Corte di Cassazione, Sez. U, Sentenza n. 7755 del 1998, dep. il 07.08.1998

[…]

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso del 15 marzo 1991 al Pretore di Bari, […] esponeva di essere stato assunto nel 1985 dalla S.r.l. […] con le mansioni di meccanico-carpentiere, di avere subito un infortunio sul lavoro il 13 luglio 1989 e di essere stato licenziato con lettera del 26 ottobre 1990 per sopravvenuta totale inidoneità alle dette mansioni. Deducendo l’illegittimità del licenziamento per violazione delle leggi 15 luglio 1966 n. 604 e 20 maggio 1970 n. 300, egli chiedeva la condanna della società alla reintegrazione nel posto di lavoro ed al risarcimento dei danni. Costituitasi la convenuta, il Pretore accoglieva la domanda con decisione del 20 ottobre 1992 ritenendo non provata la definitiva inattitudine del lavoratore alle mansioni. Proposto appello dalla soccombente, il Tribunale riformava la decisione pretorile con sentenza del 23 settembre 1994 fondandosi sul referto di una consulenza tecnica disposta d’ufficio, dalla quale risultava che – a causa di una cardiopatia congenita con invalidità civile del trentacinque per cento, lesione grave per infortunio sul lavoro alla mano sinistra con postumi invalidanti del venti per cento, malattia vertebrale con ernie discali e radiopatia sinistra nonché stato depressivo-ansioso reattivo – il […] era inabile al lavoro di meccanico-carpentiere. Notava ancora il Tribunale come dalla consulenza tecnica risultasse impossibile prevedere il recupero delle funzioni fisiche da parte del lavoratore. Il collegio d’appello riteneva in conclusione la legittimità della risoluzione del rapporto di lavoro per impossibilità sopravvenuta della prestazione (art. 1464 cod. civ.) ed escludeva che essa dovesse essere preceduta dalla prova, a carico della datrice di lavoro, di non poter assegnare il lavoratore infortunato o ammalato a mansioni compatibili con le sue ridotte capacità lavorative.
Contro questa sentenza ricorre per cassazione il […].
Resiste con controricorso la S.r.l. […]. Il ricorrente depositava una memoria in prossimità dell’udienza del 17 luglio 1997 davanti alla Sezione lavoro di questa Corte.
Ad esito di quest’udienza la Sezione, constatato un contrasto di giurisprudenza circa il suddetto onere, a carico del datore di lavoro (che intendesse intimare un licenziamento per sopravvenuta inidoneità fisica alle mansioni), della prova di non poter assegnare il lavoratore ad altre mansioni compatibili con le ridotte capacità lavorative, ordinava la trasmissione degli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni unite ai sensi dell’art. 374 cod. proc. civ. Il Primo Presidente decideva in conformità.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. L’esposizione dei motivi d’impugnazione da parte del ricorrente non è del tutto ordinata poiché in ciascuno di essi, rubricati rispettivamente con “omessa motivazione circa un punto decisivo della controversia” (primo motivo), “violazione e falsa applicazione dell’art. 5 l. 20 maggio 1970 n. 300” (secondo motivo) e “violazione e falsa applicazione degli artt. 1464 e 2110 cod. civ.” (terzo motivo), sono contenute in realtà due distinte censure.
Con la censura logicamente precedente il ricorrente lamenta che il Tribunale abbia ritenuto la permanente inabilità del prestatore di lavoro alle mansioni di meccanico-carpentiere senza averne accertato le infermità nei modi previsti dall’art. 5 cit. e comunque con motivazione insufficiente. Egli aggiunge che il carattere soltanto temporaneo dell’inabilità era provato da un certificato da lui depositato in atti e redatto da un medico dell’Università di Bari.

La censura non è fondata.

L’art. 5 l. n. 300 del 1970 vieta accertamenti da parte del datore di lavoro sulla idoneità e sulla infermità per malattia o infortunio del lavoratore dipendente (primo comma) e subordina la legittimità del controllo sulle assenze al ricorso, sempre da parte datoriale, ai servizi ispettivi degli istituti previdenziali competenti (secondo comma) o ad enti pubblici e ad istituti specializzati di diritto pubblico (terzo comma).
Lo scopo di queste disposizioni è duplice, consistendo nella garanzia del lavoratore contro intrusioni nella sua sfera privata attraverso accertamenti eseguiti da medici di fiducia del datore di lavoro e, parimenti, nella tutela dell’imparzialità della diagnosi e della prognosi.
Esse non impediscono però al giudice, chiamato a decidere circa la legittimità del licenziamento per malattia, di accertare l’esistenza, la gravità e la durata di questa attraverso i mezzi di prova e di valutazione previsti dal codice di procedura civile. In ogni caso, la fede pubblica che assiste i referti redatti dagli organi ispettivi di cui all’art. 5 cit. concerne l’accertamento della malattia del lavoratore, ma non anche la sua attitudine a giustificare l’assenza del lavoro, la quale è oggetto di un giudizio non vincolante per il giudice (Cass. 5 settembre 1988 n. 5027).
Nel caso di specie il collegio di merito ha ritenuto di aderire al risultato della consulenza tecnica disposta d’ufficio, ossia al giudizio di permanenza dell’infermità invalidante a carico del lavoratore, e di disattendere così la contraria documentazione prodotta dal medesimo, pur proveniente da un medico universitario. In tale giudizio, esaurientemente motivato con riguardo a tutte le malattie e menomazioni sopportate dall’attuale ricorrente (si veda in narrativa), non è ravvisabile alcun vizio tale da portare alla cassazione (cfr. Cass. 20 maggio 1993 n. 5713).

