non aver dato la Corte d’appello accesso alla istruttoria richiesta e ritualmente proposta, senza motivare il perché della mancata indagine, del tutto conferente e puntuale al fine di stabilire l’assenza di colpe del progettista e le diverse cause del danno”. Si assume che immotivatamente l’impugnata sentenza non ha ammesso la richiesta prova tecnica volta ad accertare la insussistenza della colpa del progettista e direttore dei lavori ing. […].

i) Il nono motivo riguarda la “violazione o erronea applicazione degli artt. 1218-1224 c.c. e 360 n. 5 c.p.c. nella determinazione del danno inteso come rivalutazione ed interessi sulla somma rivalutata anno per anno con erronea motivazione sul punto”.
Premesso che i vizi strutturali sono stati tutti eliminati nel 1979 e che l’unico danno del […] rimasto da risarcire è quello derivante dalla svalutazione dell’immobile, si sostiene che la attualizzazione del danno stesso è già stata effettuata dal secondo c.t.u. […], sicché non è giustificato aggiungere alla svalutazione gli interessi al tasso legale.

2. Il ricorso incidentale del […] si articola in due motivi.

1) Col primo motivo (correlato al terzo motivo del ricorso principale), denunciando omessa o, comunque, contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia in relazione all’art. 360 n. 5 c.p.c., il ricorrente incidentale contesta le ragioni di riduzione dell’entità del ristoro, perché la Corte d’appello, dopo aver affermato di doversi attenere alla valutazione effettuata dal c.t.u. […], ha poi ritenuto di dover diminuire il quantum al 20% senza alcuna motivazione riguardo alla percentuale prescelta.

2) Col secondo motivo (correlato al settimo del ricorso principale), denunciando omessa motivazione circa un punto decisivo della controversia e in particolare circa l’appello incidentale del […], in relazione all’art. 360 n. 5 c.p.c., il ricorrente incidentale censura l’impugnata sentenza per non aver dichiarato la solidarietà della condanna fra l’impresa […] e l’ing. […].

3. Il contrasto giurisprudenziale rilevato con l’ordinanza di remissione, in relazione al primo motivo del ricorso principale, è sorto in relazione alle disposizioni in tema di decadenza e prescrizione dell’azione di garanzia per vizi e difetti dell’opera, dettate dall’art. 2226 c.c., in riferimento al contratto d’opera manuale (che ha ad oggetto, secondo l’art. 2222 c.c., l’obbligazione di compiere un’opera o un servizio) e specificamente in ordine all’applicabilità di tale norma, inserita nel capo 1^ del titolo 3^ del libro quinto del codice civile, sul lavoro autonomo, alla diversa ipotesi in cui i vizi e i difetti si manifestino in relazione al contratto d’opera intellettuale, regolato dal capo 2^, relativo alle professioni intellettuali, del medesimo titolo 3^, sul lavoro autonomo.
Pertanto, il contrasto giurisprudenziale riguarda la questione di diritto se le disposizioni in tema di decadenza e prescrizione dell’azione di garanzia per vizi siano applicabili alla prestazione d’opera intellettuale, in particolare all’ipotesi in cui il professionista abbia assunto l’obbligazione: a) della redazione di un progetto d’ingegneria; b) della direzione dei lavori; c) dell’assolvimento dell’uno e dell’altro compito, cumulando i ruoli di progettista e direttore dei lavori.

4. Prima di procedere all’esame del contrasto è bene premettere che la questione circa l’applicabilità o meno dell’art. 2226 c.c. al diverso ambito delle professioni intellettuali ha come parametro di riferimento l’art. 2230 c.c., contenuto nel menzionato capo 2^, il quale dispone: “Il contratto che ha per oggetto una prestazione di opera intellettuale è regolato dalle norme seguenti e, in quanto compatibili con queste e con la natura del rapporto, dalle disposizioni del capo precedente…”, fra le quali è appunto ricompreso, come detto, il citato art. 2226 c.c..

4.1. Tale articolo, relativo a difformità e vizi dell’opera, sancisce che:
“L’accettazione espressa o tacita dell’opera da parte del committente libera il prestatore d’opera dalla responsabilità per difformità o per vizi della medesima, se all’atto dell’accettazione questi erano noti al committente o facilmente riconoscibili, purché in questo caso non siano stati dolosamente occultati.
Il committente deve, a pena di decadenza, denunziare le difformità e i vizi occulti al prestatore d’opera entro otto giorni dalla scoperta. L’azione si prescrive entro un anno dalla consegna. I diritti del committente nel caso di difformità o di vizi dell’opera sono regolati dall’art. 1168 (…1668)”.

