Corte di Cassazione, Sez. Unite Civili, Sentenza n. 26242 del 2014, dep. il 12.12.2014

[…]

1. I FATTI E I MOTIVI DI RICORSO

1.1. Con atto di citazione del febbraio 1992, […], procuratore generale di […], convenne in giudizio dinanzi al tribunale di Padova […] e i coniugi […], chiedendo, in via principale, la declaratoria di nullità – e in via subordinata l’annullamento, sul presupposto che l’atto fosse il frutto di una fraudolenta macchinazione in danno della cedente – del contratto di rendita vitalizia stipulato il […] 1984 (atto con cui la […] aveva ceduto alla […] la nuda proprietà di un locale commerciale in cambio di un vitalizio di L. 7.000.000 all’anno) e del successivo negozio (concluso dalla […], nella qualità di procuratrice speciale della […]o, con i coniugi […] il […] novembre 1985) con il quale la […] aveva ceduto a questi ultimi la nuda proprietà del medesimo locale al prezzo di L. 135.000.000, da pagarsi in rate semestrali nei sette anni successivi. Si costituirono in giudizio i coniugi […] e la […], che, nel resistere alle avverse pretese, formularono a loro volta domanda risarcitoria ex art. 96 cod. proc. civ.. Sopravvenuto, nel corso del processo, il decesso della […], la causa fu proseguita da […], in qualità di successore universale della prima.
Con sentenza n. 550 del 2003, il tribunale accolse la domanda proposta in via principale e dichiarò, quindi, la nullità del contratto di costituzione di rendita vitalizia per difetto del requisito essenziale dell’alea, e conseguentemente, la nullità del contratto di cessione della nuda proprietà stipulato il […] novembre 1985, sul rilievo dell’assenza di titolarità, in capo alla cedente, del diritto trasferito ai cessionari.
1.2. All’esito del giudizio di gravame, nel quale l’appellata reiterò (anche) la domanda di restituzione dell’immobile, in relazione al quale nessuna statuizione era stata emessa, nonostante la domanda in tal senso proposta dall’appellante, la corte di appello di Venezia, con sentenza n. 878 del 2006:
– dichiarò l’estinzione del giudizio limitatamente all’impugnazione proposta dalla […];
– rigettò l’appello principale formulato dai coniugi […];
– accolse l’appello incidentale del […] e condannò i predetti alla restituzione dell’immobile;
– in parziale riforma della decisione impugnata, condannò i primi a restituire a quest’ultimo il bene in contestazione.
1.3. I coniugi […] proposero ricorso per cassazione avverso la sentenza, che fu impugnata con gravame incidentale anche dal […].Questa Corte, con sentenza n. 10049 del 2008, rigettò il primo motivo del ricorso principale e il ricorso incidentale, accogliendo, invece, il secondo motivo dell’impugnazione principale.
Per quel che qui interessa, il giudice di legittimità accolse la censura inerente alla omessa pronuncia sul motivo di appello con il quale i coniugi […] avevano lamentato la erroneità della sentenza di primo grado, là dove aveva dichiarato la nullità del contratto di rendita vitalizia concluso tra la […] e la […] per difetto di alea, sulla base del mero raffronto tra il valore dell’immobile ceduto (nei limiti della nuda proprietà) e l’entità del vitalizio, tralasciando in tal modo di considerare gli altri obblighi previsti a carico della […], con conseguente necessità di riconsiderare il profilo della sussistenza dell’alea.
1.4. Con atto di citazione notificato il 31 luglio 2008, […] riassunse il giudizio dinanzi alla designata Corte di Brescia, che con sentenza del 13 gennaio 2011 respinse l’appello proposto dai coniugi […] avverso la sentenza n. 550/2003 del Tribunale di Padova. Il giudice di secondo grado, preso atto in via preliminare del decisum della sentenza di legittimità (e considerato pregiudizialmente che, sulla pronuncia di estinzione, era ormai sceso il giudicato), riesaminò, avuto riguardo alle rispettive obbligazioni reciprocamente assunte dalla […] e dalla […] e alla situazione obiettiva configurabile alla data di perfezionamento del contratto di rendita vitalizia – il precedente accertamento inerente al profilo della sussistenza dell’alea del contratto di rendita vitalizia. Valutati tutti gli elementi necessari, anche sotto il profilo economico, all’individuazione delle prestazioni poste a carico della vitaliziante, la Corte di Brescia confermò il giudizio già espresso dal precedente giudice di appello, che aveva accertato un grave e profondo squilibrio originario in favore della […], tale da escludere il requisito dell’alea e, in definitiva, da determinare la nullità del contratto per mancanza di causa, donde la nuda proprietà dell’immobile oggetto della convenzione non era mai sta trasferita alla […], la quale, a sua volta, non avrebbe potuta cederla ai coniugi […].
1.5. Avverso la sentenza di rinvio questi ultimi hanno proposto ricorso per cassazione articolato in sette motivi, al quale ha resistito con controricorso l’intimato […], a sua volta ricorrente incidentale sulla base di un unico motivo.
1.5.1. Sono agli atti le memorie illustrative di entrambe le parti costituite.
1.6. Esaminando in limine il quarto motivo del ricorso principale, il collegio della seconda sezione investito del ricorso ha rilevato come, con esso, venissero prospettati:
– la violazione e falsa applicazione dell’art. 324 cod. proc. civ., in combinato disposto con l’art. 2909 cod. civ., artt. 36, 112 e ss. 167 cod. proc. civ., e in relazione all’art. 1325 c.c., art. 1350 c.c., n. 10, artt. 2643, 2645 e 1872 cod. civ. e artt. 132 e 366 cod. proc. civ.;
– il vizio di omessa o insufficiente motivazione su fatti decisivi per il giudizio ex artt. 1325 e 1872 cod. civ., in combinato disposto con l’art. 112 cod. proc. civ..
1.6.1. In particolare, i ricorrenti hanno denunziato l’erroneità della decisione impugnata nella parte in cui la stessa contraddiceva la sentenza n. 1187 del 1992, pronunciata del Tribunale di Padova e divenuta irrevocabile, con la quale era stata respinta la domanda di risoluzione di quello stesso contratto di rendita vitalizia proposta, in data 9 dicembre 1984, da […] nei confronti di […], ancorché la sopra indicata pronuncia costituisse giudicato (sostanziale) implicito esterno rispetto all’accertamento dei fatti/diritti costituiti dalla rendita vitalizia e dalla cessione della nuda proprietà dell’immobile.
I ricorrenti hanno inteso sostenere l’innegabile identità delle domande proposte dalla […]nel giudizio definito con la richiamata sentenza n. 1187 del 1992 e quelle formulate nel successivo giudizio promosso dal […] nel febbraio del 1992, nella veste di procuratore generale della […], essendo stata dedotta in giudizio la nullità del medesimo contratto di rendita vitalizia, stipulato tra la […], e la conseguente nullità del contratto di cessione della nuda proprietà del […] novembre 1985 in favore dei coniugi […], non potendosi considerare la cedente titolare del diritto trasferito ai cessionari. Difatti, per effetto del rigetto, con sentenza passata in giudicato, della pregressa domanda di risoluzione, si era formato il giudicato sostanziale implicito – rilevabile d’ufficio – sulla esistenza e validità del contratto di rendita vitalizia, ovvero sulle questioni e sugli accertamenti che avevano costituito il necessario presupposto logico-giuridico della questione o dell’accertamento oggetto della precedente sentenza del Tribunale di Padova.
2. LA QUESTIONE SOTTOPOSTA ALL’ESAME DELLE SEZIONI UNITE.
2.1. Gli atti del procedimento, fissato per la trattazione all’udienza del 10 aprile 2013 e assegnato alla seconda sezione civile della Corte, sono stati rimessi al Primo Presidente, che ne ha disposto l’assegnazione a queste sezioni unite con ordinanza interlocutoria n. 16630/2013. Si è evidenziato come fosse preliminare all’esame dell’intero ricorso la decisione in ordine al motivo poc’anzi esposto, che poneva una questione di massima di particolare importanza afferente alla individuazione delle condizioni per la formazione e l’estensione dell’efficacia del cd. giudicato implicito esterno riguardante la sentenza di rigetto della domanda di risoluzione rispetto alla successiva azione di nullità concernente lo stesso contratto.
Va altresì osservato che, con la precedente ordinanza interlocutoria n. 21083, depositata il 27 novembre 2012, la stessa sezione aveva già rimesso gli atti al Primo Presidente per l’assegnazione alle Sezioni Unite della ulteriore questione di massima di particolare importanza se la nullità del contratto possa essere rilevata d’ufficio non solo allorché sia stata proposta domanda di adempimento o di risoluzione del contratto ma anche nel caso in cui sia domandato l’annullamento del contratto stesso. 2.2. Nell’ordinanza interlocutoria del 3 luglio 2013, n. 16630, che rimette all’esame delle sezioni unite la prima delle due questioni di diritto, evocando il dictum di cui alla pronuncia di queste stesse sezioni unite n. 14828/2012 – avente ad oggetto, come è noto, la questione della compatibilita del rilievo officioso di una nullità negoziale con la proposizione di una domanda di risoluzione contrattuale – si afferma come l’impostazione argomentativa di fondo ed il risultato sfociato nel principio di diritto enunciato con la richiamata sentenza delle Sezioni Unite non siano pienamente condivisibili, richiedendosi un approccio più problematico e più ampio sulla questione relativa alla individuazione delle condizioni per la formazione e l’estensione dell’efficacia del cd. giudicato implicito esterno riguardante la sentenza di rigetto della domanda di risoluzione rispetto alla successiva azione di nullità concernente lo stesso contratto.
2.3. In particolare, l’ordinanza muove dal rilievo, ritenuto problematico dal collegio remittente, che la Corte di appello di Brescia, con la sentenza oggi impugnata, ha respinto la censura concernente la dedotta preclusione derivante dal giudicato intervenuto tra la […] e la […] in virtù della pregressa sentenza n. 1187 del 1992 del Tribunale di Padova, che aveva rigettato la domanda di risoluzione del contratto di rendita vitalizia, oggetto della successiva azione di nullità e di annullamento esperita dal procuratore generale della predetta […], ritenendo tale pronuncia inidonea a spiegare gli effetti dell’eccepito giudicato, in quanto, a dire della Corte di Brescia, il Tribunale padovano si era limitato a scrutinare (respingendola) la domanda di risoluzione senza prendere posizione alcuna, neppure in via meramente incidentale, in ordine al tema della validità del contratto, mai sottoposto al suo vaglio.
Pertanto, alla stregua di tale situazione processuale, avrebbe dovuto trovare applicazione, nella fattispecie, il principio in base al quale l’autorità del giudicato sostanziale opera soltanto entro i limiti rigorosi degli elementi costitutivi dell’azione e presuppone che tra la domanda giudiziale sulla quale è intervenuta la pronuncia passata in giudicato e quella tuttora pendente sussista identità di petitum e di causa petendi.
Nella sentenza oggetto dell’attuale ricorso vi è un esplicito riferimento al precedente giurisprudenziale di questa Corte (Cass. sez. 3 n. 11356 del 2006), secondo il quale la rilevabilità officiosa della nullità del contratto – ammissibile ai sensi dell’art. 1421 c.c. anche nell’ipotesi di domanda di risoluzione dello stesso – non comporta la necessaria declaratoria di tale invalidità con efficacia irretrattabile di cosa giudicata, posto che il giudicato deve intendersi riferito alle ragioni concretamente poste a fondamento della domanda e divenute materia della res litigiosa, non dovendo essere esteso sempre e comunque all’intero rapporto dedotto in giudizio. Sennonché, – prosegue l’ordinanza interlocutoria – la difesa dei ricorrenti principali ha inteso confutare tale espressa affermazione della decisione impugnata, sostenendo che l’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato, anche in ipotesi di pronuncia di rigetto della domanda (come quella di risoluzione del contratto, nel caso in esame), estende i suoi effetti non solo alla statuizione relativa al bene della vita chiesto dall’attore, ma anche a tutte quelle inerenti all’esistenza e alla validità del rapporto dedotto in giudizio, in quanto accertamenti necessari e indispensabili per pervenire a quella pronuncia (cd. giudicato implicito), perché emergenti da atti comunque prodotti nel giudizio di merito.
In altri termini, stando a questa impostazione, il cd. principio del “dedotto e deducibile” – in virtù del quale l’efficacia del giudicato si estende, oltre a quanto dedotto dalle parti (giudicato esplicito), anche a quanto esse avrebbero potuto dedurre (giudicato implicito) – concernere le ragioni non dedotte che si pongano come antecedente logico necessario rispetto alla pronuncia, così che deve ritenersi precluso alle stesse parti proporre, in altro giudizio, qualsivoglia domanda avente ad oggetto situazioni giuridiche soggettive incompatibili con il diritto accertato. Con la censura cristallizzata nel quarto motivo del ricorso principale si è, dunque, prospettato il problema concernente il se e il come tra la questione decisa in modo espresso (domanda di risoluzione del contratto respinta) e altre questioni (validità del contratto oggetto della domanda di risoluzione) che ne costituiscano antecedente logico-giuridico per rapporto di indissolubile dipendenza, il giudicato esterno esplicito si estenda alla questione ed agli accertamenti presupposti, senza i quali la prima decisione emessa non avrebbe potuto essere resa (con la formazione sul punto del cd. giudicato implicito): di qui la conseguente inammissibilità di una successiva decisione sui secondi, in un diverso giudizio che investa direttamente gli stessi accertamenti, inammissibilità rilevabile d’ufficio, ove la questione sia stata dedotta nei gradi di merito e risulti documentalmente acquisita, o comunque verificabile ex actis, anche in sede di legittimità (Cass. S.U. n. 24664 del 2007).
2.4. La questione così prospettata, al pari di tutti i profili ad essa connessi e che rilevino in tutte le azioni di impugnativa negoziale, va esaminata, anzitutto, alla luce della recente pronuncia di queste sezioni unite (Cass. n. 14828 del 4 settembre 2012), che ha affermato il seguente principio di diritto: alla luce del ruolo che l’ordinamento affida alla nullità contrattuale, quale sanzione del disvalore dell’assetto negoziale, e atteso che la risoluzione contrattuale è coerente solo con l’esistenza di un contratto valido, il giudice di merito, investito della domanda di risoluzione del contratto, ha il potere-dovere di rilevare dai fatti allegati e provati, o comunque emergenti ex actis, una volta provocato il contraddittorio sulla questione, ogni forma di nullità del contratto stesso, purché non soggetta a regime speciale (escluse, quindi, le nullità di protezione, il cui rilievo è espressamente rimesso alla volontà della parte protetta); il giudice di merito, peraltro, accerta la nullità incidenter tantum senza effetto di giudicato, a meno che sia stata proposta la relativa domanda, anche a seguito di rimessione in termini, disponendo in ogni caso le pertinenti restituzioni, se richieste.