2. Con la seconda censura, riferita agli artt. 1464 e 2110 cod. civ., il ricorrente afferma che il Tribunale avrebbe dovuto ritenere illegittimo il licenziamento per invalidità permanente, perché non preceduto dalla prova, da parte della società datrice di lavoro, della impossibilità di assegnare il lavoratore a mansioni adatte alle sue condizioni fisiche e comunque almeno equivalenti a quelle già esercitate.
Il ricorrente aggiunge che le mansioni assegnategli in sede di conclusione del contratto di lavoro erano diverse da quelle, di perito meccanico e disegnatore, indicate nella lista di collocamento.

3. Questo motivo è fondato.
Le norme da considerare per lo scrutinio di fondatezza sono le seguenti.
L’art. 2118 cod. civ. nel testo originario del 1942 attribuisce il diritto di recesso dal contratto di lavoro subordinato a “ciascuno dei contraenti”, imponendo solo l’obbligo di preavviso “nel termine e nei modi stabiliti”. Esso però è stato modificato dall’art. 1 l. 15 luglio 1966 n. 604, secondo cui il licenziamento del prestatore di lavoro non è più libero ma “ove la stabilità non sia assicurata da norme di legge, di regolamento e di contratto collettivo e individuale” esso “non può avvenire che per giusta causa ai sensi dell’art. 2119 cod. civ. o per giustificato motivo”. L’art. 3 della stessa legge precisa che “il licenziamento per giustificato motivo con preavviso è determinato da un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro ovvero da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”.
Nel diritto privato generale si distingue tra inadempimento imputabile e inadempimento non imputabile al debitore: il primo costituisce illecito civile contrattuale è dà luogo sia al risarcimento del danno subito dal creditore ai sensi dell’art. 1218 cod. civ., sia alla risoluzione del contratto a prestazioni corrispettive ai sensi degli artt. 1453, primo comma, e 1455 cod. civ. Il secondo – se cagionato da impossibilità sopravvenuta (e non imputabile) della prestazione – dà luogo all’estinzione dell’obbligazione ex art. 1256 cod. civ. ed alla risoluzione del contratto a prestazioni corrispettive ai sensi degli artt. 1463 e 1464 cod. civ. Può dirsi che l’art. 3 l. n. 604 del 1966, parlando generalmente di notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore, si riferisca sia alle ipotesi di inadempimento imputabile, che produce il licenziamento per giustificato motivo soggettivo, sia alle ipotesi di inadempimento non imputabile, che giustifica il licenziamento per motivo oggettivo. Esso costituisce così, siccome concernente un contratto sinallagmatico qual è quello di lavoro e per quanto qui interessa, una specificazione degli artt. 1453, 1455, 1463, 1464 cod. civ. Nelle controversie come quella attuale suole essere evocato l’art. 1464, secondo cui “quando la prestazione di una parte è divenuta solo parzialmente impossibile, l’altra parte … può recedere dal contratto qualora non abbia un interesse apprezzabile all’adempimento parziale”. Infatti una tesi dottrinale riconduce all’impossibilità parziale la sopravvenuta incapacità, non totale, di eseguire la prestazione lavorativa. Viene infine in considerazione l’art. 2110, secondo comma, cod. civ., che dà all’imprenditore il diritto di recedere dal contratto di lavoro “a norma dell’art. 2118” quando la malattia del lavoratore si sia protratta oltre “il periodo stabilito dalla legge, dal contratto collettivo, dagli usi” oppure secondo una valutazione d’equità. Questa norma secondo una parte della giurisprudenza introduce nel contratto di lavoro una clausola risolutiva espressa, ossia attribuisce al datore il diritto potestativo di recedere attraverso una dichiarazione di volontà al solo verificarsi di un certo evento (la protrazione della malattia oltre il detto periodo, detto “di comporto” ossia di tolleranza) e senza ricorrere al meccanismo ordinario della risoluzione, ed in particolare alla valutazione di gravità del motivo.
Talvolta la giurisprudenza assimila l’ipotesi di sopravvenuta inidoneità fisica permanente a quella di protrazione della malattia oltre il periodo di comporto (Cass. 19 settembre 1996 n. 7638). Nè l’eventualità di riacquisto della capacità lavorativa in tempo successivo basterebbe a differenziare le due ipotesi, giacché l’assenza prolungata determinerebbe la definitiva estinzione dell’interesse del datore alla persistenza del rapporto (cfr. art. 1256, secondo comma, cod. civ.). L’impossibilità parziale viene così equiparata a quella temporanea.