5. Il denunciato contrasto giurisprudenziale, con specifico riguardo all’ambito controverso, concernente prestazioni professionali consistite nella progettazione delle strutture in cemento armato di un edificio privato e nella direzione dei relativi lavori affidati in appalto, ha fatto leva sulla distinzione (influente anche sul regime probatorio della responsabilità del professionista) tra le cc. dd. obbligazioni di mezzi e le obbligazioni di risultato (alle quali ultime sono ricondotte le obbligazioni del prestatore d’opera manuale) ed è sintetizzabile nei seguenti termini.

5.1. Obbligazione del progettista.
Da un lato si è ritenuto che, sebbene l’obbligazione inerente all’esercizio di un’attività professionale sia generalmente obbligazione di mezzi, in determinate circostanze essa assume la caratteristica dell’obbligazione di risultato, nella quale il professionista si impegna a realizzare un determinato opus; come, appunto, nel caso dell’obbligazione di redigere un progetto d’ingegneria, che ha per oggetto un risultato ben definito e dotato d’una sua autonoma utilità qual è la sua realizzabilità (Cass. 5.8.2002, n. 11728; 27.2.1996, n. 1530; 28.1.1995, n. 1040; 22.12.1994, n. 11067; 19, 7.1993, n. 8033; 21.7. 1989, n. 3476; 7.5.1988, n. 3389; 8.4.1977, n. 1346; 7.2. 1975, n. 475; 10.12.1974, n. 4159; 22.4.1974, n. 1156; 22.3. 1968, n. 905; 16.10.1961, n. 2169).
Se ne tratta la conseguenza dell’applicabilità delle disposizioni poste dall’art. 2226 c.c., in particolare quelle sulla prescrizione e la decadenza in relazione alla denunzia dei vizi, anche alla prestazione d’opera intellettuale (Cass. 29.1.2003, n. 1294; 27.4.1996, n. 3876; 1.12.1992, n. 12820; 28.1.1985, n. 488; 7.5.1984, n. 2757; 29.10. 1965, n. 2292).

5.2. Dall’altro, evidenziato come il precedente orientamento dia luogo, per i progettisti, ad uno snaturamento del rapporto, configurando come di risultato un’obbligazione viceversa ritenuta tipicamente di mezzo per tutte le altre libere professioni, si è, per contro, considerata anche l’obbligazione in esame come di mezzo, appunto, ed il prodotto della prestazione come l’esito d’un lavoro intellettuale oggetto del contratto, che resta un bene immateriale benché si estrinsechi in una cosa la quale, tuttavia, costituisce un mero strumento d’espressione, cioè il corpus mechanicum in cui l’opera intellettuale si estrinseca per poter essere utilizzata dal committente (Cass. 23.7.2002, n. 10741; 27.5.1997, n. 4704; 22.12.1994, n. 11067; 20.8. 1993, n. 8799; 9.3.1985, n. 1917; 17.4.1981, n. 2334).
Con la conseguenza dell’inapplicabilità della disciplina ex art. 2226 c.c. (v., in particolare, Cass. 27.5.1997, n. 4704).

5.3. Tra i due indirizzi può ritenersi intermedio quello per cui la norma in discussione potrebbe trovare applicazione anche nel contratto di prestazione d’opera intellettuale, in forza del richiamo contenuto nella seconda parte del primo comma dell’art. 2230 c.c, ove e nei limiti in cui anche tale contratto implichi la realizzazione d’un risultato materiale, la cui consistenza possa essere colta senza le specifiche cognizioni e facoltà intellettive del professionista (Cass. 7.5.1984, n. 2757; 7.5. 1988, n. 3389). Analoghe considerazioni si rinvengono nelle pronunce con le quali è stato ritenuto l’eccezionale concorso della responsabilità del committente con quella dell’appaltatore, oltre che nelle ipotesi riconducigli agli artt. 2043 ss. c.c. o di disposizioni vincolanti impartite dal primo tali da rendere il secondo un nudus minister, anche quando il fatto dannoso sia stato posto in essere a seguito di errori o carenze nel progetto o nella direzione dei lavori, sempre che al committente stesso siano imputabili, congiuntamente ai professionisti incaricati, per difetto di diligenza nel controllare che l’opera intellettuale, commessa a soggetto idoneo, sia stata realizzata nel rispetto delle particolari norme tecniche della disciplina e sempre che si versi nell’ipotesi di vizi e violazioni facilmente riconoscibili anche da parte di un profano (Cass. 26.7.1999, n. 8075; 2.2.1999, n. 851).