È stato così composto il contrasto emerso nella giurisprudenza di legittimità intorno alla questione della rilevabilità d’ufficio della nullità del contratto da parte del giudice investito di una domanda di risoluzione del medesimo accordo negoziale.
2.5. La soluzione adottata, che l’odierno collegio ritiene di dovere integralmente confermare nella sua portata precettiva, vale a dire con riferimento alla ratio decidendi individuata in relazione alla fattispecie in concreto esaminata, conforma il ruolo della categoria della nullità alla natura di sanzione ordinamentale conseguente all’irredimibile disvalore assegnato a un invalido assetto negoziale. Essa muove, peraltro, dalla premessa che l’azione di risoluzione sia coerente soltanto con l’esistenza di un contratto valido, ponendosi la nullità come prius logico della fattispecie estintiva della risoluzione.
L’operatività di tale assunto è, quindi, ammessa entro ben determinati limiti, nel senso che nell’ambito di un giudizio di risoluzione contrattuale, il giudice può rilevare d’ufficio la nullità:
a) solo se questa emerge dai fatti allegati e provati, o comunque ex actis;
b) esclusivamente previa attivazione del contraddittorio sulla questione, incorrendo altrimenti la decisione nel vizio della cd. terza via;
c) a condizione che non operi un regime speciale, essendo le nullità di protezione espressamente rimesse al rilievo del contraente “protetto” (il principio risulta, peraltro, soltanto dalla massima ufficiale, ma non anche dalla motivazione della sentenza);
d) senza effetto di giudicato, a meno che la relativa domanda sia stata proposta, eventualmente a seguito di rimessione in termini.
2.6. Nella parte finale della decisione – consapevole il collegio delle ricadute che la ricostruzione sistematica operata implicava con riguardo alla delicatissima tematica del giudicato – si legge ancora che:
a) qualora, dopo il rilievo officioso, sia stata formulata, tempestivamente o previa rimessione in termini, domanda volta all’accertamento della nullità e ad eventuali effetti restitutori, la statuizione sul punto, se non impugnata, avrà effetto di giudicato;
b) nel caso in cui sia omesso il rilievo officioso della nullità e l’omissione sia stata dedotta in appello, il giudice del gravame dovrà rimettere in termini l’appellante;
c) ove non sia formulata tale domanda, il rilievo della nullità determina il rigetto della domanda di risoluzione con accertamento incidenter tantum della nullità, dunque senza effetto di giudicato sul punto.
2.7. Il percorso argomentativo della sentenza si conclude con ulteriori, qui rilevanti, affermazioni:
– Il giudicato implicito sulla validità del contratto, secondo il paradigma ormai invalso (cfr. Cass. S.U. 24883/08; 407/11; 1764/11), potrà formarsi tutte le volte in cui la causa relativa alla risoluzione sia stata decisa nel merito, con esclusione delle sole decisioni che non contengano statuizioni che implicano l’affermazione della validità del contratto.
– Sarà compito della giurisprudenza indagare circa la necessità di operare qualche dovuta ed opportuna distinzione rispetto alle azioni volte a demolire il vincolo negoziale – talvolta accomunate con la domanda risolutoria, quoad effecta, dalla stessa giurisprudenza di legittimità, peraltro in modo generalizzante e non del tutto consapevolmente critico;
– Le considerazioni svolte su di un piano generale in ordine alla ratio della nullità (tutela di interessi generali e sovraordinati) non possono automaticamente estendersi alle fattispecie di nullità speciali ((il principio deve, peraltro, essere inteso nel senso che il giudice deve rilevare di ufficio la nullità, salvo che il consumatore vi si opponga, come risulta esplicitamente dalla lettura del folio 9 della motivazione della sentenza, tale dovendo ritenersi il senso complessivo della pronuncia, cui va dato in questa sede ulteriore continuità).
2.8. L’ordinanza interlocutoria assume a fondamento della richiesta di un nuovo intervento di queste sezioni unite che, nella sua premessa logica, la sentenza 14828/2012 riposa sul presupposto della coerenza dell’azione di risoluzione per inadempimento con la sola esistenza di un contratto valido. Ragion per cui dovrebbe ritenersi che la nullità del contratto sia un evento impeditivo destinato a porsi prioritariamente rispetto alla vicenda estintiva della risoluzione, sicché il giudice chiamato a pronunciarsi sulla domanda di risoluzione di un contratto, del quale emerga la nullità dai fatti allegati e provati ex actis, non potrebbe sottrarsi all’obbligo del rilievo, senza che ciò conduca ad una sorta di sostituzione della domanda proposta.
La regola dell’art. 1421 cod. civ. sarebbe, quindi, applicabile ogniqualvolta l’accoglimento ovvero il rigetto della domanda giudiziale presupponga l’esame della questione inerente alla efficacia del contratto in realtà nullo, e ciò anche nell’ipotesi in cui l’azione abbia ad oggetto la domanda di risoluzione, così che la sua portata sostanziale risulterebbe consonante con la prospettazione della censura di cui al motivo del ricorso principale.
2.9. La soluzione di cui si è detto finora non è pienamente condivisa dal collegio remittente, che invoca un approccio più problematico e più ampio alla questione relativa alla individuazione delle condizioni per la formazione e l’estensione dell’efficacia del cd. giudicato implicito esterno riguardante la sentenza di rigetto della domanda di risoluzione rispetto alla successiva azione di nullità concernente lo stesso contratto. L’affermazione – trasparente dalla sentenza n. 14828 del 2012 – secondo la quale, nel caso in cui sia rilevata d’ufficio la questione di nullità del contratto, la decisione su di essa non da luogo a giudicato se non su esplicita richiesta delle parti – conclude il provvedimento interlocutorio – non pare conciliabile con l’asserzione in virtù della quale, ove la questione di nullità non sia sollevata, la decisione sulla risoluzione è idonea a determinare la formazione di un giudicato implicito sulla non nullità del contratto stesso. Infatti, la prima affermazione implica che si tratti di questione pregiudiziale non in senso logico, ma in senso tecnico (alla quale si rivolge l’art. 34 c.p.c.), suscettibile di accertamento solo incidenter tantum in mancanza di domanda di parte, cosicché sarebbe inidonea a comportare la formazione di un giudicato implicito, il quale presuppone una pregiudizialità in senso logico. Al riguardo, costituisce principio pacifico che, in tema di questioni pregiudiziali, occorre distinguere quelle che sono tali soltanto in senso logico, in quanto investono circostanze che rientrano nel fatto costitutivo del diritto dedotto in causa e devono essere necessariamente decise incidenter tantum, e questioni pregiudiziali in senso tecnico, che concernono circostanze distinte ed indipendenti dal detto fatto costitutivo, del quale, tuttavia, rappresentano un presupposto giuridico, e che possono dar luogo ad un giudizio autonomo, con la conseguenza che la formazione della cosa giudicata sulla pregiudiziale in senso tecnico può aversi, unitamente a quella sul diritto dedotto in lite, solo in presenza di espressa domanda di parte di soluzione della questione stessa.
2.10. Si è già avuto modo di rilevare come con altra ordinanza interlocutoria, di poco precedente a quella relativa al caso in esame, sia stato posta a queste sezioni unite – la questione ha formato oggetto di esame e di pronuncia depositata contestualmente alla presente decisione – l’ulteriore quesito della compatibilita di un’azione cd. “demolitoria”, quale quella di annullamento (e tuttavia l’indagine è suscettibile di estensione all’azione di rescissione) con la rilevazione di ufficio di una causa di nullità negoziale da parte del giudice investito di quella specifica (ed esclusiva) domanda di annullamento (ovvero di rescissione) del contratto.
2.11. Si pone così oggi al collegio, sia pure diacronicamente, la delicata questione dei rapporti fra (tutte) le azioni di impugnativa negoziale e il disposto dell’art. 1421 c.c., e dell’idoneità delle relative decisioni a formare oggetto di giudicato implicito esterno rispetto a successivi procedimenti che abbiano ad oggetto questioni attinenti alla validità ed efficacia della medesima convenzione negoziale, già vagliata nel primo procedimento.
Le molte (e molto autorevoli) voci della dottrina levatesi a commento della sentenza 14828/201 hanno talora rimarcato una sorta di “timidezza” argomentativa della stessa, per non avere colto questa corte l’occasione per risolvere in modo esaustivo il problema della rilevabilità officiosa della nullità. Si è peraltro tralasciato di considerare che l’estensione della decisione a tale più ampia tematica avrebbe costituito null’altro che un palese obiter dictum, attesa l’estraneità di molte delle problematiche in parola all’oggetto della decisione stessa.
Le due differenti fattispecie sottoposte all’esame delle sezioni unite, in questa occasione, ben possono, invece, offrire l’occasione per affrontare funditus tale, complessa problematica, nel tentativo di pervenire ad una soluzione organica, nonostante le obbiettive difficoltà con le quali l’interprete è chiamato a misurarsi, anche a causa della eccessiva frammentazione delle questioni agitate in tema di impugnative negoziali e di effetti del giudicato.
2.12. A seguito delle due ordinanze di rimessione e nell’ottica di un fecondo dialogo della giurisprudenza con la dottrina, pur nelle diversità dei compiti istituzionali, vanno anzitutto delineati i temi di indagine.
– I rapporti tra l’azione di risoluzione e la rilevabilità d’ufficio della nullità del negozio nell’ipotesi tanto di accoglimento, quanto di rigetto della domanda risolutoria.
– I rapporti tra le azioni di annullamento e di rescissione (alle quali non è estranea la facoltà riservata alla curatela fallimentare ex art. 72 l. fall.) e la rilevabilità d’ufficio di una nullità negoziale.
– La rilevabilità d’ufficio delle fattispecie di nullità speciali. – I rapporti tra l’azione di nullità esperita dalla parte e la rilevabilità officiosa di una nullità negoziale diversa da quella prospettata (cui può potrebbe essere aggiunta, per completezza di indagine, la questione della rilevabilità d’ufficio della simulazione assoluta).
– L’efficacia del giudicato in successivi processi, instaurati tra le stesse parti, dell’accertamento della nullità oggetto del primo giudizio.
2.13. L’esame delle questioni sopra indicate non può, peraltro, prescindere da una duplice indagine, che investe la fattispecie della nullità negoziale e quella dell’oggetto del processo. È pressoché superfluo premettere che in nessun modo il collegio intende – ne’ tampoco con pretese di completezza – esaminare e scrutinare tematiche che per la loro complessità hanno costituito oggetto di studi e riflessioni assai risalenti.
Il fine che la Corte si propone, difatti, non può che essere limitato alla ricerca di una non insoddisfacente coniugazione del potere di rilevazione officioso di una nullità negoziale e alcuni dei principi-cardine del diritto processuale.
3. NULLITÀ NEGOZIALE ED AZIONI DI IMPUGNATIVA CONTRATTUALE.
3.1 Come acutamente sottolineato da alcuni dei maggiori civilisti italiani, l’approccio all’art. 1421 c.c. e alla delimitazione del campo di operatività della rilevabilità d’ufficio della nullità appare, in qualche misura, influenzato dalla propensione soggettiva dell’interprete:
– a identificare la primaria funzione dell’attività giurisdizionale nella mera composizione delle liti (e cioè nella risoluzione secondo giustizia di un contrasto tra due o più parti);
– ovvero, piuttosto, nella attuazione della legge;
– ovvero in un concretamento dell’ordinamento, inteso quale attuazione del diritto sostanziale nel processo, quando cioè sorge l’esigenza di valutare la fondatezza dell’azione esperita dalla parte e di affermare in ordine ad essa l’ordinamento nel momento della giurisdizione e, non dissimilmente;
– nell’essere la sentenza il mezzo offerto al giudice per applicare la legge nel caso concreto, così che, “se per legge un atto è nullo, anche nel silenzio delle parti il magistrato adito deve provvedere secundum ius pronunciando la nullità, perché altrimenti violerebbe doppiamente la legge applicando ad un atto nullo una norma che postula invece l’esistenza di un atto valido, e perciò venendo meno al primo ed essenziale dei suoi doveri, di giudicare alla stregua del diritto positivo quale esso è e non quale gli interessati, o per ignoranza o per negligenza, immaginano che sia”. L’evidente irriducibilità della ricostruzione di una teoria della nullità negoziale entro i ben precisi limiti di una pronuncia giurisdizionale comporta che l’indagine demandata al collegio non potrà che volgere al solo scopo di operare una scelta (anch’essa senza pretese di definitività, in ragione del carattere storicamente determinato che ne andrà a permeare il fondamento teorico), sì da offrire una plausibile risposta “di sistema” agli interrogativi posti poc’anzi, con riguardo, in particolare, al problema della rilevabilità officiosa della nullità, profilo distinto, come meglio in seguito si vedrà, tanto da quello della sua dichiarazione in una pronuncia, quanto da quello della attitudine al giudicato della dichiarazione di nullità conseguente alla rilevazione officiosa di tale vizio del negozio.
3.2. Il tema coinvolge, all’evidenza, istituti di diritto sostanziale (la patologia negoziale, le diverse forme di sanatoria del negozio invalido, la risoluzione del rapporto contrattuale, la conversione del negozio nullo, solo per citarne alcuni), quanto fondamentali principi di diritto processuale, dei quali è ora superflua ora l’indicazione, donde la estrema difficoltà di raggiungere un equilibrio tra poteri officiosi del giudice e principio della domanda, volta che qualsiasi pretesa di stabilità in questa materia pare ab origine destinata a cedere ad una inevitabile precarietà, tutte le volte che la soluzione offerta coincida con uno dei due opposti estremi, e cioè tanto che si neghi in radice, quanto che si affermi tout court (come nel caso della sentenza n. 6170 del 2005 di questa corte), l’incidenza nel processo della rilevabilità officiosa di un vizio di nullità e la conseguente idoneità del relativo accertamento a divenire cosa giudicata.