4. La questione ora sottoposta alla Corte dal ricorrente consiste nello stabilire se la sopravvenuta inidoneità fisica permanente del lavoratore all’esecuzione della prestazione dovuta comporti, salvo diverse previsioni legislative o contrattuali, il diritto ad essere assegnato ad attività diverse da quella già svolta e compatibili con la detta inidoneità, oppure se essa sia sufficiente a giustificare la risoluzione del contratto per iniziativa del datore, vale a dire il licenziamento.
La prima delle due scelte alternative si fonda essenzialmente sull’insussistenza del giustificato motivo di licenziamento (art. 3 l. n. 604 del 1966), qualora vi sia la possibilità di assegnare il lavoratore infermo ad attività diverse. La seconda sul diritto del datore di apprezzare personalmente il proprio interesse alla prestazione parziale (art. 1464 cit.) oppure sul carattere di specialità della clausola risolutiva espressa posta dall’art. 2110 cit.

5. Nel secondo senso si esprime la giurisprudenza prevalente di questa Corte e precisamente, tra le più recenti, dalle sentenze 21 maggio 1991 n. 5686, 26 giugno 1991 n. 7196, 21 maggio 1992 n. 6106, 14 maggio 1994 n. 7423, 18 marzo 1995 n. 3174, 12 giugno 1995 n. 6601, 27 giugno 1996 n. 5927, 13 marzo 1996 n. 2067, 6 novembre 1996 n. 9684. All’argomento poco sopra richiamato e fondato sull’art. 2110 cod. civ. si aggiunge che:
a) l’art. 2103 cod. civ. permette bensì al datore di lavoro di mutare, seppure mai in peggio, le mansioni del lavoratore, ma non implica il diritto di quest’ultimo al mutamento, neppure al fine di evitare il licenziamento (Cass., n. 6601 del 1995, cit.);
b) qualora la malattia del lavoratore sia stata causata dal modo stesso con cui le mansioni attuali vengono esercitate, neppure in questo caso egli ha diritto a mansioni diverse, ma semmai ha diritto a che le cause cosiddette morbigene, proprie di quelle mansioni, vengano eliminate dal datore ai sensi dell’art. 2087 cod. civ. (Cass. ult. cit.);
c) la valutazione dell’interesse all’adempimento parziale, prevista dall’art. 1464 cod. civ., è riservata alla sfera soggettiva del destinatario della prestazione, ossia del datore di lavoro (Cass. n. 9684 del 1996, cit.);
d) l’art. 2110 cit. è giustificato da elementari esigenze di tutela dell’organizzazione aziendale (Cass. n. 5927 del 1996 cit.) e non contrasta perciò con la tutela costituzionale del lavoro subordinato;
e) l’infermità del lavoratore deve trovare tutela in sede previdenziale e non nell’ambito dell’azienda e a carico del datore di lavoro (Cass. n. 7423 del 1994 cit.);
f) le regole valide nel sistema delle assunzioni obbligatorie degli invalidi civili e assimilati, e contenute nella legge n. 482 del 1968, non possono operare nel regime ordinario del lavoro subordinato.