6. Obbligazione del direttore dei lavori.
Partendo dalla premessa che il contratto che ha per oggetto una prestazione d’opera intellettuale (inquadrabile nella categoria del lavoro autonomo) comporta normalmente per il professionista un’obbligazione di “mezzi”, detta anche obbligazione di diligenza o di comportamento, la giurisprudenza è costante nel ricondurre l’obbligazione del direttore dei lavori nell’ambito delle obbligazioni di mezzi (Cass. 28.1.2001, n. 15124; 29.3.1979, n. 1818), con inapplicabilità dell’art. 2226 c.c. (Cass. 29.1.2003, n. 1294; 22.3.1995, n. 3264; 1.12.1992, n. 12820; 21.10.1991, n. 11116) ed applicabilità, invece, dell’ordinaria prescrizione decennale ex art. 2946 c.c. (Cass. 8.11.1985, n. 5463; 7.12.1976, n. 4559; 8.3.1975, n. 873).

7. Obbligazione del progettista – direttore dei lavori.
Nel caso di cumulo della funzione di progettista con quella di direttore dei lavori (l’art. 27 della l. 11.2.1994, n. 109, legge quadro in tema di lavori pubblici, espressamente prevede il cumulo delle due prestazioni), la giurisprudenza ritiene generalmente che si tratti di obbligazione di “mezzi”, con conseguente esclusione dell’applicazione dell’art. 2226 c.c. (Cass. 29.1.2003, n. 1294; 1-12- 1992 n. 12820; 28.1.1985 n. 488; 29.10.1965, n. 2292).
Solo in due pronunce (l’obbligazione del progettista associata a quella della direzione dei lavori dell’opera) viene qualificata di risultato (Cass. 27.10.1984, n. 5509; 22.4.1974, n. 1156).

8. Ritengono le Sezioni Unite, al fine di risolvere la questione di diritto e definire il contrasto, che debba privilegiarsi l’in terpretazione secondo la quale sono inapplicabili alla prestazione d’opera intellettuale, in particolare a quella del progettista, anche nell’ipotesi in cui cumuli le funzioni di direttore dei lavori, le disposizioni dell’art. 2226 c.c. in tema di difformità e vizi dell’opera, in base alle seguenti considerazioni.

8.1. Innanzitutto è opinione della Corte che la distinzione, finora seguita dalla giurisprudenza, fra obbligazioni di mezzi e di risultato non possa continuare ancora a costituire il criterio risolutivo della problematica relativa all’applicabilità dell’art. 2226 c.c. alle obbligazioni d’indole intellettuale, alla luce dei principi in tema di responsabilità contrattuale del professionista intellettuale, della disamina dei casi più salienti portati all’esame del giudice di legittimità, della posizione della dottrina e della legislazione comparata, tenuto conto anche, in riferimento alle prestazioni professionali d’indole conforme a quelle oggetto di controversia, le frequenti possibilità di commistione delle diverse obbligazioni (in capo al medesimo o a diversi soggetti) in vista del medesimo scopo finale, rispetto al quale diversità di disciplina normativa e conseguenti responsabilità, relativi limiti e oneri probatori potrebbero apparire ingiustificati e forieri di confusione.

9. Come è noto, la responsabilità contrattuale dell’appaltatore è regolata dagli artt. 1667 e 1668 c.c., collocati nel capo del codice civile dedicato al contratto d’appalto, mentre, siccome tali articoli nulla dispongono sulla posizione del progettista e del direttore dei lavori, la responsabilità contrattuale di costoro è regolata in base alle norme generali sull’inadempimento dei contratti e, per quanto siano applicabili, dalle norme sulla prestazione d’opera e sulle professioni intellettuali (artt. 2222 – 2238 c.c). Il professionista deve comportarsi secondo le comuni regole di correttezza e di diligenza. In particolare, per quanto attiene alla diligenza, l’art. 1176, comma 2, c.c. ne qualifica il contenuto allorché si tratti di valutare il comportamento del professionista (la cui diligenza deve essere conforme alla natura dell’attività professionale da svolgere), con la conseguenza che al rapporto scaturante dal contratto di prestazione d’opera intellettuale debbono essere applicate, in linea generale e di tendenza (salvo quanto previsto dalla specifica normativa dettata per tale tipo di rapporto), le norme che determinano le conseguenze dell’inadempimento (art. 1218 c.c.) e che consentono di operare la definizione di inadempimento nel quadro della attuazione del rapporto.