3.3. Si comprende allora come la scelta di un definitivo assetto processuale delle azioni di impugnativa negoziale risulti senza dubbio influenzata dall’approdo ad una soluzione predicativa di una dimensione riduttiva ovvero estensiva dei poteri del giudice, proprio in relazione alla natura ed alla funzione che, hic et nunc, la giurisprudenza intende riconoscere alla categoria della nullità negoziale e, conseguentemente – come meglio si dirà in seguito – alla nozione di “oggetto del processo”.
E nell’accostarsi al problema sin qui delineato non può non immaginarsi che una scelta volta all’eccessiva frammentazione della categoria della nullità risulterebbe insormontabile ostacolo a una ricostruzione unitaria e coerente dell’estensione dei poteri officiosi riconosciuti al giudice ex art. 1421 c.c..
3.4. Nelle sue linee generali il tema è quello della relazione che lega il diritto sostanziale e il processo, tema a ragione ritenuto tra i più complessi ed affascinanti tanto per il civilista quanto per il processualista, come di recente ha osservato un autorevole studioso dei rapporti tra il contratto e il processo. Difatti, se l’art. 1421 c.c. enuncia un principio apparentemente inequivoco, sancendo la rilevabilità officiosa della nullità del contratto senza apparenti limiti e condizioni, il successivo approdo della norma sostanziale nel territorio del processo finisce per essere condizionato dalle disposizioni del codice di rito che segnano i confini posti ai poteri officiosi del giudice. Peraltro, non è seriamente contestabile che il legislatore abbia già compiuto un giudizio di valore sul piano sostanziale, disponendo (il “può” dell’art. 1421 è comunemente e condivisibilmente letto come un “deve”) il rilievo ex officio della nullità, ma conferendo poi ad essa, sul piano processuale, il carattere di eccezione in senso lato, indipendente da qualsiasi attività delle parti quanto alla sua rilevazione – altro e più complesso discorso, che di qui a breve verrà svolto, meritano le successive fasi della sua dichiarazione/accertamento e della sua idoneità all’effetto di giudicato.
3.5. Come è stato acutamente osservato, i due profili del tema della impugnative negoziali – quello sostanziale e quello processuale – non sempre sono destinati a convergere virtuosamente, ma la griglia di valutazione degli interessi tutelati dalla norma che sancisce la nullità si pone come punto di partenza per un distinguo tra le diverse fattispecie di patologia del negozio, ai fini della rilevabilità officiosa o meno del vizio, onde la conclusione nel senso della estensibilità o meno alla singola ipotesi del modello classico delineato dall’art. 1421 deve essere evinta da un’attenta analisi delle diverse tipologie di nullità (speciale, parziale, relativa, “di protezione”) incentrata sulla funzione della sanzione di volta in volta prevista dalla norma.
Nel motivare la soluzione adottata in tema di rapporti tra nullità officiosa e azione di risoluzione contrattuale, questa Corte, con la citata sentenza 14828/2012, ha dichiaratamente prestato adesione alla tesi tradizionalmente affermata in dottrina, secondo la quale la ratio del rilievo officioso, in capo al giudice, della più grave tra le patologie dell’atto negoziale consiste (anche) nella tutela di interessi generali sovra-individuali. Questa opinione è stata di recente vivificata da persuasivi argomenti di tipo comparatistico, volta che si è opportunamente osservato come anche in ordinamenti che non disciplinano espressamente il rilievo officioso della nullità il connesso potere-dovere del giudice sia tradizionalmente ammesso, in quanto posto a tutela di interessi superindividuali. D’altronde, proprio la natura superindividuale dell’interesse protetto giustifica la reazione dell’ordinamento nell’ambito del processo, comportando che una convenzione affetta di sì grave patologia imponga al giudice di negare efficacia giuridica a un atto nullo.
3.6. Una siffatta ricostruzione della ratio e della funzione del rilievo officioso della nullità contrattuale – pur se recentemente e assai persuasivamente sottoposte a revisione critica, con argomentazioni non prive di suggestioni, da parte di quelle dottrine che ne hanno tra l’altro evidenziato “il debole supporto logico e normativo” – deve essere in questa sede confermata, sia pure al limitato fine di esplorare il territorio della rilevabilità officiosa ex art. 1421 c.c.
3.7. La sistematica della patologia del contratto che individua la ratio della nullità nella tutela di interessi generali dell’ordinamento è certamente coerente con la nullità per contrarietà a norme imperative ovvero a principi fondamentali dell’organizzazione sociale, come nel caso di negozio contrario al buon costume, all’ordine pubblico o a causa illecita. L’obiezione secondo cui non sarebbe corretto attribuire in toto al rilievo officioso della nullità “la funzione di elidere il disvalore regolamentare espresso dal contratto nullo”, per la non pertinenza di tale aspetto funzionale rispetto alle ipotesi di cd. nullità strutturali, non è del tutto convincente. Si assume, infatti, che tali ipotesi di nullità presuppongono il difetto di un elemento essenziale del contratto, come la forma o l’accordo, mentre altre sono poste a tutela di un interesse privato, o si connotano come meramente prescrittive di un onere che resta inadempiuto: rispetto ad esse – si afferma – l’ordinamento non manifesta un giudizio di disvalore o di immeritevolezza, quanto, piuttosto, di inutilità. A tale argomento sembra potersi replicare – salvo quanto si dirà tra poco in tema di nullità di protezione – che, in tali ipotesi, insieme con il particolare, si tutela comunque un interesse generale, seppur in via indiretta: l’interesse “proprio dell’ordinamento giuridico a che l’esercizio dell’autonomia privata sia corretto, ordinato e ragionevole”. In altri termini, è come se il legislatore, predisposta una struttura normativa “significante”, destinata espressamente alla tutela del singolo soggetto, abbia poi voluto sottendere a quella medesima struttura un ulteriore e diverso “significato”, non espresso (ma non per questo meno manifesto), costituito, appunto, dall’interesse dell’ordinamento a che certi suoi principi-cardine (tra gli altri, la buona fede, la tutela del contraente debole, la parità di condizioni quantomeno formale nelle asimmetrie economiche sostanziali) non siano comunque violati. Il carattere di specialità della nullità non elide l’essenza della categoria della nullità stessa, coniugandosi entrambe in un sinolo di tutela di interessi eterogenei – in guisa da evitare la eccessiva frammentazione tipica dell’esperienza francese, di tal che quella funzione di tutela di un interesse generale non appare più “fantomatica”, come una autorevole dottrina ha proposto di considerare, poiché quello stesso interesse, ben definito, a che non si dia attuazione a un contratto nullo per via giudiziale forma pur sempre (anche) oggetto di un interesse “generale”.
Le nullità speciali, pertanto, non hanno “fatto implodere il sistema originario delineato dal legislatore del 1942”. Se è vero che i fenomeni economico-sociali non si lasciano imprigionare in schematismi troppo rigidi, è altrettanto vero che una equilibrata soluzione che ricostruisca le diverse vicende di nullità negoziale in termini e in rapporti di genus a species appare del tutto predicabile ancor oggi, così come solidamente confortata dalla stessa giurisprudenza comunitaria.
3.8. La chiave interpretativa prescelta appare, del resto, in sintonia con la storia stessa dell’istituto, che, come si ricorderà, solo con il codice del 1942 approdò per via normativa a una diversificazione della nullità dalla fattispecie dell’annullabilità, creando un sistema affatto speculare sulla scorta dell’esperienza (non più solo francese, ma anche) tedesca, cristallizzata nel BGB (testo normativo che, nel distinguere tra Nichtigkeit e Anfechtbarkeit, avrebbe peraltro conservato la figura normativa del Rechtsgeschaeft, apparentemente accantonato dal codice italiano: vale la pena rammentare, in proposito, come non esista nel nostro ordinamento una norma corrispondente al p. 143 del BGB, secondo la quale l’effetto di annullamento è ricollegato all’atto di parte anziché a quello del giudice, anche se, al di fuori del processo, l’effetto sostanziale di tale atto si manifesta solo dopo l’emanazione del provvedimento del giudice, onde, di quest’ultimo, la innegabile natura di elemento costitutivo della fattispecie che produce quell’effetto sul piano sostanziale).
Il codice civile del 1865, difatti, non disciplinava espressamente la fattispecie dell’annullabilità e trattava unitariamente quelle della nullità e della rescissione (artt. 1300 e 1311), accomunate da una medesima dimensione morfologica (quella della patologia genetica dell’atto), e funzionale (le relative azioni “duravano 5 anni”, ferma la imprescrittibilità delle relative eccezioni). Il regime dettato per la nullità era, nei fatti, non dissimile da quello oggi vigente per l’annullabilità, tanto che le cause di nullità contrattuale si estendevano dalla carenza dei requisiti formali all’errore, alla violenza e al dolo incidenti (art. 1111 c.c. 1865). Il novum del codice del A42, ossia la ponderata discriminazione tra le due forme d’invalidità, venne tendenzialmente riportato, nelle riflessioni consolidate della dottrina dell’epoca, al piano “quantitativo” della maggiore o minore gravità del vizio: la nullità rappresentava l’esito di un giudizio di radicale disvalore dell’ordinamento, sanzionando un contratto che, per ragioni strutturali, non era meritevole di tutela, come tale inidoneo a produrre gli effetti voluti dalle parti, anche se non mancò chi, ebbe a discorrere, assai autorevolmente, addirittura di un fenomeno di inqualificazione giuridica, anziché di semplice qualificazione negativa dell’atto da parte dell’ordinamento.
3.9. Le ricostruzioni più vicine nel tempo impronteranno, come già accennato, la comprensione delle differenze di regime alle diverse finalità perseguite dal legislatore: mentre l’annullabilità tutela interessi qualificati ma particolari, la nullità è volta alla protezione di interessi prettamente generali dell’ordinamento, afferenti a valori ritenuti fondamentali per l’organizzazione sociale, piuttosto che per i singoli (non a caso, e proprio per questo, si è parlato incisivamente di nullità “politiche” rimarcandone la valenza pubblicistica e rammentandosi, nel contempo, come tanto in ordinamenti a noi vicini – quale quello francese e tedesco – quanto in seno al diritto anglosassone la rilevabilità d’ufficio della nullità sia pacificamente ammessa; in Inghilterra e negli Stati Uniti, in particolare, tutte le volte in cui il contratto risulti illegale).
Di qui la diversa valutazione giuridica della nullità in chiave di inefficacia originaria e non “precaria”, come per l’annullabilità; e, soprattutto, di qui il potere officioso di rilievo giudiziale, non previsto dal codice del 1865.
3.10. Queste considerazioni possono ancora mantenere immutati valore e sostanza – anche se, giova ribadirlo, agli specifici fini della valutazione e dell’interpretazione dell’art. 1421 c.c. – pur alla luce della innegabile trasformazione dell’istituto della nullità in uno specifico presidio di specifici soggetti, attraverso la sempre più frequente introduzione di figure di invalidità cd. relative. Parte della dottrina osserva criticamente che le recenti fattispecie di nullità negoziale mutano la vocazione generale di tale categoria, offrendo protezione a interessi particolari e seriali, facenti capo a soggetti singoli e/o gruppi specifici.
Ma è stato incisivamente fatto notare, in senso opposto, che queste nullità cd. di protezione sono anch’esse volte a tutelare interessi generali, quali il complessivo equilibrio contrattuale (in un’ottica di microanalisi economica), ovvero le stesse regole di mercato ritenute corrette (in ottica di macroanalisi), secondo quanto chiaramente mostrato dalla disciplina delle nullità emergenti dalla disciplina consumeristica, specie di derivazione comunitaria, per le quali si discorre sempre più spesso, e non a torto, di “ordine pubblico di protezione”.
Non è questa ne’ la sede per aderire, sul più generale piano dei principi, all’una o all’altra teoria, entrambe sostenute, in dottrina, con dovizia e solidità di argomenti.
Tuttavia, per quel che qui interessa – la rilevabilità officiosa della nullità -, la tesi dell’interesse generale va riaffermata. L’analisi prende le mosse, traendo linfa argomentativa, dalla legittimità di una ricostruzione del rilievo officioso della nullità in funzione della tutela di interessi superindividuali alla luce della sua asserita inattualità, avuto riguardo all’ampio numero di nullità cd. speciali poste funzionalmente a tutela della parte debole del contratto.
3.12. Sebbene non si rinvengano disposizioni normative che espressamente escludano la rilevabilità d’ufficio di casi nullità, non pochi autori hanno sostenuto che le nuove fattispecie di nullità cd. protettive, poste al confine fra le due categorie della nullità e dell’annullabilità, sarebbero incompatibili con la rilevabilità d’ufficio e porrebbero un limite di carattere sostanziale ad una tale rilevabilità. E la scelta legislativa di rendere una delle parti arbitra della sorte del contratto parrebbe prima facie porsi in insanabile contrasto logico con l’attribuzione al giudice del potere di sostituirsi ad essa nella valutazione circa la caducazione o la conservazione del vincolo. Ammettere una soluzione diversa creerebbe, dunque, un’insanabile antinomia: da un lato, frusterebbe la ratio della nullità relativa di riservare alla parte protetta la scelta tra conservazione e invalidazione del contratto, dall’altro, porrebbe seri problemi in relazione al principio della disponibilità delle prove. Sarebbe quindi insuperabile la difficoltà di contemperare la ferma preclusione per il giudice di acquisire d’ufficio fatti rilevanti per la dichiarazione di nullità con le nuove nullità di atti che non sono di per sè invalidi, ma (esemplificando) solo se non negoziati, se hanno l’effetto di restringere la concorrenza, se attribuiscono il controllo di una concentrazione o se sfruttano una dipendenza economica.