6. In senso più favorevole al prestatore di lavoro si esprime un orientamento giurisprudenziale minoritario ma più recente. Nella sent. 23 agosto 1997 n. 7908 la Sezione lavoro afferma che la sopravvenuta inidoneità fisica del prestatore legittima il datore di lavoro, a norma dell’art. 1464 cod. civ., a risolvere il rapporto, ove non abbia un apprezzabile interesse all’adempimento parziale; tale scelta datoriale, tuttavia, concretandosi nell’esercizio del potere di licenziamento, va esercitata nel rispetto dei principi sanciti dalla legge n. 604 del 1966, con particolare riferimento agli artt. 1 e 3. Ne consegue che può ritenersi legittimo il recesso del datore di lavoro solo quando sia provata l’impossibilità di adibire il lavoratore, la cui prestazione sia divenuta parzialmente impossibile, a mansioni equivalenti e compatibili con le sue residue capacità lavorative, senza che ciò comporti una modifica dell’assetto aziendale.
Questo orientamento era già in parte ravvisabile nella giurisprudenza della Sezione in materia di impossibilità sopravvenuta della prestazione lavorativa per factum principis, consistente nella revoca di un’autorizzazione amministrativa necessaria ad accedere all’area in cui doveva essere eseguita la prestazione. La fattispecie era diversa, trattandosi di revoca, e perciò di impossibilità, temporanea, onde più probabile era il residuo interesse del datore alla prestazione lavorativa (cfr. Cass. 28 febbraio 1992 n. 2461, 25 agosto 1993 n. 8947, 10 settembre 1993 n. 9453, 19 agosto 1996 n. 7638). Tuttavia in alcune di esse (ad es. la n. 2461 del 1992) si afferma corrispondere ad un principio generale “l’onere datoriale di cosiddetto repechage del dipendente nel caso di sua possibilità di impiego in mansioni almeno equivalenti quando vi sia stata soppressione del posto del licenziando per ristrutturazione aziendale”; questo principio, secondo l’orientamento giurisprudenziale, “indica che il licenziamento, nella legge n. 604 del 1966, rappresenta una soluzione da adottare con estrema cautela (con onere datoriale, quindi, di adozione di ogni alternativa compatibile con l’organizzazione aziendale esistente) per il grave pregiudizio che ne può risentire il lavoratore.
Pertanto il necessario coordinamento della norma civilistica dell’art. 1464 c.c. con la legge n. 604 del 1966 non può porre limiti contraddittori al senso del principio”.
Più tenue è l’affermazione di Cass. 8 gennaio 1983 n. 140, nella quale si nega recisamente il detto onere a carico del datore, ma si ammette la possibilità, per il prestatore, “di provare che il licenziamento sia stato assolutamente pretestuoso per la sussistenza di particolari circostanze (subiettive o afferenti all’organizzazione dell’impresa) che denotino l’intendimento del datore di lavoro di profittare di quella situazione (di sopravvenuta invalidità del prestatore) per recedere dal contratto”. È da considerare non pertinente alla questione in esame Cass. 22 luglio 1993 n. 8152, in cui si tratta di una infermità cagionante una riduzione della capacità lavorativa in grado tale da determinare non l’impossibilità della prestazione, ma solo il necessario mutamento delle modalità d’esecuzione.
Parte della dottrina inclina a ravvisare l’onere di cui sopra osservando che:
a) l’inidoneità fisica alla prestazione costituisce un motivo oggettivo di licenziamento, da ritenere giustificato solo se la permanenza del lavoratore nell’impresa rechi pregiudizio all’attività produttiva o all’organizzazione aziendale. Perfino se il contratto collettivo prevedesse il licenziamento per superamento del periodo di comporto (vedi sopra) al giudice spetterebbe di verificare il giustificato motivo;
b) l’art. 2087 cod. civ., secondo cui l’imprenditore è tenuto ad adottare tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica del lavoratore, non andrebbe inteso soltanto come impositivo di obblighi di prevenzione, ma potrebbe essere usato per non privare dei mezzi di sussistenza il lavoratore ammalato;
c) l’art. 20, quinto comma, l. n. 482 del 1968, a norma del quale “fermo il disposto dell’art. 2103 cod. civ. il datore di lavoro ha facoltà di adibire l’invalido (assunto obbligatoriamente) a mansioni diverse da quelle per le quali fu assunto purché compatibili con le (sue) condizioni fisiche”, non sarebbe norma eccezionale ma si troverebbe espressa in una legge speciale solo per la maggiore probabilità statistica di realizzazione dell’ipotesi. In realtà essa esprimerebbe un principio valido anche per il rapporto di lavoro di dirotto comune;
d) questo principio si trova espresso anche in altre norme, quali ad esempio l’art. 27 r.d. 8 gennaio 1931 n. 148 per gli autoferrotramvieri, l’art. 16 d.P.R. 28 novembre 1990 n. 384, di recezione dell’accordo collettivo 6 aprile 1990, per i pubblici impiegati del comparto sanitario, o il d. lgs. 15 agosto 1991 n. 277, per i lavoratori esposti ad assorbimento del piombo.