9.1. Il regime di responsabilità del professionista (la cd. colpa professionale) è sempre il medesimo, per cui, l’inadempimento, oltre che totale o dovuto a incuria o disattenzione, consiste generalmente nell’imperizia, ossia nell’errore determinato da ignoranza di cognizioni tecniche o da inesperienza professionale, sia quando il professionista risponde solo per dolo o colpa grave (art. 2236 c.c.) sia quando – secondo le regole comuni – deve rispondere anche di colpa (art. 1176, comma 2, c.c.).

9.2. La distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato non ha, quindi, alcuna incidenza sul regime di responsabilità, ove è richiesto al professionista di attenersi a parametri molto rigidi di professionalità, notandosi in proposito come lo stesso standard di diligenza del professionista sia cresciuto sensibilmente, comprimendo di conseguenza l’area della colpa grave nei confronti di problemi tecnici di speciale difficoltà di cui all’art. 2236 c.c. (cfr. Cass. 11.8.1990, n. 8218).

9.3. La distinzione sembra inoltre perdere ogni peso, sempre nell’ambito della responsabilità professionale, in materia di eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c., trovando tale eccezione accoglimento a prescindere dalla natura dell’obbligazione da adempiere (v. Cass. 5.8.2002, n, 11728; 23.4.2002, n. 5928).

10. Dalla casistica giurisprudenziale emergono spunti interessanti in ordine alla dicotomia tra obbligazione di mezzi e di risultato, spesso utilizzata al fine di risolvere problemi di ordine pratico, quali la distribuzione dell’onere della prova e l’individuazione del contenuto dell’obbligo, ai fini del giudizio di responsabilità, operandosi non di rado, per ampliare la responsabilità contrattuale del professionista, una sorta di metamorfosi dell’obbligazione di mezzi in quella di risultato, attraverso l’individuazione di doveri di informazione e di avviso (cfr., per quanto riguarda in particolare la responsabilità professionale del medico: Cass. 8.4.1997, n. 3046), definiti acces-sori ma integrativi rispetto all’obbligo primario della prestazione, ed ancorati a principi di buona fede, quali obblighi di protezione, indispensabili per il corretto adempimento della prestazione professionale in senso proprio.

10.1. Così, pur trattandosi di prestazione intellettuale, l’obbligazione del progettista è stata ritenuta dalla giurisprudenza un’obbligazione di risultato, ai fini della responsabilità del professionista, in quanto è stato affermato che tra i suoi doveri rientra anche quello di accertare con precisione i confini, le dimensioni e le altre caratteristiche dell’area sulla quale la costruzione dovrà essere realizzata (Cass. 21.7. 1989, n. 3476; 29.3. 1979, n. 1818), ovvero di sondare il suolo o il sottosuolo su cui deve sorgere l’opera (Cass. 16.9.1993, n. 11290; 5. 1.1976, n. 1).
Inoltre, l’ingegnere o architetto progettista è tenuto a redigere un progetto conforme, oltre che alle regole tecniche, anche alle norme giuridiche che disciplinano le modalità di edificazione su un dato territorio, in modo da non compromettere il conseguimento del provvedimento amministrativo che abilita all’esecuzione dell’opera, con la conseguenza che gli errori di progettazione concernenti la mancata adeguatone degli edifici previsti alla normativa vigente, compromettendo il rilascio della concessione, non possono che costituire inadempimento caratterizzato da colpa grave e quindi fonte di responsabilità del progettista (Cass. 16.2.1996, n. 1208; 19.7.1993, n. 8033).
In particolare, poiché l’obbligazione del professionista di redigere un progetto edilizio destinato all’esecuzione è di risultato perché ha per oggetto la sua realizzabilità, il committente, in base al principio inadempienti non est adimplendum, ha diritto di rifiutare il compenso al professionista che abbia fornito il progetto di un’opera non realizzabile (Cass. 21.3.1997, n. 2540).