3.12.1. La tesi che esclude la compatibilità tra poteri officiosi e la disciplina delle nullità protettive, pur nella sua indiscutibile suggestione, non è, peraltro, immune da alcune fragilità argomentative, tanto da essere efficacemente contrastata da altra dottrina, favorevole a estendere l’ambito di applicazione dell’art. 1421 cod. civ. anche a quelle nuove invalidità sancite per la violazione di norme poste a tutela di soggetti ritenuti dalla legge economicamente più deboli, di fronte a situazioni di squilibro contrattuale, sulla scorta del piano quanto efficace rilievo che la legittimazione ad agire ristretta ai soli soggetti indicati dalla norma non si riverbera ipso facto in una consequenziale esclusione del potere di rilievo officioso delle nullità in questione ex art. 1421 c.c.. Si è detto “indiscutibile” lo scopo della nullità relativa volto anche alla protezione di un interesse generale tipico della società di massa, così che la legittimazione ristretta non comporterebbe alcuna riqualificazione in termini soltanto privatistici e personalistici dell’interesse (pubblicistico) tutelato dalla norma attraverso la previsione della invalidità. Il potere del giudice di rilevare la nullità, anche in tali casi, è essenziale al perseguimento di interessi che possono addirittura coincidere con valori costituzionalmente rilevanti, quali il corretto funzionamento del mercato (art. 41 Cost.) e l’uguaglianza quantomeno formale tra contraenti forti e deboli (art. 3 Cost.: si pensi alla disciplina antitrust, alle norme sulla subfornitura che sanzionano con la nullità i contratti stipulati con abuso di dipendenza economica, alle disposizioni sui ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, che stabiliscono la nullità di ogni accordo sulla data del pagamento che risulti gravemente iniquo in danno del creditore, ex D.Lgs. n. 231 del 2002), poiché lo squilibrio contrattuale tra le parti altera non soltanto i presupposti dell’autonomia negoziale, ma anche le dinamiche concorrenziali tra imprese. La pretesa contraddizione fra legittimazione riservata e rilevabilità d’ufficio risulta soltanto apparente, se l’analisi resta circoscritta al profilo della rilevazione della causa di nullità. Non può, infatti, tralasciarsi di considerare che il legislatore contemporaneo codifica fattispecie di nullità nelle quali convivono la legittimazione riservata e la rilevabilità d’ufficio (ex aliis, quelle di cui all’art. 36, comma 3 e art. 134, comma 1, Cod. Consumo; quella prevista dal D.Lgs. 1 settembre 1993, n. 385, art. 127, comma 2; e la nullità di cui al D.Lgs. 9 ottobre 2002, n. 231, art. 7). E il potere del giudice, in questi ambiti, rafforza l’intensità della tutela accordata alla parte che, in ragione della propria posizione di strutturale minor difesa, potrebbe non essere in grado di cogliere le opportunità di tutela ad essa accordata.
Va pertanto rivista e precisata in parte qua l’affermazione, contenuta nella sentenza 14828/2012, secondo la quale dovrebbe ritenersi vietato al giudice l’indagine in ordine a una nullità protettiva.
Tale affermata esclusione, che ha prestato il fianco alle critiche di chi, in dottrina, lamenta che sostenere l’inammissibilità del rilievo officioso di una nullità speciale, in difetto di una espressa disposizione legislativa in tal senso, condurrebbe a conseguenze incongrue (come, ad esempio, nel caso del preliminare di un acquisto di immobile da costruire nullo perché carente della fideiussione prevista dalla legge a pena di nullità, D.Lgs. 20 giugno 2005, n. 122, ex art. 2, comma 1), merita, peraltro, una ulteriore precisazione.
3.13. Difatti, la quaestio nullitatis, intesa nella sua più generale portata, si presta a differenti valutazioni a seconda che di essa ci si limiti alla semplice rilevazione, ovvero si proceda alla sua dichiarazione a seguito di accertamento giudiziale (senza affrontare, al momento, la questione dell’idoneità all’effetto di giudicato). 3.13.1. Limitando l’indagine alla sola rilevazione d’ufficio, la stessa sentenza 14828 del 2012 non manca di osservare come la giurisprudenza comunitaria sia univocamente orientata nel senso della sua necessità (e ciò è a dirsi del tutto a prescindere dalla questione se, sul piano del diritto interno, il carattere di rilevabilità officiosa delle nullità speciali sia o meno predicabile sulla base di un’interpretazione estensiva dell’art. 36 del codice del consumo, inteso come norma a carattere generale del sistema delle nullità di matrice consumeristica).
D’altronde, non va dimenticato che queste Sezioni Unite non erano state illo tempore chiamate a pronunciarsi su di una generale reimpostazione del sistema delle nullità speciali (sistema che, comunque, sembrerebbe più adatto ad una valutazione caso per caso, attesa la molteplicità delle ipotesi di nullità relativa offerte dal dato normativo, in relazione al diverso aspetto funzionale di ciascuna norma).
3.13.2. Le indicazioni provenienti dalla stessa Corte di Giustizia in tema di rilievo officioso (nella specie, delle clausole abusive nei contratti relativi alle ipotesi di cd. commercio business-to- consumer) consentono di desumere un chiaro rafforzamento del potere- dovere del giudice di rilevare d’ufficio la nullità, (nella sentenza Pannon del 4 giugno 2009, in causa C-243/08, la Corte ha stabilito che il giudice deve esaminare di ufficio la natura abusiva di una clausola contrattuale e, in quanto nulla, non applicarla, tranne nel caso in cui il consumatore vi si opponga, qualificando, in buona sostanza, in termini di dovere l’accertamento officioso del giudice circa il carattere eventualmente abusivo delle clausole contenute in siffatti contratti, sia pure con il limite, ostativo alla disapplicazione, dell’opposizione del consumatore). E proprio in conseguenza degli interventi della Corte di giustizia sembra destinata a restare definitivamente sullo sfondo, senza assumere il rilievo che parte della dottrina ha cercato di attribuirvi, la nozione di nullità relativa intesa come realizzazione di una forma di annullabilità rafforzata (di cui è traccia nel non condivisibile decisum di questa Corte, nella sentenza 9263/2011) anziché come species del più ampio genus rappresentato dalla nullità negoziale. Nullità che non a torto è stata definita, all’esito del sopravvento del diritto europeo, ad assetto variabile, e di tipo funzionale, in quanto calibrata sull’assetto di interessi concreto, con finalità essenzialmente conformativa del regolamento contrattuale, ma non per questo meno tesa alla tutela di interessi e di valori fondamentali, che trascendono quelli del singolo. Si è così osservato che, se le nullità di protezione si caratterizzano per una precipua natura ancipite, siccome funzionali nel contempo alla tutela di un interesse tanto generale (l’integrità e l’efficienza del mercato, secondo l’insegnamento della giurisprudenza europea) quanto particolare/seriale (quello di cui risulta esponenziale la classe dei consumatori o dei clienti), la omessa rilevazione officiosa della nullità finirebbe per ridurre la tutela di quel bene primario consistente nella deterrenza di ogni abuso in danno del contraente debole.
3.13.3. La rilevabilità officiosa, pertanto, sembra costituire il proprium anche delle nullità speciali, incluse quelle denominate “di protezione virtuale”.
Il potere del giudice di rilevarle tout court appare essenziale al perseguimento di interessi pur sempre generali sottesi alla tutela di una data classe di contraenti (consumatori, risparmiatori, investitori), interessi che possono addirittura coincidere con valori costituzionalmente rilevanti – quali il corretto funzionamento del mercato, ex art. 41 Cost., e l’uguaglianza non solo formale tra contraenti in posizione asimmetrica -, con l’unico limite di riservare il rilievo officioso delle nullità di protezione al solo interesse del contraente debole, ovvero del soggetto legittimato a proporre l’azione di nullità, in tal modo evitando che la controparte possa, se vi abbia interesse, sollecitare i poteri officiosi del giudice per un interesse suo proprio, destinato a rimanere fuori dall’orbita della tutela.
3.13.4. Senza dire, poi, come le nuove species di nullità esemplifichino casi totalmente ignoti al legislatore del 1942, onde l’interrogativo sul quanto sia (poco) razionale invocare la nominatività dell’incipit dell’art. 1421 al fine di escludere un non certo irragionevole ricorso al procedimento di integrazione analogica.
La riconduzione ad unità funzionale delle diverse fattispecie di nullità – lungi dal risultare uno sterile esercizio teorico – consente di riaffermare a più forte ragione l’esigenza di conferire al rilievo d’ufficio obbligatorio il carattere della irrinunciabile garanzia della effettività della tutela di valori fondamentali dell’organizzazione sociale.
La soluzione della rilevabilità officiosa tout court apparirà ulteriormente confermata dalla considerazioni che si andranno di qui a poco a svolgere, alle quali va sin d’ora premesso che il mantenimento dell’unità funzionale della categoria e la conferma della sua ratio super-individuale determinano ricadute non marginali sulle successive scelte dell’interprete quanto agli effetti della rilevazione ex officio iudicis.
3.15. Le questioni di diritto poste in concreto dal tema dei rapporti tra nullità e azioni di impugnativa negoziale che impegnano oggi il collegio sono le seguenti:
LA PRIMA QUESTIONE è rappresentata dai rapporti diacronici, anzitutto sotto il profilo logico, tra rilevazione – dichiarazione – effetto di giudicato della nullità negoziale.
Tali rapporti appaiono così strutturati:
a) La rilevazione (necessariamente obbligatoria) della nullità ex art. 1421 deve più propriamente intendersi come limitata all’attività di rilevazione/indicazione alle parti, ad opera del giudice.
Si è opportunamente osservato come tutto ciò che in base alla legge può dirsi è che la nullità deve essere rilevata d’ufficio tutte le volte che la parte vuole utilizzare nel processo come valido il contratto nullo. Non v’è dubbio, infatti, che la patte che chieda l’annullamento, la risoluzione o la rescissione di un contratto intenda utilizzare come valido e/o come efficace quel contratto. Tale rilevazione potrà, peraltro, non trasformarsi necessariamente in una dichiarazione di nullità.
Costituiscono dimostrazione di tale assunto proprio le fattispecie delle nullità di protezione: se il giudice rileva la nullità di una singola clausola (si pensi a una illegittima deroga al principio del foro del consumatore), e la indica come possibile fonte di nullità alla parte interessata, quest’ultima conserva pur sempre la facoltà di non avvalersene, chiedendo che la causa sia decisa nel merito (perché, ad esempio, ha valutato la clausola stessa in termini di maggior convenienza, nonostante la sua invalidità). In questo caso il giudice, dopo averla (obbligatoriamente) rilevata, non potrà dichiarare in sentenza, nemmeno in via incidentale, la relativa nullità.
b) La dichiarazione della nullità va conseguentemente intesa come pronuncia (previo accertamento) del rilevato vizio di invalidità, accertamento contenuto nella motivazione e/o nel dispositivo della sentenza (amplius, infra sub 5).
Tale pronuncia non risulterà sempre obbligatoria, a differenza della già compiuta rilevazione, vero quanto detto poc’anzi in tema di nullità speciali, nonché, come meglio si specificherà in seguito, in materia di decisioni fondate sulla cd. ragione più liquida (non potendo, in proposito, convenirsi tout court con quella pur autorevole dottrina che costruisce la rilevazione come “sempre e comunque funzionale allo svolgimento di un’attività indirizzata ad una conseguente pronuncia”);
c) L’idoneità all’effetto di giudicato.
Premessa la necessità che la nullità emerga ex actis, vanno in limine evidenziati gli indiscutibili inconvenienti di una nullità rilevata senza (possibili) effetti di giudicato, attesa la valutazione normativa – di tipo sostanziale – dell’estremo disvalore giuridico dell’atto nullo, ex se improduttivo di effetti al di là e a prescindere dall’intervento del giudice, che, quand’anche sollecitato, avrebbe portata soltanto ricognitivo/dichiarativa dell’inefficacia del negozio. La nullità, sul piano sostanziale, non necessita di alcuna fase attuativa per divenire effettiva, poiché la norma che la sancisce rifiuta ab origine la tutela e nega ogni possibile effetto al negozio nullo.
Al fine di evidenziare i rischi connessi al mancato effetto di giudicato di una nullità dapprima rilevata e poi dichiarata dal giudice in un provvedimento, si fa, tra le tante – a tacere dell’icastico esempio della vendita dell’ippogrifo, destinata alla scure invalidante dell’intervento giudiziale indipendentemente da qualsivoglia attività delle parti, “con o senza nomina di un consulente tecnico zoologo”), l’ipotesi non del tutto teorica del venditore di un immobile che domandi la condanna dell’acquirente alla corresponsione del prezzo convenuto e veda la sua istanza rigettata perché il giudice ha rilevato la nullità del contratto, senza peraltro conseguire un titolo restitutorio nel caso in cui l’acquirente abbia, medio tempore, alienato il bene a terzi. In tal caso, la nullità, rilevata ma non dichiarata, potrà fondare una successiva domanda ex art. 2033 c.c., senza che peraltro si formi, nell’originario giudizio, alcun titolo trascrivibile ai sensi degli artt. 2652 e 2653 c.c.. Per converso, l’incidenza del giudizio non può restare priva di conseguenze, in relazione ai principi-cardine (ivi comprese le preclusioni temporali) che ne disciplinano il fisiologico dipanarsi sino all’emanazione della decisione.
Il problema sembra destinato a ricevere soluzione a seguito della disamina delle disposizioni di cui all’art. 183, comma 4, art. 101, comma 2, art. 34 (ed eventualmente 153) del codice di rito, alla luce del tipo di accertamento che l’attore può invocare in seno al processo, in continenti ovvero ex intervallo. Valga per il momento osservare come la vera ratio della rilevabilità officiosa della nullità non sia quella di eliminare, sempre e comunque, il contratto nullo dalla sfera del rilevante giuridico (che, altrimenti, l’art. 1421 sarebbe stato scritto diversamente, e sarebbe stata attribuita la relativa legittimazione ad agire anche al pubblico ministero, come avviene nell’ordinamento francese ex art. 423 NCPC), ma quella di impedire che esso costituisca il presupposto di una decisione giurisdizionale che in qualche modo ne postuli la validità o comunque la provvisoria attitudine a produrre effetti giuridici. Si intende, allora, come da un lato l’esigenza di preservare la sostanziale unitarietà della categoria della nullità negoziale si coniughi con l’obbligo di rilevazione d’ufficio sempre e comunque imposto al giudice, dall’altro come tale obbligo contemperi in modo equilibrato il duplice valore della tutela degli interessi generali sottesi alla nullità e della salvaguardia dell’iniziativa di parte nel processo (si rammenti che un esplicito riferimento ai valori fondamentali dell’ordinamento si legge nella sentenza n. 21095 del 2004 di queste stesse sezioni unite, ove si stabilì, in tema di usi bancari e di anatocismo, che l’eventuale difesa del convenuto finalizzata a rilevare determinati profili di nullità o a non individuarne affatto non preclude il potere officioso del giudice di indagare e dichiarare, sotto qualsiasi profilo, la nullità del negozio).