7. L’illustrato contrasto di indirizzi induce a notare come nella materia in esame vengano in considerazione interessi protetti a livello costituzionale, i quali debbono essere bilanciati in sede di interpretazione della legislazione ordinaria, e precisamente: – l’interesse a che i rapporti giuridici trovino attuazione nel rispetto del principio di solidarietà economica e sociale (art. 2 Cost.);
– l’interesse al lavoro ed alla promozione, da parte dell’ordinamento, delle condizioni che rendono effettivo il relativo diritto (art. 4 Cost.);
– l’interesse alla salute, tutelato come diritto soggettivo fondamentale e proprio altresì della collettività (art. 32 Cost.);
– l’interesse del lavoratore e della sua famiglia ad un’esistenza libera e dignitosa (art. 36 Cost.);
– l’interesse dell’imprenditore alla esplicazione della libera iniziativa economica, tuttavia non in contrasto con la sicurezza, la libertà e la dignità umana (art. 41 Cost.). 8. Nulla impedisce di ricondurre l’ipotesi della sopravvenuta e parziale incapacità fisica di svolgere l’attività lavorativa alle previsioni generali di impossibilità sopravvenuta della prestazione nel contratto sinallagmatico, contenute negli artt. 1463 e 1464 cod. civ. Infatti, quanto al contratto di lavoro subordinato, nel vigente sistema legislativo la clausola generale dell’art. 3 l. n. 604 del 1966 costituisce specificazione, e non deroga, di quelle norme codicistiche.
È poi evidente come la questione attuale coincida solo parzialmente con l’art. 2110 cit. giacché essa può porsi anche in caso di non superamento del periodo di comporto. Per contro, quando questo sia superato, il licenziamento si baserà, quand’anche l’infermità non sia permanente, sul giustificato motivo tipizzato dall’art. 2110, che espressamente conferma la regola generale dell’art. 2118. Si è esattamente notato in dottrina che ammettere fattispecie di estinzione del rapporto di lavoro non sottoposte ai limiti generali del sistema dei licenziamenti (fuori dei casi del venir meno degli elementi costitutivi del rapporto stesso) significherebbe ridurre arbitrariamente i limiti di operatività del sistema.

9. Il controllo di legittimità del licenziamento richiede dunque la verifica di impossibilità della prestazione e, prima ancora, la determinazione della stessa nozione di prestazione del lavoratore nel contratto di lavoro subordinato. Per giudicare impossibile una prestazione occorre infatti individuarne i caratteri concreti interpretando (art. 12 disp. prel. cod. civ., artt. 1362 – 1371 cod. civ.) e, se occorre, integrando (artt. 1374 e 1375 cod. civ.) la fonte dell’obbligazione, legale o negoziale. E può non esser sufficiente la ricostruzione dell’originaria volontà negoziale quando, come per lo più avviene, venga programmata la rilevanza di successivi eventi: in tal caso interpretazione ed applicazione riferite al tipo contrattuale ed alla categoria dell’obbligazione permettono, insieme ai criteri di correttezza e di buona fede oggettiva (artt. 1175, 1366, 1375 cod. civ.), di determinare il comportamento dedotto in obbligazione.
Ciò si verifica appunto nel contratto di lavoro subordinato, in cui la “collaborazione” intellettuale o manuale del prestatore deve aversi “alle dipendenze e sotto la direzione” del datore (art. 2094 cod. civ.), vale a dire secondo le disposizioni che questi impartirà durante lo svolgimento del rapporto. Per di più nella determinazione del contenuto del rapporto di lavoro la volontà delle parti è spesso integrata dalla legge e dalla contrattazione collettiva. Si è osservato in dottrina come questo contratto costituisca, prima che una fonte di rapporti obbligatori, un “programma” di comportamento tra le parti.
Certamente, anche in esso l’oggetto deve essere determinato o almeno determinabile, ai sensi dell’art. 1346, ma, date le peculiari caratteristiche, di regola tale requisito viene specificato in ogni momento di attuazione del rapporto mentre, quando esso venga indicato nel documento contrattuale, è sufficiente una previsione generica, tanto che è difficile immaginare la nullità di un contratto di lavoro per indeterminabilità dell’oggetto. Nel corso del rapporto l’individuazione del comportamento dovuto dal lavoratore viene rimessa anzitutto al poter direttivo del datore ossia alle “disposizioni per l’esecuzione” oltreché per la “disciplina” del lavoro (art. 2104 cod. civ.). L’art. 2103 cod. civ. poi, novellato dall’art. 13 l. n. 300 del 1970, individua l’oggetto del contratto non solo nelle mansioni ivi indicate al momento dell’assunzione ma anche in quelle corrispondenti alla categoria superiore successivamente acquisita o in quelle equivalenti alle ultime effettivamente svolte. Alla individuazione originaria concorre l’informazione, dovuta dall’imprenditore al lavoratore già ai sensi dell’art. 96 disp. att. cod. civ. ed ora ai sensi dell’art. 1, comma 1, lett. f, d. lgs. 26 maggio 1997 n. 152, circa l’inquadramento, il livello e la qualifica attribuiti, oppure le caratteristiche o la descrizione sommaria del lavoro. Non ha, per contro, rilevanza ai fini qui considerati e contrariamente a quel che afferma il ricorrente, la qualifica indicata dal lavoratore nella sua richiesta di collocamento e diversa da quella poi assegnata col contratto.
Entro i limiti stabiliti dall’art. 2103 cod. civ. può esercitarsi il potere determinativo del datore di lavoro, il quale deve altresì, nel corso del rapporto, comunicare per iscritto al lavoratore, le modifiche degli elementi ora detti, non derivanti direttamente da legge, regolamento o contratto collettivo (art. 3 d. lgs. cit.). Tali limiti assumono così un carattere decisivo e servono, da una parte, a tutelare l’interesse del lavoratore, a cui la controparte non può chiedere collaborazione ad libitum, e, d’altra parte e come meglio si dirà in seguito, l’interesse del datore, i cui doveri di cooperare per l’esecuzione del contratto non possono superarne i limiti oggettivi.