10.2. In tal modo si perviene al superamento della dicotomia in esame: l’obbligazione di redigere un progetto di ingegneria o di architettura, pur avendo per oggetto una prestazione d’opera intellettuale, costituisce un’obbligazione di risultato.

11. La dottrina ha assunto posizioni critiche sull’utilizzo della distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato, la quale, ancorché operante soltanto all’interno della categoria delle obbligazioni di fare (a differenza che in Francia dove rappresenta una summa divisio valida per tutte le obbligazioni), ha originato una diatriba senza fine sia in ordine all’oggetto o contenuto dell’obbligazione, sia in relazione all’onere della prova e, quindi, in definitiva, allo stesso fondamento della responsabilità del professionista.

11.1. Come insegna la definizione tradizionale, nelle obbligazioni di mezzi la prestazione dovuta prescinde da un particolare esito positivo dell’attività del debitore, che adempie esattamente ove svolga l’attività richiesta nel modo dovuto. In tali obbligazioni è il comportamento del debitore ad essere in obbligatione, nel senso che la diligenza è tendenzialmente considerata quale criterio determinativo del contenuto del vincolo, con l’ulteriore corollario che il risultato è caratterizzato dall’aleatorietà, perché dipende, oltre che dal comportamento del debitore, da altri fattori esterni oggettivi o soggettivi.
Nelle obbligazioni di risultato, invece, ciò che importa è il conseguimento del risultato stesso, essendo indifferente il mezzo utilizzato per raggiungerlo. La diligenza opera solo come parametro, ovvero come criterio di controllo e valutazione del comportamento del debitore: in altri termini, è il risultato cui mira il creditore, e non il comportamento, ad essere direttamente in obbligatione.

11.2. Tale impostazione non è immune da profili problematici, specialmente se applicata proprio alle ipotesi di prestazione d’opera intellettuale, in considerazione della struttura stessa del rapporto obbligatorio e tenendo conto, altresì, che un risultato è dovuto in tutte le obbligazioni.
In realtà, in ogni obbligazione si richiede la compresenza sia del comportamento del debitore che del risultato, anche se in proporzione variabile, sicché molti autori criticano la distinzione poiché in ciascuna obbligazione assumono rilievo così il risultato pratico da raggiungere attraverso il vincolo, come l’impegno che il debitore deve porre per ottenerlo. In tal senso la dottrina porta ad esempio proprio l’obbligazione dell’appaltatore, che deve in ogni caso utilizzare idonee procedure e modalità di esecuzione.

11.3. Si è visto, d’altra parte, come la giurisprudenza, pur utilizzando frequentemente la distinzione, non esita a convertire l’obbligazione di mezzi in obbligazione di risultato, dando luogo ad una sorta di metamorfosi, quando afferma che se è vero che obbligazioni inerenti all’esercizio di un’attività professionale sono generalmente obbligazioni di mezzi, tuttavia possono assumere anche le caratteristiche delle obbligazioni di risultato in cui il professionista si impegna a conseguire un determinato opus.

14. Sotto il profilo dell’onere della prova, la distinzione (talvolta costruita con prevalente attenzione alla responsabilità dei professionisti intellettuali e dei medici in particolare) è stata utilizzata per sostenere che mentre nelle obbligazioni di mezzi, essendo aleatorio il risultato, sul creditore incombe l’onere della prova che il mancato risultato è dipeso da scarsa diligenza, nelle obbligazioni di risultato, invece, sul debitore incombe l’onere della prova che il mancato risultato è dipeso da causa a lui non imputabile.

14.1. Ma anche sotto tale profilo la distinzione è stata sottoposta a revisione sia da parte della giurisprudenza che della dottrina. Infatti, questa Corte ha affermato che il meccanismo di ripartizione dell’onere della prova ai sensi dell’art. 2697 c.c. in materia di responsabilità contrattuale (in conformità a criteri di ragionevolezza per identità di situazioni probatorie, di riferibilità in concreto dell’onere probatorio alla sfera di azione dei singoli soggetti e di distinzione strutturale tra responsabilità contrattuale e da fatto illecito) è identico, sia che il creditore agisca per l’adempimento dell’obbligazione, ex art. 1453 c.c, sia che domandi il risarcimento per l’inadempimento contrattuale, ex art. 1218 c.c., senza richiamarsi in alcun modo alla distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato (pur essendo pacifico che nella specie veniva dedotto un risultato connesso al contratto di trasporto: Cass. 7.2.1996, n. 973).