Ne consegue che, mentre tra rilevazione e dichiarazione di una nullità negoziale esiste un rapporto di collegamento (i.e. di inclusione), tra dichiarazione ed idoneità al giudicato appare predicabile una relazione di sostanziale identità, come meglio si avrà modo di osservare in seguito.
– LA SECONDA QUESTIONE investe i rapporti tra le azioni di adempimento e di risoluzione (per le quali deve ritenersi ormai pacificamente ammessa la compatibilità con la rilevazione officiosa della nullità), e le domande di rescissione e di annullamento (in relazione alle quali la sentenza 14828/2012 si esprime invece in termini assai più problematici e perplessi, sia pur in un fugace obiter dictum). Riservando al prosieguo della trattazione il necessario approfondimento del tema, è sufficiente ora ricordare come sia stato osservato in dottrina che, nella rescissione non diversamente che nella risoluzione, se un contratto è nullo, e dunque privo ab origine di effetti, non c’è proprio niente da rescindere, poiché la rescissione non è che un altro mezzo per eliminare gli effetti che il contratto produce.
– LA TERZA QUESTIONE ha ad oggetto i rapporti tra una domanda di nullità proposta dalla parte e la rilevazione ex officio di una causa diversa di nullità, la cui inammissibilità (costantemente affermata dalla giurisprudenza di questa Corte: ex aliis, Cass. 16621 del 2008 e 89 del 2007) si fonda, come meglio si dirà in seguito, sulla (non più condivisibile) collocazione della azione di nullità nella categoria delle domande eterodeterminate.
4. LE IMPUGNATIVE NEGOZIALI E L’OGGETTO DEL GIUDIZIO.
4.1. È noto come la questione della individuazione dell’oggetto del processo sia, da sempre, tra le più dibattute nel panorama dottrinario e giurisprudenziale.
Le complesse e delicate problematiche che essa pone, ben lungi dal trovare risposte certe nel diritto positivo, risultano tutte e allo stesso modo condizionate dalla necessità di operare una scelta tra valori talora contrastanti.
Da un lato, il “valore” della definitiva indicazione alle parti, all’esito di un processo lungo costoso faticoso, delle condotte da tenere in futuro in ordine al rapporto sostanziale che le vincola. Dall’altro, la libertà di instaurare una lite su di un solo segmento di una più articolata situazione sostanziale, delimitato dal singolo titolo costitutivo addotto dall’istante come causa petendi. La scelta, in definitiva, tra Recht e Rechtsfrage. Tra diritto (sostanziale) e domanda (giudiziale) di diritto.
Esula dai compiti di questa Corte la ricerca di risposte definitive da offrire a tale delicatissima questione, poiché il perimetro dell’indagine ad essa riservata è quello delle azioni di impugnativa negoziale. E tuttavia la risposta al quesito, lungi dal costituire vieto esercizio di retorica, appare decisiva per la scelta della soluzione da adottare sul tema dei rapporti tra nullità negoziale ed azioni di impugnativa contrattuale.
4.2. È necessario muovere dall’analisi del rapporto tra il processo e il diritto potestativo cd. sostanziale – qualificato da autorevole dottrina come vero e proprio diritto soggettivo -, che di ogni processo di impugnativa negoziale costituirebbe il vero oggetto, in guisa di diritto fatto valere in giudizio (artt. 81 e 99 c.p.c.,artt. 2907 e 2697 c.c. e art. 24 Cost.), in luogo delle situazioni soggettive sostanziali (pretesa, facoltà, obbligo, soggezione) generate dall’atto negoziale (fatto storico/fattispecie programmatica) e dal rapporto intersoggettivo da esso scaturente. Con la rilevante conseguenza di escludere dall’oggetto del processo, e quindi del giudicato qualsiasi accertamento definitivo in ordine alla situazioni soggettive sostanziali che connotano il contenuto del rapporto obbligatorio.
Nell’ambito della tutela costitutiva – non rileva in questa sede stabilirne i pur discussi confini – invocata con le azioni di impugnativa negoziale, il processo di cognizione (rectius, l’accertamento che ne scaturisce) diverrebbe così elemento della fattispecie sostanziale cui il legislatore ricollega la produzione di effetti giuridici.
4.2.1. Appare decisiva l’obiezione di chi ha sostenuto che ricondurre l’oggetto del processo alla fattispecie del diritto potestativo (sostanziale tout court, ovvero “a necessario esercizio giudiziale”) risulta viziata da un eccesso di concettualismo, destinato, anziché aiutare a spiegare la realtà, i.e. a identificare quale sia il bene della vita oggetto della disputa tra le parti, ad offuscarla inutilmente, volta che il diritto potestativo civilistico inteso quale autonoma situazione soggettiva potrebbe al più costituire oggetto del processo prima del suo esercizio, e mai dopo: una volta esercitato, in via giudiziale o stragiudiziale, il diritto potestativo è destinato a estinguersi per consumazione, mentre, a seguito del suo esercizio, la contesa delle parti nel processo non è più sull’esistenza o meno del diritto potestativo, bensì sull’esistenza o meno dei fatti modificativi-impeditivi-estintivi ai quali l’esercizio di quel diritto ha preteso di dare rilevanza, ossì a le situazioni soggettive sostanziali.
Mutando la visione prospettica, dunque, l’oggetto del processo andrebbe così a identificarsi con la situazione soggettiva sostanziale e con il suo effetto giuridico, mai con fatti o con norme. Peraltro, se il diritto potestativo sostanziale riveste la sola funzione di attribuire, tramite il suo esercizio, rilevanza ai fatti modificatrici-impeditivi-estintivi, esso si pone inevitabilmente al medesimo livello dei fatti e delle norme, in guisa di coelemento di una più complessa fattispecie, in funzione di “interruttore” destinato ad attivare un più vasto “circuito” ad esso preesistente, in conseguenza di una vera e propria “crisi di cooperazione” che ha diviso le parti sul piano del diritto sostanziale, in una (eccezionale) dimensione patologica del libero potere di autodeterminazione che costituisce l’essenza e il fondamento dell’autonomia privata.
4.3. L’indagine volta alla corretta individuazione dell’oggetto del processo, da condursi secondo i consueti canoni ermeneutici di analisi delle fattispecie giuridiche nel loro duplice aspetto struttura/funzione, postula, in questa sede, la necessità di una Inversion-Methode, che muova dall’analisi (prioritaria) dei valori funzionali del processo.
Tali valori possono, hic et nunc, essere individuati:
– Nel principio di corrispettività sostanziale, da preservare tout court come valore che lo strumento processuale non può cancellare, incrinare, disarticolare o deformare, ma soltanto rispecchiare e attuare, attesane la sua dimensione essenzialmente strumentale, come espressamente evidenziato (sia pure con riferimento ai rapporti tra gli artt. 2909 e 2932 c.c. e art. 282 c.p.c.) da queste stesse sezioni unite con la sentenza n. 4059 del 2010: si pensi al caso del locatore che agisca per il pagamento del canone, del giudice che rilevi la nullità della locazione, del conduttore che (intenzionato a restare nell’immobile in assenza momentanea di alternative abitative) si limiti provare documentalmente l’avvenuto adempimento, così che il giudicante debba limitarsi a rigettare la domanda dichiarando la nullità del contratto soltanto nella motivazione del provvedimento decisorio. Sarebbe arduo sostenere che sulla quaestio nullitatis possa nuovamente instaurarsi un successivo giudizio, tanto da parte del locatore quanto del conduttore, salvo implicitamente avallare un evidente abuso dello strumento del processo;
Nel principio di stabilità delle decisioni giudiziarie (predicato con dovizia di argomenti, di recente, ancora da queste sezioni unite con la sentenza n. 15295 del 2014 in tema di ultrattività del mandato al difensore), volta che, come si è efficacemente osservato, il potere di azione riconosciuto ai privati non può (più) essere quello di attivare un meccanismo potenzialmente destinato a ripercorrere all’infinito le medesime tappe con provvedimenti che si consente al giudice di revocare o modificare motu proprio o su istanza di parte, bensì quello di pretendere una risposta per quanto possibile definitiva alla domanda di giustizia; Nel principio di armonizzazione delle decisioni, così da evitare la scomposizione della unità della situazione sostanziale in una indefinita molteplicità rappresentata da tante “minime unità decisorie”;
Nel principio di concentrazione delle decisioni, ad onta di poco meditati interventi legislativi (si consideri, in materia locatizia, la nullità della clausola di determinazione dell’importo del canone per contrasto con norma imperativa che ne prevede la sostituzione ipso iure – nullità che, a norma di legge, non potrebbe essere opposta in via di eccezione per impedire l’accoglimento della domanda fondata sull’inadempimento dell’obbligo di pagamento del canone derivante dalla clausola stessa, prima che sia stato accertato in autonomo giudizio il contenuto dell’obbligo derivante dalla clausola legale deputata a sostituire quella affetta da nullità); Nel principio di effettività della tutela, ostacolo insuperabile – come di recente affermato da questa Corte con la sentenza n. 21255 del 2013 – per ogni interpretazione di tipo formalistico e inutilmente defatigante rispetto ai tempi della decisione della causa;
Nel principio di giustizia delle decisioni, espressione assai meno declamatoria oggi che in passato, alla luce dell’art. 111 Cost. e art. 6 CEDU. Di tale giustizia decisionale è traccia sensibile la decisione resa da queste sezioni unite con la sentenza n. 18128 del 2005, in tema di rilevo officioso della eccessiva onerosità della clausola penale;
Nel principio di economia (extra) processuale, declinazione del giusto processo inteso (anche) come esigenza di evitare la eventualità di moltiplicazione seriale dei processi e di offrire alle parti una soluzione “complessiva” già entro il primo, sovente assai lungo procedimento;
Nel principio del rispetto della non illimitata risorsa-giustizia:
sarebbe un fuor d’opera riproporre le consuete, innumerevoli esemplificazioni delle conseguenze, talvolta paradossali, riconducibili al mancato riconoscimento di un possibile effetto di giudicato all’accertamento giudiziale della nullità negoziale, pur nei limiti imposti dalle norme processuali, sia pure prendendo le distanze da una incondizionata adesione alla teoria dell’effetto espansivo pressoché illimitato dell’accertamento contenuto nella sentenza. E proprio il principio della limitatezza della risorsa giustizia è stato in più occasioni evocato, sia pure indirettamente, da questa Corte regolatrice, come nel caso della ritenuta infrazionabilità del credito in sede giudiziale (Cass. ss.uu. n. 23726 del 2007 in materia di decreto ingiuntivo; Cass. n. 28286 del 2011, in tema di frazionamento della domanda risarcitoria, davanti al giudice di pace e al tribunale, del danno alla persona e alle cose derivante da un unico sinistro stradale);
Nel principio di lealtà e probità processuale, valore cui andrebbe costantemente improntata la condotta delle parti nel processo;
Nel principio di uguaglianza formale tra le parti, rendendo così deducibile tout court anche per l’attore ciò che è sempre opponibile dal convenuto.
4.4. Si esaurisce così l’indagine sull’aspetto funzionale della questione.
4.4.1. Poste tali premesse, appare inevitabile l’opzione strutturale verso una decisione tendenzialmente volta al definitivo consolidamento della situazione sostanziale direttamente o indirettamente dedotta in giudizio. Una decisione tendenzialmente caratterizzata da stabilità, certezza, affidabilità temporale, coniugate con valori di sistema della celerità e giustizia. Un sistema che eviti di trasformare il processo in un meccanismo potenzialmente destinato ad attivarsi all’infinito.
4.5. Anteposta la disamina funzionale all’indagine strutturale sull’oggetto del processo, si è già osservato come quest’ultima sia stata fonte, da sempre, di contrapposte interpretazioni, tutte dotate di indiscusso spessore teorico – e tutte egualmente sostenibili, ispirate da opposte visioni che investono la funzione stessa della giurisdizione.
Viceversa, non appare di conforto il dato normativo, anzitutto perché l’art. 2909 c.c. non chiarisce quale sia l’oggetto dell’accertamento giudiziale e l’art. 34 c.p.c. non specifica la nozione di “questione pregiudiziale”. Non è certo questa la sede per rievocare il defatigante dibattito sviluppatosi sul tema della pregiudizialità logica (e sulla sua presunta fuoriuscita dal campo di applicazione dell’art. 34), della pregiudizialità tecnica e del punto pregiudiziale.
E ancora, gli artt. 12 e 13 c.p.c. appaiono dettati con riferimento a problematiche endo-processuali sicuramente eterogenee rispetta al tema in questione.
Si contendono il campo, alla ricerca dell’individuazione dell’oggetto del processo, due contrastanti orientamenti.
4.6. Una prima ricostruzione accentua il profilo privatistico, pur nella consapevolezza delle distonie cui essa conduce in punto di economia del processo e di contraddittorietà delle decisioni. Si evidenzia, in particolare, come niente impedisca all’esperienza processuale di avere proprie e peculiari esigenze, che implicano il superamento di una visione sostanzialistica pura dei fenomeni giuridici, viziata da un semplicismo non dinamico, volta che la domanda opererebbe un’astrazione dal rapporto, deducendo in giudizio una situazione elementare e così determinando essa stessa i limiti della controversia.
Il singolo diritto “dispotico” sulla cosa venduta, il prezzo, la consegna. Non il rapporto giuridico nella sua integrità. Un diverso indirizzo valorizza le esigenze pubblicistiche che si vogliono pur sempre sottese alla tutela dei diritti dei privati. Si esclude che il processo possa scindere, motu proprio, il rapporto fondamentale (e fondamentalmente unitario) che lega le parti, frammentandolo in segmenti autonomi, così che il pericolo di soluzioni disomogenee e non coordinate andrebbe scongiurato attraverso un meccanismo di armonizzazione tra giudicati, frutto dell’estensione dell’efficacia della sentenza all’accertamento del rapporto sostanziale (in seno alle stesse teorie sostanzialiste, è stato, peraltro, di recente operato un opportuno distinguo tra sentenze di accoglimento della domanda di impugnativa negoziale e sentenze di rigetto, su cui si tornerà funditus nel prosieguo della motivazione).
4.7. Ritiene il collegio che anche sul piano strutturale l’adesione a una delle teorie dell’oggetto del processo sia destinata ad essere inevitabilmente condizionata dalla sua speculare analisi funzionale.