10. Quanto alle mansioni, esse possono consistere in una determinata attività oppure possono essere scomposte in attività più specifiche o viceversa raggruppate secondo criteri di omogeneità. Nei contratti collettivi si parla talvolta di “profili” come insiemi di mansioni normalmente attribuite, a volte talmente vasti da configurare veri e propri mestieri; ne’ è impossibile l’interpretazione estensiva del contratto. Nei casi in cui la prestazione sia molto semplice ed inserita in un’organizzazione del lavoro estremamente divisa il mutamento di attività comporta facilmente il mutamento di mansione. Dove invece le mansioni siano complesse, il che avviene frequentemente con la diffusione ed il perfezionamento delle macchine, esse possono comprendere più attività e più facile è il passaggio a mansioni equivalenti. In tal caso suole parlarsi anche di mansione “polivalente” (cfr. Cass. 21 ottobre 1997 n. 10333, 30 luglio 1997 n. 7129). In giurisprudenza si è precisato che le mansioni “equivalenti” alle attuali (art. 2103 cit.) sono quelle oggettivamente comprese nella stessa area professionale e salariale e, che soggettivamente, esse debbono armonizzarsi con la professionalità già acquisita dal lavoratore nel corso del rapporto, impedendone comunque la dequalificazione o la mortificazione (Cass. 28 marzo 1986 n. 2228, 19 luglio 1990 n. 7370, 20 settembre 1990 n. 9584). Norme di chiusura sono comunque gli artt. 1362, secondo comma, e 1366 cod. civ., che, imponendo l’interpretazione del contratto anche in base al comportamento delle parti successivo alla sua conclusione e comunque secondo un criterio di buona fede oggettiva, inducono a definire la prestazione dovuta dal lavoratore ed esigibile dal datore in tutte le attività riconducibili all’art. 2103 più volte citato (cfr. Cass. 3 febbraio 1996 n. 923).

11. Ma l’interpretazione e l’esecuzione del contratto secondo buona fede richiedono altresì di considerarne la funzione in rapporto all’interesse di entrambe le parti e perciò a tener conto, con riguardo alle singole obbligazioni che ne derivano, non soltanto della situazione di debito ma anche dei comportamenti accessori dovuti dal creditore ed idonei a facilitare l’adempimento; comportamenti che secondo una parte della dottrina costituiscono l’oggetto di distinti “obblighi di cooperazione” e di cui sarebbe indice normativo l’art. 1206, ultima parte, cod. civ. A questi obblighi si contrapporrebbe un interesse del debitore ad adempiere, che nei contratti sinallagmatici assumerebbe particolare rilievo in quanto strettamente connesso all’interesse alla controprestazione. Nel rapporto di lavoro subordinato la tutela dell’interesse del lavoratore all’adempimento trova il suo fondamento nei richiamati artt. 4 e 36 Cost. e serve quale criterio di interpretazione e di determinazione secondo buona fede degli effetti del contratto, il quale dà luogo non solo ad un rapporto di scambio ma inserisce il prestatore nella comunità d’impresa e destina la sua prestazione all’organizzazione produttiva. Ne discende che l’evento impeditivo, quale la sopravvenuta inidoneità ad una certa attività, dev’essere valutato, quanto alle sue conseguenze, in relazione agli obblighi di cooperazione dell’imprenditore- creditore, così tenuto non soltanto a predisporre gli strumenti materiali necessari all’esecuzione del lavoro ma anche ad utilizzare appieno le capacità lavorative del dipendente nei limiti dell’oggetto del contratto, ossia nei già detti limiti posti dall’art. 2103 cod. civ. Ciò induce a non accogliere la tesi secondo cui, divenuta parzialmente impossibile la prestazione lavorativa, il residuo interesse all’adempimento debba essere apprezzato soggettivamente – senza alcuna possibilità di controllo da parte del giudice, interprete del contratto – dall’imprenditore-creditore, a cui spetterebbe perciò un diritto potestativo di recesso, con la corrispondente situazione di mera soggezione del lavoratore.
Ammesso che l’infermità dia sempre luogo ad un’impossibilità parziale e non anche, talora, ad un semplice mutamento qualitativo della prestazione, è da osservare che la tesi dell’apprezzamento soggettivo del detto interesse è stata seguita in giurisprudenza con riferimento a contratti di scambio, quale la vendita (Cass. 8 marzo 1960 n. 430, 19 settembre 1975 n. 3066), ma non è sostenibile per il contratto di lavoro, ove l’oggetto della prestazione coinvolge la stessa persona umana ed ove i già richiamati valori costituzionali impongono una ricostruzione dei rapporti d’obbligazione nell’ambito dell’organizzazione d’impresa e secondo la clausola generale di buona fede, tale da attribuire con diversi criteri gli obblighi di cooperazione all’imprenditore.
Sarà perciò il giudice di merito che, avuto riguardo alle residue capacità di lavoro del prestatore ed all’organizzazione dell’azienda come definita insindacabilmente dall’imprenditore, valuterà la persistenza dell’interesse di questo alla prestazione lavorativa, secondo buona fede oggettiva.
È da avvertire tuttavia che alla presente questione, relativa al licenziamento, rimane estraneo l’art. 2087 cod. civ. (contra Cass. 14 giugno 1984 n. 3559), che impone all’imprenditore obblighi di tutela dell’integrità fisica e della personalità morale del prestatore una volta che a questo siano state assegnate le mansioni.