14.2. A sua volta, la dottrina, sia civilistica che processuali- stica, tende ad un’applicazione unitaria dei principi generali in materia di onere della prova, sia in tema di inadempimento, sia di risarcimento del danno, che infine in tema di risoluzione del contratto, indipendentemente dalla natura dell’obbligazione (se di mezzi o di risultato).

15. Ulteriori elementi si possono trarre da un confronto con i modelli esistenti negli altri paesi europei, in assenza di una direttiva tesa a ravvicinare le soluzioni nazionali (come è noto, la proposta di direttiva 9 novembre 1990 della Commissione Cee non si è mai tradotta in provvedimento finale).

15.1. In Francia, la responsabilità del professionista è regolata dalla legge speciale 4 gennaio 1978, n. 78-12, in base alla quale l’architecte è tenuto al risarcimento dei danni, entro il termine di prescrizione di dieci anni, verso il committente o l’acquirente nelle ipotesi in cui vi siano vizi dell’opera o altri che ne compromettano la sua destinazione; e, poiché i giudici ammettono in maniera molto rigorosa l’esistenza della cause etrangere, la responsabilità può dirsi quasi oggettiva, ancorché l’obbligazione del professionista edile, secondo la stimma divisio, sia un’obbligazione di risultato.

15.2. Nel diritto tedesco, dove la responsabilità del professionista edile è costruita in maniera rigorosa rispetto agli altri professionisti (avvocati, medici), si ha la collocazione dell’Architektenvertrag ora entro il contratto di servizio ora entro il contratto d’opera, con conseguenze rilevanti sotto il profilo della responsabilità del professionista, nel senso di caricare quest’ultimo rispettivamente di obblighi di diligenza o di risultato.

15.3. Anche in Austria la natura dell’Architektenvertrag oscilla fra il contratto d’opera, quando il contratto ha ad oggetto la pura redazione del progetto, e il contratto misto, dove prevale l’elemento del mandato, nei casi in cui le prestazioni del professionista siano molteplici. La responsabilità del professionista è fondata essenzialmente sulla colpa.

15.4. Analoga situazione si registra in Svizzera, dove l’Architektenvertrag integra ora un contratto d’opera ora un mandato oneroso, e la responsabilità contrattuale del professionista edile scatta allorquando questi abbia agito con colpa, cagionando un danno al committente in via casualmente adeguata.

15.5. Nel sistema inglese, invece, vi è stato il passaggio dalla esclusiva responsabilità contrattuale del professionista edile all’ammissibilità dell’azione per illecito civile. Il common law, pur non conoscendo, in via extracontrattuale, il principio della risarcibilità dei puri danni patrimoniali, ammette l’esistenza di exclusionary rules, fra le quali vi rientra appunto la responsabilità professionale.

16. L’esame di diritto comparato, secondo l’opinione prevalente in dottrina, porta a privilegiare la tesi di coloro che ritengono che tutti i profili di responsabilità contrattuale del professionista intellettuale, siano essi connessi ad obbligazioni di mezzi o di risultato, possono essere esaustivamente ricondotti nell’ambito della disciplina generale dell’inadempimento delle obbligazioni (artt. 2236, 2232, 1218, 1176, secondo comma, c.c.; come sopra evidenziato sub 9).

17. Vero è che la verifica del nesso di compatibilita fra gli artt. 2230 e 2226 del codice civile, da effettuarsi in base alla “natura del rapporto” contrattuale del professionista, richiede una valutazione riferita a dati concreti e diversa da quella propria del procedimento analogico (art. 12, secondo comma, c.c.), onde potrebbe ritenersi, a stretto rigore esegetico, l’incompatibilità della sola parte dell’art. 2226 c.c. relativa alla garanzia per vizi occulti, esprimendosi il primo comma della disposizione in termini generali ed autonomi di liberazione della responsabilità per difformità e per vizi noti o facilmente riconoscibili dell’opera, a seguito di accettazione espressa o tacita da parte del committente.