4.7.1. Si rende così necessario dare ingresso a una più ampia visione che tenga nella dovuta considerazione gli inconvenienti della frammentazione di una originaria (ed unitaria) sorgente di rapporti sostanziali in tanti separati rivoli processuali, e delle conseguenze dell’accertamento soltanto incidentale di una più complessa dinamica negoziale, pur non negandosi – come di qui a breve si vedrà – quelli derivanti dell’indiscriminato e incondizionato ampliamento della domanda originaria (si ricorderà come in uno dei tanti progetti di riforma del processo civile si ebbe opportunamente a proporre una radicale riscrittura dell’art. 34 nel senso che “in ipotesi di rapporti complessi, qualora sia fatto valere in giudizio uno dei diritti principali derivanti dal rapporto stesso, l’autorità della cosa giudicata si estende al rapporto fondamentale”, con chiaro riferimento al concetto della regiudicata sostanziale ed alla teorica della pregiudizialità soltanto logico-giuridica). 4.7.2. Visione volta ad un approdo che finisce per attrarre nella propria orbita, rendendola oggetto tendenzialmente necessario di inevitabile scrutinio, la situazione di diritto soggettivo fatta valere dall’attore e valutata nella sua interezza, e cioè in relazione alla sua totale ed effettiva consistenza sostanziale. Che all’attore non sia consentito fruire del principio dispositivo in modo tale da ritagliare a proprio piacimento l’oggetto della lite, scomponendo una situazione soggettiva unitaria in una pluralità di sub-oggetti processualmente autonomi è eventualità ormai radicalmente esclusa, come già ricordato, dalla stessa, recente giurisprudenza di questa Corte.
4.8. Nelle azioni di impugnativa negoziale l’oggetto del giudizio è dunque costituito dal negozio, nella sua duplice accezione di fatto storico e di fattispecie programmatica, e (con esso) dal rapporto giuridico sostanziale che ne scaturisce.
4.8.1. Da tale realtà sostanziale il giudizio non potrà prescindere, in funzione quanto meno tendenziale di un definitivo accertamento dell’idoneità della convenzione contrattuale a produrre tanto l’effetto negoziale suo proprio quanto i suoi effetti finali. Questa soluzione è stata criticamente e suggestivamente definita come “un vero e proprio chiasmo”, poiché, si sostiene che, in tal modo, il giudicato, rifuggendo il discorso processuale, verrebbe a generarsi nel (e dal) silenzio. La soluzione, di converso, nei termini e con i temperamenti che di qui a breve si individueranno, appare rispettosa proprio delle esigenze funzionali dianzi descritte. 4.8.2. Il riferimento alla struttura negoziale originaria (negozio/fatto storico) non meno che alla fattispecie programmatica in essa contenuta è conseguenza del potere di indagine del giudice su qualsivoglia ragione, tanto morfologica quanto funzionale, di nullità contrattuale: così, il difetto di forma atterrà alla valutazione del negozio/fatto storico, mentre l’impossibilità dell’oggetto sarà predicabile a seguito dell’individuazione del momento programmatico della convenzione negoziale, che dell’oggetto contiene soltanto la rappresentazione ideale come tale neutra rispetto alla categoria dell’invalidità, mentre la sua impossibilità/illiceità sarà riferibile soltanto alla res nella sua dimensione materiale, quale oggetto reale del programma negoziale.
Il riferimento al rapporto negoziale è poi naturale conseguenza del tipo di azione esperita dall’attore: nelle domande di risoluzione e di adempimento, oggetto di contesa è la distonia funzionale del sinallagma, onde la necessità di valutare insieme la dimensione statica (negozio) e dinamica (rapporto) della fattispecie, mentre le domande di annullamento e di rescissione postulano un giudizio sul binomio invalidità/efficacia temporanea dell’atto che, come in seguito si vedrà, non può a sua volta prescindere dalla preliminare indagine del giudice sulla eventuale nullità/inefficacia originaria dell’atto stesso.
4.8.3. La necessità del riferimento al rapporto scaturente dal negozio, oltre che a quest’ultimo, emerge da vicende processuali in cui il delicatissimo compito cui è chiamato il giudice in materia di impugnative negoziali è rappresentato proprio dalla capacità di valutazione unitaria di entrambe le fattispecie.
Emblematica è una vicenda sottoposta all’esame della Corte di appello di Cagliari (sentenza n. 179 del 1991), che si trovò di fronte ad un singolare caso di domande incrociate di risoluzione contrattuale e di esatto adempimento in relazione ad un contratto il cui contenuto negoziale era affetto da nullità per ritenuta indeterminabilità dell’immobile alienato e del relativo prezzo. Le parti non solo non avevano posto alcuna questione circa l’individuazione dell’oggetto della compravendita e del suo corrispettivo, essendosi limitate a chiedere, l’attore, la risoluzione del contratto per essere stato estromesso dall’appartamento acquistato, la convenuta alienante, in via riconvenzionale, l’eliminazione dei difetti dell’opera (insufficienza statica di una scala e di un balcone) che, insieme con una somma di denaro non precisata, costituiva il corrispettivo della vendita. Esaminando la sola scheda negoziale, il giudice pronunciò la nullità dell’alienazione per indeterminabilità dell’oggetto e del prezzo, non avendo tenuto in considerazione il rapporto dipanatosi tra le parti, come rappresentato negli atti processuali. Una corretta trasposizione in sede processuale della teoria della cd. Geschaefstgrundlage (e cioè della “comune base negoziale”, anche implicita, che consentì la nascita e al contempo decretò i limiti della teoria negoziale della presupposizione) consente, in definitiva, di affermare che, anche in sede processuale, una comune Grundlage, anche implicita, del processo e del provvedimento di merito che lo definisce consente la prioritaria disamina, da parte del giudice, dei vizi negoziali che decretino la eventuale nullità della convenzione.
4.9. Non può pertanto condividersi, oggi, la tesi che individua l’oggetto del processo in una Rechtsfrage, il cui oggetto è rappresentato dal diritto potestativo fondato sul singolo motivo (di annullamento, rescissione, risoluzione, nullità) dedotto in giudizio.
4.9.1. Essa appare, difatti, in contrasto con gli stessi valori predicati da questa Corte con la più volte ricordata sentenza di cui a Cass. 23726/2007, che calò definitivamente la scure dell’inammissibilità sulla domanda frazionata di un credito anche non risarcitorio dell’attore, derivante da un unico rapporto obbligatorio.
Valori a suo tempo individuati nelle regole oggettive di correttezza e buona fede, nei doveri di solidarietà di cui all’art. 2 Cost., nel canone del giusto processo di cui al novellato art. 111 Cost.. Anche il diritto potestativo (all’annullamento, alla rescissione, alla risoluzione del contratto) postula come oggetto necessario l’esistenza (degli effetti) dell’atto (il che, come si dirà, non consente di ritenere ammissibile la coesistenza della nullità e dell’annullabilità rispetto a una medesima fattispecie). E ciò è a dirsi tanto se di diritto potestativo si discorra nella sua forma sostanziale quanto se con riferimento a quella del suo necessario esercizio giudiziale: la ricostruzione della tutela costitutiva nella ristretta dimensione del diritto alla modificazione giuridica, ipotizzata come situazione soggettiva rivolta verso lo Stato-giudice, piuttosto che nei confronti della controparte, è destinata a infrangersi sulla più ampia linea di orizzonte rappresentata dalla necessità che il giudice dichiari, in sede tutela costitutiva e non solo, e in modo vincolante per il futuro, il modo d’essere (o di non essere) del rapporto sostanziale che, con la sentenza, andrà a costituirsi, modificarsi, estinguersi.
4.10. Non si intende in tal guisa pervenire a un incondizionato accoglimento del principio del giudicato implicito sul dedotto e deducibile, sempre e comunque predicabile, quoad effecta, in relazione a qualsiasi vicenda di impugnativa negoziale. Il correttivo fondamentale di tale opzione ermeneutica è difatti rappresentato, tra l’altro (e non solo), dal dovere del giudice di rilevare una causa di nullità negoziale, e di indicarla alle parti, lungo tutto il corso del processo, fino alla sua conclusione, attivando tale speculare potere rispetto a quello delle stesse parti di decidere della sorte del rapporto fondamentale, con scelte che non risulteranno prive di conseguenze processuali per quei soggetti del processo colpevolmente inerti, o callidamente silenti.
5. I LIMITI OGGETTIVI DEL GIUDICATO – L’ORDINE LOGICO DELLE QUESTIONI.
5.1. La questione dell’oggetto del processo è strettamente connessa a quella dell’oggetto del giudicato e dei suoi limiti. È espressa la segnalazione in tal senso contenuta in una delle due ordinanze di rimessione, che chiede al collegio di pronunciarsi in ordine alla individuazione delle condizioni per la formazione e l’estensione dell’efficacia del cd. giudicato implicito esterno riguardante la sentenza di rigetto della domanda di risoluzione rispetto alla successiva azione di nullità concernente lo stesso contratto.
5.2. Il tema dell’oggetto del giudicato si estende, come noto, a quello del giudicato implicito, i cui problematici confini non possono essere analiticamente esaminati in questa sede.
5.2.1. Per quanto qui di rilievo, va osservato come, al di là delle varie posizioni assunte dalla dottrina e dalla stessa giurisprudenza di questa Corte, il nostro ordinamento positivo non riconosca cittadinanza all’idea di un giudicato implicito che postuli il rigoroso e ineludibile rispetto dell’ordine logico-giuridico delle questioni.
5.2.2. L’ordinanza interlocutoria n. 16630/2013 ritiene, difatti, di non prestare piena adesione al principio di diritto affermato nella sentenza n. 14828 del 4 settembre 2012, ove, per un verso, si sostiene che, poiché la risoluzione contrattuale è coerente solo con l’esistenza di un contratto valido, il giudice di merito investito della domanda di risoluzione del contratto ha il potere- dovere di rilevare, previa instaurazione del contraddittorio sulla questione, ogni forma di nullità del contratto stesso; e, per altro verso, si opina che il medesimo giudice di merito possa accertare la nullità incidenter tantum senza effetto di giudicato, a meno che non sia stata proposta la relativa domanda, pervenendo, tuttavia, alla conclusione che il giudicato implicito sulla validità del contratto si forma tutte le volte in cui la causa relativa alla risoluzione sia stata decisa nel merito.
È quanto risulterebbe verificabile anche nell’ipotesi, oggetto della presente controversia, di rigetto della domanda per effetto della “ragione più liquida”, ovvero in conseguenza dell’ esame esclusivo di una questione assorbente, idonea, di per sè sola, a sorreggere la decisione e tale da non richiedere alcuna valutazione sulle questioni concernenti l’esistenza e la validità del contratto. L’ordinanza interlocutoria sollecita invece una ulteriore e più attenta riflessione sul problema se sia o meno possibile rimettere in discussione la validità di un contratto dopo che, in una precedente causa promossa per ottenerne la sua risoluzione (ma analogo quesito è da porsi per le ipotesi di annullamento e di rescissione), il giudice si sia comunque pronunciato nel merito, in assenza di qualsivoglia indagine su un’eventuale invalidità del contratto stesso, senza che la relativa sentenza sia successivamente impugnata. 5.2.3. Si ritiene di generale applicazione il principio secondo il quale l’autorità del giudicato, tendente a impedire un bis in idem e un eventuale contrasto di pronunce, copre il dedotto e il deducibile, vale a dire non solo le ragioni giuridiche dedotte in quel giudizio, ma anche tutte le altre, proponibili in via di azione o di eccezione, le quali, benché non dedotte specificamente, si caratterizzano per la loro inerenza ai fatti costitutivi delle pretese anteriormente fatte valere.
Questo principio di creazione giurisprudenziale rispetta in modo rigoroso l’ordine logico-giuridico delle questioni, portandolo alle sue conseguenze estreme.
Esso poggia sul seguente argomento logico: se il giudice si è pronunciato su di un determinato punto, ha evidentemente risolto in senso non ostativo tutti quelli il cui esame doveva ritenersi preliminare a quello esplicitamente deciso.
5.2.4. La dottrina offre del fenomeno una lettura parzialmente diversa. Quanto alle questioni pregiudiziali di merito, si osserva da più parti che esse sono coperte dal giudicato solo se, per legge o per volontà delle parti, il giudice vi abbia esteso la sua diretta cognizione: diversamente, si tratterebbe di valutazioni rilevanti incidenter tantum.
Secondo altra impostazione, sarebbe sempre e comunque coperta dal giudicato la cd. “pregiudizialità logica” (distinta da quella cd. “tecnica”), che comprende tutte le questioni le cui soluzioni non coerenti con la decisione sul merito ne avrebbero impedito la pronuncia.
Altri, infine, sulla premessa che proprio il rilievo della piena autosufficienza del giudicato esplicito renderebbe inutile la stessa nozione di giudicato implicito, ha messo in discussione la stessa configurabilità di pronunce implicite. In tal senso si è sostenuto che la decisione del giudice “è quella che è, e non quella che sarebbe dovuta essere: se il giudice, dovendo pronunciarsi su un certo requisito, non lo fa, dire che sul punto egli ha emesso una decisione implicita, rappresenta, con ogni evidenza, nient’altro che una finzione; in realtà, l’unica cosa che può correttamente affermarsi è che egli non ha deciso affatto”.
L’argomento logico per il quale se il giudice si è pronunciato su un determinato punto ha evidentemente risolto in senso non ostativo tutti quelli il cui esame doveva ritenersi preliminare a quello esplicitamente deciso, pur apparendo persuasivo, va opportunamente temperato. Non sempre il rispetto dell’ordine logico nella trattazione delle questioni esprime una scelta di efficienza e di coerenza processuale: l’efficienza, la stabilità e la definitiva strutturazione di una decisione dipende invece dal tipo di controversia e dal tipo di decisione che il giudice intende adottare, e costituisce un valore pregnante, ma non assoluto, delle decisioni stesse.
5.2.5. Non bisogna, pertanto, sovrapporre la successione cronologica delle attività di cognizione del giudice con il quadro logico della decisione complessivamente adottata in esito ad esse, all’interno delle quali si collocano i passaggi che portano alla decisione finale.
L’ordine di trattazione delle questioni va infatti distinto dall’ordine di decisione delle stesse.
Il principio trova conferma nel diritto positivo: sia l’art. 276 c.p.c., comma 2, sia l’art. 118 disp. att. c.p.c., comma 2 – del quale le modifiche originariamente apportate dal D.L. n. 69 del 2009, art. 79 sono state poi soppresse in sede di conversione – disciplinano rispettivamente l’attività del collegio e la struttura della motivazione del provvedimento decisorio finale, a conferma della correlazione tra ordine delle questioni e struttura della decisione.