12. Posta così la nozione di impossibilità sopravvenuta della prestazione (artt. 1256 e 1453 cod. civ.) in connessione con la nozione di mansioni lavorative (art. 2103 cod. civ.), che determina l’ambito delle prestazioni dovute dal lavoratore subordinato, e considerati gli obblighi di cooperazione dell’imprenditore-creditore, consegue che questi non potrà rifiutare l’attività alternativa offerta dal lavoratore entro i limiti dell’art. 2103 cod. civ. nonché dell’art. 41 Cost., di cui si dirà appresso. Non potrà allora ravvisarsi un’impossibilità, costituente causa di risoluzione del contratto e più precisamente giustificato motivo di recesso del datore (art. 3 l. n. 604 del 1966), qualora il lavoratore, pur definitivamente inidoneo all’attività attualmente svolta, possa nondimeno svolgerne un’altra compresa nella stessa mansione o in mansioni equivalenti.

13. È da aggiungere che in diverse pronunce questa Corte ha ritenuto che il divieto di adibire il lavoratore a mansioni inferiori, posto dall’art. 2103 cod. civ. nell’interesse esclusivo del medesimo, non opera quando egli chieda o accetti il mutamento in peggio al fine di evitare il licenziamento, comunque giustificato (Cass. 12 gennaio 1984 n. 266, 7 marzo 1986 n. 1536, 29 novembre 1988 n. 6441, 24 ottobre 1991 n. 11297, 28 novembre 1990 n. 11312, 20 maggio 1993 n. 5695, 7 settembre 1993 n. 9386. In quest’ultima non si richiede l’accettazione del singolo lavoratore ma si ritiene addirittura sufficiente un accordo aziendale comportante il mutamento in peggio di singole posizioni lavorative). Il dubbio si pone quando non sia una legge speciale a derogare all’art. 2103 (ad es. l’art. 4, comma 11, l. 23 luglio 1991 n. 223, che affida l’eventuale dequalificazione ad accordi sindacali stipulati nel corso delle cosiddette procedure di mobilità). La detta giurisprudenza non è pacifica poiché alcune pronunce contrarie ritengono assolutamente inderogabile il divieto di patti di dequalificazione o di trasferimento, contenuto nel capoverso dell’art. 2103 (Cass. 14 gennaio 1985 n. 37, 5 aprile 1985 n. 2231, 18 giugno 1987 n. 5388), e richiedono la rinnovazione del contratto di lavoro onde evitare la disoccupazione attraverso l’impiego in mansioni inferiori (Cass. 23 gennaio 1988 n. 539). Ma trattasi di orientamento ormai recessivo.
La dottrina che approva l’orientamento favorevole alla conservazione del rapporto pur col patto di dequalificazione nota anzi che, nel caso in cui il mutamento di mansioni sia dovuto ad infermità sopravvenuta, non sussisterebbe neppure una vera dequalificazione, ma solo un adeguamento del contratto alla nuova situazione di fatto. E sarebbe – si può aggiungere – un adeguamento sorretto dal consenso, oltre che dall’interesse dello stesso lavoratore. In questa ottica le già dette esigenze di tutela del diritto alla conservazione del posto di lavoro (artt. 4 e 36 Cost.), prevalenti su quelle di salvaguardia della professionalità del lavoratore (art. 2103 cit. ed anche 35, secondo comma, Cost.), inducono ad attenersi alla più recente e maggioritaria giurisprudenza. Non senza osservare che ad una non rigida interpretazione dell’art. 2103 (il cui testo attuale è stato introdotto dall’art. 13 l. 20 maggio 1970 n. 300) inducono le maggiori e notorie difficoltà in cui versa oggi il mercato del lavoro.
Occorre in ogni caso precisare che il licenziamento potrà essere evitato mediante la dequalificazione solo se l’imprenditore non ritenga di poter assegnare il lavoratore alle stesse o equivalenti mansioni secondo il modo più conveniente per l’organizzazione dell’impresa (così già Cass. 15 marzo 1995 n. 2990). Le norme sopra citate e riguardanti specifiche ipotesi di dequalificazione per malattia o per ragioni produttive costituiscono così non già eccezioni alla regola ma, al contrario, indici della tendenza, propria dell’ordinamento, alla conservazione del posto di lavoro nei limiti della compatibilità con la organizzazione d’impresa.