17.1. Ma per contro deve pure considerarsi che, quando l’opus consista nel risultato della progettazione tecnica, la configurabilità dei vizi e difetti contemplati dall’art. 2226 c.c., siano essi d’indole palese, facilmente riconoscibile, o occulta, ha come implicazione, anche a prescindere dalla forzatura lessicale, la riconduzione a tali due ambiti di tutta la gamma delle carenze che impediscono un’esatta esecuzione dell’opera, e quindi, oltre a quelle riferibili alla stessa attività ideativa, per essere il progetto in tutto o in parte ineseguibile, ovvero eseguibile ma inutilizzabile sia pure per contrasto con la normativa urbanistica o perché non corrispondente all’uso convenuto, anche quelle che si risolvono in meri errori materiali, quali pure quelli di calcolo, nella redazione degli elaborati tecnici, suscettibili di autonomo rilievo pregiudizievole per il committente.

17.2. In tal caso, appare evidente che, se fosse applicabile il termine prescrizionale imposto dall’art. 2226, secondo comma, c.c, ossia quello di un anno dalla consegna degli elaborati, da un canto si imporrebbe al committente la tempestiva e completa verifica dell’attuabilità o utilizzabilità della progettazione quando l’attuazione di essa non fosse prevista in termini corrispondenti, e dall’altro il professionista verrebbe esonerato dalla relativa garanzia, qualora le medesime carenze si evidenziassero solo nella successiva fase dell’esecuzione dell’opera progettata, posteriore alla scadenza del termine prescrizionale, compatibile con iniziative costruttive di non eccessiva importanza.

17.3. Va, infine, considerato che è senz’altro da escludere l’applicabilità della disciplina di cui all’art. 2226 c.c. nel caso in cui la redazione del progetto sia affidata a società di ingegneri (art. 2238 c.c.), in considerazione della natura del rapporto contrattuale, della sua fonte (appalto, privato o pubblico, di opera e/o di servizi) e dell’organizzazione imprenditoriale.

18. Pertanto, in base alle considerazioni svolte, il contrasto giurisprudenziale va risolto affermandosi che le disposizioni di cui all’art. 2226 c.c. in tema di decadenza e prescrizione dell’azione di garanzia per vizi non sono applicabili alla prestazione d’opera intellettuale, in particolare alla prestazione del professionista che abbia assunto l’obbligazione della redazione di un progetto d’ingegneria o della direzione dei lavori ovvero dell’uno e dell’altro compito, cumulando nella propria persona i ruoli di progettista e direttore dei lavori.

19. Il principio comporta, quindi, il rigetto del primo motivo di ricorso.

20. Anche il secondo motivo va rigettato, in quanto infondato, perché la Corte d’appello ha individuato la responsabilità dell'[…], quale progettista, per errore di calcolo delle strutture in cemento armato; e, quale direttore dei lavori, per omesso controllo sulla consistenza e qualità dei materiali usati.

21. Il terzo e quarto motivo, da esaminare congiuntamente perché strettamente connessi, non possono trovare ingresso, risolvendosi in censure di merito in ordine alla valutazione del danno, atteso che la Corte d’appello lo ha determinato sulla scorta della c.t.u. effettuata dall'[…], il cui valore di mercato dell’immobile non è stato sottoposto a particolari critiche e sostanzialmente accettato dalle parti, procedendo poi ad una riduzione percentuale, ritenuta congrua fissare nel 20% (disattendendo la valutazione minimale del 15% compiuta dall’ing. […] in considerazione dell’entità dei vizi e deficienze dell’opera, nonché della notorietà della vicenda.

22. Il quinto motivo è inammissibile laddove denuncia omesso accoglimento dell’istanza di nuova consulenza tecnica, in quanto rientra nei poteri discrezionali del giudice di merito la valutazione dell’opportunità di disporre indagini tecniche suppletive o integrative di quelle già espletate, di sentire a chiarimenti il consulente tecnico di ufficio ovvero di disporre la rinnovazione delle indagini, con la nomina di altri consulenti, e l’esercizio di un tale potere, così come il mancato esercizio di esso, non è censurabile in sede di legittimità (v. Cass. 6.4.2001, n. 5142; 10.6. 1998, n. 5777).
Patimenti è inammissibile nella seconda parte laddove critica la ripartizione della colpa tra l’ing. […] e l’impresa […] perché deduce circostanze e fatti del tutto nuovi mai prima dedotti.

23. Il sesto motivo è infondato perché la Corte d’appello ha indicato le ragioni per le quali il geom. […] andava esente da responsabilità per assenza di specifiche colpe, come era emerso dalla consulenza d’ufficio dell'[…], sul punto precisa, dettagliata, esaustiva.