Più in generale, anche a voler prescindere dal dato normativo, non sembra discutibile che il nostro ordinamento processuale contempli un modello di trattazione unitaria, in cui esame sul rito e trattazione del merito si svolgono all’interno dell’unico processo. Una indicazione in tal senso si ricava dall’art. 187 c.p.c., comma 2, che consente la rimessione in decisione della causa in presenza di una questione preliminare di merito: ne’ risulta che, a tal fine, il giudice debba avere previamente accertato l’esistenza dei requisiti processuali. Le questioni preliminari di merito si modulano, invece, assai diversamente dalle pregiudiziali di rito, sempre avuto riguardo al tema dell’ordine logico-giuridico delle questioni, nel senso che non sempre soggiacciono a una rigorosa sequenza logica di trattazione e decisione. L’ordine col quale il giudice ritiene di esaminare e decidere ciascuna di esse in rapporto al medesimo petitum (inteso come bene della vita) deve essere stabilito caso per caso, alla ricerca di un equilibrio tra la discrezionalità di scegliere le questioni da trattare anche in ragione della necessità o meno di istruttoria (e quindi in funzione del principio di economia processuale che sostiene il cd. canone della ragione più liquida) e il principio dispositivo che permea di sè il processo civile. Pertanto, il giudice deve rigettare sic et simpliciter la domanda se la ragione che fonda la decisione non esige alcuna attività istruttoria.
5.3. Alla luce di tali considerazioni, la questione dei limiti oggettivi del giudicato va affrontata escludendo in limine la bontà della tesi, pur suggestiva, che individua nel collegamento dell’art. 1421 con l’art. 2907 c.c. la chiave interpretativa dei rapporti tra nullità e azioni di impugnativa negoziale.
Si sostenuto, con argomentazioni assai persuasivi, che proprio la norma di cui all’art. 2907 c.c., comma 1, nel prevedere una deroga al principio della domanda e nell’imporre al giudice l’obbligo di pronunziare (nei casi tassativamente previsti dalla legge) senza impulso di parte, e al di là dei limiti della domanda stessa, consentirebbe, in considerazione degli interessi superindividuali protetti dalla nullità, una pronuncia ex officio di quel vizio genetico, pur in assenza di espressa domanda.
Si eviterebbe così la dissonanza logica e cronologica tra rilevazione, dichiarazione della nullità ed effetto di giudicato della relativa pronuncia.
5.3.1. Ma si è altrettanto efficacemente replicato in proposito che la statuizione dell’art. 2907 c.c. riconduce la rilevazione officiosa ai casi in cui il giudice può prendere l’iniziativa per una pronuncia estranea al processo in corso (com’era previsto per l’art. 8 l. fall., ante riforma del 2006), quando, cioè, l’impulso d’ufficio non è richiesto per risolvere il merito di quella stessa controversia.
Essa non è dunque riferibile al distinto problema dei poteri del giudice relativi alla controversia promossa dalla parte. Inoltre, sul piano degli strumenti processuali, altro è rilevare la nullità, altro è dichiararla con effetto di giudicato. 5.3.2. Il legislatore, configurando la nullità come oggetto di un’eccezione in senso lato (“il giudice può rilevare d’ufficio”), non l’ha ritenuta meritevole di un’autonoma iniziativa officiosa volta ad un suo pieno accertamento sempre e comunque con effetto di giudicato, pur nel silenzio delle parti, anche se ha nel contempo escluso ogni diretta e immediata correlazione tra l’art. 1421 c.c. e gli artt. 99 e 112 c.p.c.. 5.4. Oggetto del processo, oggetto della domanda giudiziale e oggetto del giudicato risultano allora cerchi sicuramente concentrici, ma le cui aree non appaiono sempre perfettamente sovrapponibili. Gli stessi autori che ne propugnano l’assoluta identità convengono poi con l’affermazione secondo cui la reale portata del giudicato, soprattutto in caso di pronuncia di rigetto, è determinata dai motivi della decisione, ove la controversia abbia riguardato esclusivamente un segmento del più ampio rapporto sostanziale (l’esemplificazione più significativa è quella della domanda di condanna al pagamento di una singola rata, pur oggetto di un più ampio rapporto contrattuale).
La pronuncia di rigetto fondata esclusivamente su motivi attinenti a tale limitata frazione del rapporto (rata non scaduta ovvero non dovuta o prescritta) induce anche i fautori dell’assoluta corrispondenza tra oggetto della domanda, oggetto del processo ed oggetto del giudicato a ritenere che non si sia in presenza di alcuna statuizione vincolante sulla esistenza/inesistenza del rapporto sostanziale, restando tale più vasta questione “assorbita” nel limitato decisum del caso di specie.
5.4.1 L’affermazione va condivisa, con la conseguenza che la perfetta corrispondenza, sempre e comunque, tra gli oggetti, rispettivamente, della domanda, del processo e del giudicato, non appare, ancor oggi, predicabile tout court in assenza di una esplicita previsione legislativa in tal senso.
Se oggetto della domanda (e del processo) sarà sempre il petitum sostanziale e processuale dedotto dall’attore (il pagamento della singola rata dell’obbligazione), anche se ab initio riferito, ipso facto, alla sua causa petendi (il negozio sottostante) – il che obbliga il giudice, pur in assenza di eccezione di parte, a rilevare ex officio eventuali profili di nullità della situazione giuridica sostanziale sottesa alla domanda stessa, valutata nella sua interezza (e cioè del negozio/rapporto sottostante) – non può escludersi che, proprio in forza dei ricordati principi di speditezza, economia e celerità delle decisioni, quel processo abbia termine, senza che la nullità sia dichiarata nel provvedimento decisorio finale, con una pronuncia fondata sulla ragione più liquida di rigetto della domanda (prescrizione, adempimento, mancata scadenza dell’obbligazione), nella consapevolezza di non dovere affrontare, nell’esplicitare le ragioni della decisione, il più vasto tema della validità del negozio, che avrebbe eventualmente imposto una troppo lunga e incerta attività istruttoria. Proprio la facoltà del giudicante di definire il processo celermente, sulla base della ragione più liquida (criterio di cui meglio si dirà in prosieguo) impedisce di affermare la perfetta sovrapponibilità dell’oggetto del processo all’oggetto del giudicato.
5.5. Su tali premesse riposa la risposta alla questione del giudicato implicito sulla “non nullità” negoziale, di cui si rintraccia un sintetico riferimento nella sentenza 14828/2012. Si è rilevato nell’ordinanza di remissione come non appaia del tutto coerente ritenere nel contempo che, in caso di rilevazione e trattazione della questione pregiudiziale sulla nullità del contratto, su di essa non si possa formare il giudicato “a tutti gli effetti”, se non quando sia stata all’uopo proposta espressa domanda di accertamento incidentale ex art. 34, ma che, in caso di rigetto della domanda di risoluzione riconducibile all’accertamento in ordine alla insussistenza dell’inadempimento (o della sua gravità), ciò precluda irrimediabilmente successive azioni volte a far dichiarare la nullità di quel medesimo contratto.
L’aporia potrebbe, peraltro, risultare soltanto apparente. Si legge al punto 2.4 della sentenza del 2012, che il giudicato implicito sulla validità del contratto, secondo il paradigma ormai invalso (cfr. Cass. S.U. 24883/08; 407/11; 1764/11), potrà formarsi tutte le volte in cui la causa relativa alla risoluzione sia stata decisa nel merito, con esclusione delle sole decisioni che non contengano statuizioni che implicano l’affermazione della validità del contratto.
5.6. Il principio di diritto così esposto è stato interpretato da autorevole dottrina nel senso che, ove la motivazione sulla nullità, pur potendo, nessun problema si ponga e nulla dica (accogliendo o respingendo per altre ragioni la domanda proposta), ebbene allora e solo allora essa avrebbe l’attitudine a un giudicato di merito “a monte” sulla questione pregiudiziale del rapporto fondamentale, risultandone così accertata la non nullità del contratto nel suo complesso, anche in vista di ogni successiva e diversa lite e vicenda processuale.
La locuzione finale che si legge al punto 2.4. della sentenza poc’anzi ricordata (forse poco esplicita, perché permeata dell’eco della giurisprudenza formatasi sul giudicato implicito sulla giurisdizione, e dunque su di un giudicato processuale e non di merito), scomposta e semplificata, sembra invece significare che la formazione del giudicato implicito sulla validità del contratto è esclusa per quelle decisioni prive di statuizioni implicanti (e cioè dalle quali implicitamente desumere) l’affermazione della validità del contratto.
Dunque, il giudicato implicito sulla non nullità andrebbe a formarsi con riferimento a quelle sole decisioni contenenti statuizioni che implichino (e dunque non affermino esplicitamente) la ritenuta validità del contratto. La mancanza di statuizioni da cui ricavare, per implicito, un riconoscimento di validità contrattuale sarebbe, pertanto, ostativa al formarsi del giudicato implicito sulla non nullità del negozio.
5.7. Il tema non si presta a soluzioni generalizzate – e men che meno semplicistiche -, ma evoca la necessità di una duplice distinzione, a seconda, cioè, del tipo di sentenza (di accoglimento o di rigetto) pronunciata, e del tipo di comportamento (mancata rilevazione, ovvero rilevazione senza dichiarazione in sentenza) tenuto dal giudice nell’estensione della motivazione.
La questione andrà approfondita, ai fini che occupano il collegio, nel prosieguo della motivazione.
5.8. Così individuati i confini tra oggetto del processo e oggetto del giudicato, costituisce ulteriore e specifico tema di indagine la questione dell’idoneità della pronuncia resa in seguito ad un’azione di impugnativa negoziale a divenire cosa giudicata. La giurisprudenza di questa Corte, con due delle pronunce che, più di altre, l’hanno affrontata funditus, si è espressa in modo non del tutto consonante.
5.8.1. Si legge in Cass. n. 6170 del 2005 che, a norma dell’art. 1421 cod. civ., il giudice deve rilevare d’ufficio le nullità negoziali non solo se sia stata proposta azione di esatto adempimento, ma anche quando sia stata esperita un’azione di risoluzione o di annullamento o di rescissione del contratto, e deve procedere all’accertamento incidentale relativo a una pregiudiziale in senso logico-giuridico (concernente cioè il fatto costitutivo che si fa valere in giudizio), accertamento idoneo a divenire cosa giudicata, con efficacia pertanto non soltanto sulla pronunzia finale ma anche (e anzitutto) circa l’esistenza del rapporto giuridico sul quale la pretesa si fonda.
La sentenza, dopo avere distinto tra questioni pregiudiziali in senso tecnico e questioni pregiudiziali in senso logico – definendo queste ultime come quelle relative ai fatti costitutivi del diritto che si fa valere davanti al giudice – limita l’applicazione dell’art. 34 c.p.c. alle sole questioni pregiudiziali in senso tecnico. Con riferimento ai punti pregiudiziali in senso logico, viceversa, l’efficacia del giudicato coprirebbe, in ogni caso, non soltanto la pronuncia finale, ma anche l’accertamento che si presenti come necessaria premessa o come presupposto logico-giuridico della pronuncia medesima (il cd. giudicato implicito).
La maggiore e più rilevante novità di questa pronuncia, rispetto ad altre decisioni che pure si erano discostate dall’orientamento dominante sul tema della disomogeneità funzionale dell’azione di adempimento rispetto a quelle di risoluzione rescissione ed annullamento, risiede proprio nell’affermazione dell’efficacia di giudicato dell’accertamento incidentale della nullità. A fondamento di tale conclusione, il collegio fece ricorso all’argomento cd. per inconveniens, costituito dal fatto che, a voler escludere il giudicato sull’accertamento della nullità, la parte che ha visto respingere la propria domanda di risoluzione per inadempimento a causa della nullità del contratto potrebbe essere a sua volta convenuta per l’adempimento, correndo in tal modo il rischio di una differente valutazione da parte del giudice della nuova causa, senza potere riproporre a sua volta la domanda di risoluzione. 5.8.2. In senso sostanzialmente opposto, Cass. n. 11356 del 2006 osserverà che la pronunzia di rigetto della domanda di risoluzione del contratto per inadempimento non più soggetta a impugnazione non costituisce giudicato implicito – con efficacia vincolante nei futuri giudizi – là dove del rapporto che ne costituisce il presupposto logico-giuridico non abbiano costituito oggetto di specifica disamina e valutazione da parte del giudice le questioni concernenti l’esistenza, la validità e la qualificazione del contratto. Con la conseguenza che la sentenza di rigetto della domanda di risoluzione adottata sulla base del principio della cd. “ragione più liquida”, ovvero emessa in termini meramente apodittici, senza un accertamento effettivo, specifico e concreto del rapporto da parte del giudice, al punto da risultare evidente il difetto di connessione logica tra dispositivo e motivazione, non preclude la successiva proposizione di una domanda di nullità del contratto, in quanto in tal caso si fanno valere effetti giuridici diversi e incompatibili rispetto a quelli oggetto del primo accertamento, sicché, trattandosi di diritti eterodeterminati (per l’individuazione dei quali è necessario, cioè, fare riferimento ai fatti costitutivi della pretesa che identificano diverse causae petendi), non può ritenersi che all’intero rapporto giuridico, ivi comprese le questioni di cui il primo giudice non abbia avuto bisogno di occuparsi per pervenire alla pronunzia di rigetto, il giudicato si estenda in virtù del principio secondo cui esso copre il dedotto ed il deducibile.
Nella sentenza è ben chiara la contemporanea necessità di garantire una inevitabile estensione oggettiva all’accertamento giurisdizionale e di armonizzare la pronuncia con i confini tracciati dalla domanda concretamente dedotta nel processo (armonizzazione chiovendiana, volta ad un accertamento giurisdizionale vertente sul singolo diritto fatto valere come petitum) e avverte come la radicalizzazione della questione possa condurre a conseguenze eccessive, chiarendo che, se un’estensione della portata oggettiva del giudicato trova fondamento nell’esigenza di evitare la formazione di decisioni definitive contrastanti, di pari dignità appariva l’esigenza di evitarne una dilatazione eccessiva limitando il portato del deducibile. La seconda pronuncia della Corte appare condivisibilmente rivolta alla ricerca di soluzioni non meccanicistiche, e per quanto possibile equilibrate. L’accertamento vincola in altri processi se le parti lo hanno voluto, nel rispetto del principio dispositivo, ovvero se, nel nuovo processo, si discuta di un effetto giuridico non solo dipendente, ma inscindibilmente legato per ragioni di funzionalità sostanziale con l’effetto su cui si è già deciso. Solo questi “nessi di senso giuridico inscindibile” – ad esempio, il valore biunivoco del sinallagma – esigono non tanto un accertamento incidentale ex lege, quanto piuttosto un vincolo selettivo al motivo portante della prima decisione (soluzione che riecheggia da presso la teoria Zeuneriana del vincolo al motivo portante, di cui autorevole dottrina si è fatta sostenitrice in Italia).