14. È necessario ora riprendere quanto già detto sopra circa la necessità di bilanciare la tutela degli interessi, costituzionalmente rilevanti (artt. 4, 32, 36), del prestatore con la libertà di iniziativa economica dell’imprenditore, garantita dall’art. 41 della Carta fondamentale.
La Corte costituzionale ha più volte osservato come il nucleo essenziale di questo diritto di libertà, pur limitato dalla necessità di salvaguardia della sicurezza, libertà e dignità degli individui, stia nell’autodeterminazione circa il dimensionamento e la scelta del personale da impiegare nell’azienda ed il conseguente profilo dell’organizzazione interna della medesima (già sent. n. 78 del 1958 e ultimam. n. 356 del 1993) soprattutto in modo che ne vengano preservati gli equilibri finanziari (sent. n. 316 del 1990). Il turbamento di questi ultimi al fine di tutelare singoli lavoratori, del resto, potrebbe pregiudicare il diritto al lavoro degli altri e potrebbe altresì tradursi in prestazioni assistenziali imposte, vietate dall’art. 23 se non previste dalla legge.
Tutto ciò sta a significare che l’assegnazione del lavoratore, divenuto fisicamente inidoneo all’attuale attività, ad attività diverse e riconducibili alla stessa mansione, o ad altra mansione equivalente, o anche a mansione inferiore, può essere rifiutata legittimamente dall’imprenditore se comporti aggravi organizzativi e in particolare il trasferimento di singoli colleghi dell’invalido. In conclusione, rilevata la permanente e parziale infermità del lavoratore, il datore soddisferà l’onere, impostogli dall’art. 5 l. n. 604 del 1966, di provare il giustificato motivo di licenziamento, dimostrando che nell’ambito del personale in servizio e delle mansioni già assegnate – eventualmente comprendendovi i riservatari di cui alla l. 2 aprile 1968 n. 482 – un conveniente impiego dell’infermo non è possibile o comunque compatibile col buon andamento dell’impresa.
Al lavoratore rimarrà l’eventuale onere di contrastare la detta prova, indicando a sua volta specificamente le mansioni esercitabili e provando la sua idoneità ad esse.

15. Il Tribunale non si è attenuto agli illustrati criteri interpretativi degli artt. 1463, 1464 cod. civ. e 3 l. n. 604 del 1966 onde ha ritenuto legittimo il licenziamento dell’attuale ricorrente disattendendo la sua richiesta di accertamento della possibilità di altro impiego in azienda. L’errore di diritto comporta la cassazione della sentenza impugnata ed il rinvio del giudizio ad altro collegio di merito, che si designa nel Tribunale di Trani e che procederà ai necessari accertamenti uniformandosi al seguente principio di diritto:
“La sopravvenuta infermità permanente e la conseguente impossibilità della prestazione lavorativa, quale giustificato motivo di recesso del datore di lavoro dal contratto di lavoro subordinato (artt. 1 e 3 l. n. 604 del 1966 e 1463, 1464 cod. civ.), non è ravvisabile nella sola ineseguibilità dell’attività attualmente svolta dal prestatore, ma può essere esclusa dalla possibilità di altra attività riconducibile – alla stregua di un’interpretazione del contratto secondo buona fede – alle mansioni attualmente assegnate o a quelle equivalenti (art. 2103 cod. civ.) o, se ciò è impossibile, a mansioni inferiori, purché essa attività sia utilizzabile nell’impresa, secondo l’assetto organizzativo insindacabilmente stabilito dall’imprenditore”.

Il giudice di rinvio provvederà altresì in ordine alle spese di questo giudizio di legittimità. […]