24. Il settimo motivo non ha pregio, perché si basa su una lettura riduttiva dell’impugnata sentenza, che ha riformato quella di primo grado unicamente in relazione alla determinazione del quantum risarcibile, confermandola per il resto, e, quindi, anche relativamente al riconoscimento della responsabilità oltre che dell'[…] anche dell’impresa appaltatrice […]. La critica non coglie nel segno, atteso che il diritto al risarcimento del danno non risulta affatto prescritto ne’ riguardo al prestatore d’opera professionale […], ne’ riguardo all’impresa appaltatrice […], ma affermato a carico dell’uno e dell’altra.

25. L’ottavo motivo è infondato, osservandosi, da un lato, che (come sopra evidenziato sub 22) la scelta di disporre, o meno, una c.t.u. rientra nei poteri discrezionali del giudice di merito; dall’altro, che la Corte d’appello ha dato conto del proprio convincimento, indicando gli errori di calcolo dell'[…], quale progettista, e le carenze dello stesso, quale direttore dei lavori, nonché l’ambito di responsabilità dell’impresa appaltatrice.

26. Anche il nono motivo è infondato, perché l’impugnata sentenza ha correttamente motivato in ordine alla scelta dei criteri di determinazione del danno risarcibile, conformandosi al principio affermato da questa Corte che quando l’intervallo di tempo fra l’illecito e il suo risarcimento è cospicuo e l’inflazione ragguardevole, del graduale mutamento del potere d’acquisto della moneta deve tenersi conto calcolando gli interessi sul valore della somma via via rivalutata nell’arco del suddetto ritardo, oppure calcolando indici medi di valutazione, essendo invero precluso computarli unicamente con riguardo alla somma rivalutata al momento della liquidazione (Sez. Un. 17.2.1995, n. 1712).

27. Il primo motivo del ricorso incidentale del […] va disatteso per le ragioni sopra indicate sub 21), risolvendosi la censura in doglianza di merito. Nè è ravvisabile il prospettato vizio motivazionale, perché la Corte d’appello con discorso logico e coerente ha esposto le argomentazioni in base alle quali ha ritenuto di dover diminuire il quantum al 20%, con riferimento a circostanze concrete e dati fattuali.

28. Il secondo motivo del ricorso incidentale è inammissibile, perché la questione della condanna in via solidale dell'[…] e dell’impresa […] al risarcimento dei danni non ha formato oggetto di trattazione nel giudizio d’appello, secondo quanto risulta dalle conclusioni delle parti riportate nell’epigrafe, dall’esposizione del fatto e dalla motivazione della sentenza impugnata, contro la quale non è stata specificamente e ritualmente formulata censura alcuna per omessa pronuncia su di una questione posta al riguardo, dacché al giudice di merito si è imputato soltanto vizio di motivazione in relazione all’art. 360 n. 5 c.p.c., e non anche, espressamente ex art. 112 c.p.c., in relazione all’art, 360 n. 4 c.p.c., l’error in procedendo eventualmente commesso per la mancata valutazione e decisione della questione de qua in quanto effettivamente dedotta con l’appello.
Invero, perché possa utilmente dedursi in sede di legittimità un vizio d’omessa pronuncia, è necessario, da un lato, che al giudice di merito fossero state rivolte una domanda o un’ eccezione autonomamente apprezzabili, e, dall’altro, che tali domande o eccezione siano riportate puntualmente, nei loro esatti termini nel ricorso per Cassazione, per il principio dell’autosufficienza, con l’indicazione specifica, altresì, dell’atto difensivo e/o verbale d’udienza nei quali l”una o l’altra erano state proposte, onde consentire al giudice di verificarne, in primis, la ritualità e la tempestività ed, in secondo luogo, la decisività (v. fra tante Cass. 27.9.2000, n. 12790; 28.8.2000, n. 11260).
Nel motivo in esame, per contro, non solo non è formalmente dedotto il vizio di omessa pronunzia, ma neppure è fatto riferimento alcuno alla formulata riproposizione della questione in appello, onde la questione risulta sollevata per la prima volta soltanto in questa sede di legittimità ed è, quindi, inammissibile (cfr., ex plurimis, Cass. 22.10.2002, n. 14905; 16.9. 2002, n. 13470).

29. In conclusione, entrambi i ricorsi vanno rigettati […]