5.9. È indiscutibile che il sintagma “limiti oggettivi del giudicato”, specie se riferito a rapporti cd. complessi, evochi situazioni in cui il petitum del processo sia parte di un rapporto giuridico più ampio, e, alla luce di quanto sinora esposto, la soluzione da offrire al tema delle impugnative negoziali non può prescindere dalla necessità di evitare una disarticolazione, tramite il processo, di una realtà sostanziale irredimibilmente unitaria. È altrettanto certo che il principio della domanda e della corrispondenza tra chiesto e pronunciato hanno a loro volta dignità di Generalklauseln nel processo civile.
5.10. La complessa questione è destinata a ricevere soddisfacente soluzione alla luce dell'(ancor più valorizzato in sede legislativa con la riforma del 2009) obbligo del giudice di provocare il contraddittorio sulle questioni rilevabili d’ufficio per tutto il corso del processo (per quel che qui interessa, di primo grado). Un obbligo che trova il suo diacronico fondamento normativo nel combinato disposto delle norme di cui all’art. 183 c.p.c., comma 4, art. 101 c.p.c., comma 2, art. 111 Cost..
5.10.1. L’intervento legislativo del 2009, con la nuova formulazione dell’art. 101, comma 2, non dovrebbe consentire dubbi di sorta: il giudice ha l’obbligo di rilevare la nullità negoziale non soltanto nel momento iniziale del processo, ma durante tutto il suo corso, fino al momento della precisazione delle conclusioni. E sulla rilevanza di tale obbligo, già l’art. 124 c.p.p. 1988 parve esprimere un più generale principio dell’intero universo processuale, non limitato al solo settore penale: l’obbligo pur non cogente dei magistrati di osservare le disposizioni codicistiche anche quando l’inosservanza non comportava alcuna sanzione di nullità, o altra sanzione processuale.
5.10.2. Quanto al contenuto ed alla portata precettiva dell’art. 111 della Carta fondamentale, è stato recentemente osservato da queste stesse sezioni unite (Cass. ss.uu. ord. 10531/2013) come il principio della rilevabilità d’ufficio delle eccezioni in senso lato appaia funzionale ad una concezione del processo forse troppo semplicisticamente definita come pubblicistica, ma che, ad una più attenta analisi, trae linfa applicativa proprio nel valore di giustizia della decisione (lo stesso testo dell’art. 183, nel disegno di legge originario, prevedeva la possibilità di modificare la domanda solo tenendo ferma l’allegazione dei fatti storici, ma la formula venne abbandonata proprio per la rigidità che avrebbe conferito al sistema, ostacolando ogni allegazione nuova, ancorché volta a valorizzare risultanze acquisite agli atti). Per altro verso, l’introduzione di un sistema rigido di preclusioni ha reso più vivo il senso dell’obbligo del giudice di indicare alle parti le questioni rilevabili d’ufficio, obbligo che si traduce in una tecnica di conduzione del processo che ne impone oggi la indicazione ben prima del maturare delle preclusioni istruttorie – che prima dell’introduzione dell’art. 101 comma 2 sembravano porsi come assolutamente ostative a un ampliamento del thema decidendum. 5.11. All’interrogativo circa i rapporti che, all’esito della rilevazione officiosa del giudice, corrono tra la domanda di nullità proposta dalla parte e quella originaria, è agevole rispondere come poco rilevante sia discorrere di mutatio libelli vietata ovvero di emendatio consentita. Di per sè considerata, la domanda di nullità riveste un indiscutibile carattere di novità, se diviene oggetto di una richiesta di accertamento a seguito del rilievo officioso del giudice.
Ma tale novum processuale non potrà più esser destinato a cadere sotto la scure delle preclusioni imposte dall’art. 183 c.p.c. post riforma del 1995. Non si tratta, infatti, di consentire all’istante una tardiva resipiscenza processuale, bensì di riconoscere un senso ad un itinerario processuale che, nell’ambito della corretta dialettica tra le parti e il giudice, consente di pervenire a un effettivo e definitivo accertamento in relazione a una questione emersa per la prima volta, sia pur ope iudicis, in una qualsiasi fase del giudizio.
5.11.1. Sarebbe, d’altronde, un evidente paralogismo ritenere tempestiva una domanda nuova quando tale esigenza nasca dalla riconvenzionale o dalle eccezioni sollevate dal convenuto, e non anche quando essa tragga origine da una rilevazione officiosa obbligatoria (si badi, oggi a pena di nullità della sentenza), imposta al giudice a fini di completezza dell’accertamento e di giustizia della decisione lungo tutto il corso del processo di primo grado, anche in attuazione di evidenti esigenze di economia processuale.
5.11.2. E se la rilevazione d’ufficio della nullità realizza tra i suoi principali effetti l’instaurazione del contraddittorio, sembra assai arduo sostenere che tale stimolo officioso non possa risolversi nella ammissibilità della formulazione delle corrispondenti domande anche oltre il limite degli atti introduttivi.
All’esito della rilevazione officiosa in sede di riserva della decisione, l’attore avrà ben più interesse a proporre (anche in via incidentale) una domanda di accertamento, anziché limitarsi a illustrare le eventuali ragioni che, a suo giudizio, depongono nel senso della validità del contratto. Ne deriva che, se la nullità venisse poi esclusa dal giudice nel provvedimento decisorio finale di merito, egli si troverebbe a disporre di un accertamento di non- nullità dell’atto (idoneo a diventare cosa giudicata) opponibile al convenuto in qualsiasi altra occasione, mentre la dichiarata nullità del contratto a seguito di domanda di accertamento (pre)costituirebbe un titolo idoneo a paralizzare eventuali, successive pretese del convenuto fondate su quel medesimo contratto.
5.11.3. Il nuovo art. 101, comma 2 conferma tale conclusione e impone una interpretazione dei poteri delle parti estesa alla facoltà di proporre domanda di nullità (e spiegare la conseguente attività probatoria) all’esito della sua rilevazione officiosa nel corso di giudizio sino alla precisazione delle conclusioni.
5.11.4. È questo l’unico possibile significato da attribuire al sintagma “memorie contenenti osservazioni sulla questione”, oltre a quello di consentire al giudice una migliore ponderazione della rilevanza assorbente della stessa nella decisione della causa. Che, se il contenuto di tali memorie dovesse limitarsi a un’attività solo assertiva (come quella riservata, invece, all’interveniente adesivo dipendente, ex art. 268 c.p.c.: Cass. n. 15787 del 2005), si tornerebbe, in buona sostanza, alle sentenze “della terza via” ante- riforma, poiché quelle “osservazioni” non risulterebbero in alcun modo funzionali a coniugare il diritto di difesa delle parti con quelle esigenze di economia processuale che costituiscono, invece, la ratio dell’art. 101, comma 2.
5.11.5 La norma di cui si discorre consente, invece, una proposizione formalmente “tardiva” della domanda di accertamento. 5.11.6. Così rettamente interpretato il nuovo itinerario endoprocessuale disegnato dalla riforma del 2009, perdono in larga misura di significato molte delle riserve e delle obiezioni mosse all’idoneità di una pronuncia a costituire cosa giudicata anche a prescindere dalle conclusioni rassegnate dalle parti, e salvo le eccezioni che di qui a poco si esploreranno.
5.12. Non sembra, peraltro, che tale facoltà sia destinata ad operare in guisa di conversione, sia pure consentita ex lege, della domanda originaria, ponendosi piuttosto una questione di ordine decisorio tra domande.
5.12.1. La parte, difatti, potrà:
– rinunciare alla domanda originaria e coltivare la sola actio nullitatis, così che non di conversione ne’ di modificazione della domanda originaria par lecito discorrere, ma di vera e propria autonoma domanda di accertamento conseguente al rilievo officioso del giudice.
– coltivare entrambe le istanze, mantenendo ferma, a fianco alla domanda di accertamento (principale o incidentale ex art. 34), quella inizialmente proposta (adempimento, risoluzione, rescissione, annullamento, revoca, scioglimento del contratto), per l’ipotesi che l’accertamento della nullità dia esito negativo, e che il contratto risulti alfine valido, una volta espletata l’istruzione probatoria indotta dall’attività di rilevazione ex officio. Anche in tal caso, si assisterà ad un fenomeno non già di conversione, ma di cumulo (subordinato o alternativo) di domande – così che, evaporata la questione di nullità, il giudice dovrà pur sempre decidere della domanda originaria.
5.13. Perde così definitivamente di consistenza la questione della novità della domanda di accertamento della nullità, novità che, in dottrina, viene opportunamente esclusa anche “in virtù della sua forte portata sistematica”. La ammissibilità della sua proposizione risulta, difatti, del tutto speculare alla (eventuale) tardività della rilevazione officio iudicis, poiché da essa finisce per trarre legittimità e fondamento. E altrettanto opportuna appare la riflessione secondo cui la questione non è rappresentata dalla novità, quanto dalla “complanarità” tra domande conseguenti ad una questione pregiudiziale rilevata ex officio.
5.13.1. L’efficacia del contemperamento tra attività officiosa di rilevazione/dichiarazione della nullità da parte del giudice, poteri delle parti ed idoneità all’effetto di giudicato della pronuncia si coglie, su di un piano effettuale, anche sotto il profilo della trascrizione.
5.13.2. Proprio dalla disciplina dell’istituto di pubblicità dichiarativa può desumersi il diverso interesse delle parti a introdurre o meno una domanda, incidentale o principale, di accertamento della nullità a seguito della relativa rilevazione officiosa.
Anche nei casi in cui la nullità dichiarata nella motivazione della decisione sia “catturata” nella regiudicata, ciò non significa che essa sarà opponibile indifferentemente a tutti i terzi, atteso che il regime di opponibilità varia a seconda che un vizio del contratto sia fatto valere mediante la proposizione di una domanda (anche riconvenzionale) ovvero in via di eccezione o d’ufficio. 5.13.3. L’art. 2652 cod. civ., nel disciplinare la trascrizione delle domande giudiziali, prevede l’operare della efficacia del meccanismo pubblicitario cd. prenotativo nel solo caso della sentenza che accoglie la domanda – mentre le dichiarazioni giudiziali di nullità, annullamento, risoluzione, rescissione o revoca sono soggette, ai sensi dell’art. 2655 cod. civ., a semplice annotazione in margine alla trascrizione o iscrizione dell’atto, con effetto a valere dal momento della formalità.
Pertanto, se l’attore abbia domandato la risoluzione /rescissione /annullamento del negozio, ma il giudice, accertata d’ufficio la nullità del contratto, rigetti la domanda, il conflitto fra l’attore e i terzi aventi causa dalla parte convenuta (che medio tempore abbiano acquistato un diritto incompatibile con quello dell’attore), quand’anche abbiano trascritto il loro titolo dopo la trascrizione della domanda originaria, viene risolto a favore degli aventi causa dal convenuto, a differenza di quanto accadrebbe in caso di sentenza di accoglimento. L’accertamento d’ufficio della nullità, pur ammettendone la “annotabilità” ex art. 2655 cod. civ. (la norma discorre, difatti, genericamente, di sentenza dichiarativa di atto nullo) non sarà comunque loro opponibile. In tal caso, al soggetto interessato a rendere opponibile la nullità del contratto in parola a tali terzi non resterebbe che proporre in un nuovo giudizio una domanda di accertamento della nullità, facendo valere il giudicato implicito che si è formato nel precedente giudizio in forza del rilievo d’ufficio e avendo cura di trascrivere tale domanda non oltre cinque anni dalla trascrizione dell’atto nullo (ex art. 2652 c.c., n. 6). Appare allora evidente l’ulteriore profilo di interesse della parte a chiedere al giudice l’accertamento della nullità con effetto di giudicato sul punto nel primo processo, onde munirsi di un titolo immediatamente trascrivibile: il verbale o l’atto processuale contenente la domanda così formulata nel corso del processo sarebbe, difatti, trascrivibile quale “domanda diretta a far dichiarare la nullità” dell’atto trascritto.
5.14. Prima di trarre conclusioni definitive sull’idoneità all’effetto di giudicato della pronuncia che abbia rilevato una causa di nullità negoziale dichiarandola nella sentenza – del tutto analogo è il discorso con riferimento all’ordinanza ex art. 702-ter c.p.c. -, è necessario interrogarsi sui rapporti tra giudicato implicito e ordine logico delle questioni di merito.
5.14.1. La rilevanza degli aspetti strutturali di una decisione – e conseguentemente dell’ordine di trattazione delle questioni – va apprezzata ancora una volta con uno sguardo di sistema, che vede il processo civile scandire il suo itinerario dai principi di conservazione, conseguimento dello scopo, economicità, ai quali si affiancano le regole sulle preclusioni e l’acquiescenza, nel rispetto dei canoni costituzionali di giustizia (giusto processo e giusta decisione), di ragionevole durata, di rispetto del contraddittorio. Il legislatore non lascia il giudice privo di riferimenti normativi. Le regole maggiormente significative al riguardo vanno desunte dagli artt. 132, 276, 277 e 279 c.p.c., nonché artt. 118 e 119 relative disp. att. c.p.p..
Si noterà come la legge pare indicare un ordine preciso nella trattazione delle questioni: l’approccio per fasi alla decisione finale è direttamente scandito dall’art. 276 (deliberazione), ma è desumibile anche dall’art. 279 (forma dei provvedimenti del collegio, anche se la rubrica suona al giorno d’oggi al tempo stesso anacronistica e recessiva).
5.14.2. Com’è noto, tale ordine prevede l’esame dapprima delle questioni pregiudiziali, poi del merito della causa (art. 276, comma 2); fra le prime, la precedenza è accordata alle questioni relative alla giurisdizione e alla competenza, poi alle pregiudiziali di rito, indi alle preliminari di merito, infine al merito in senso stretto (art. 279, comma 1, nn. 1, 2 e 3).
5.14.3. La previsione di un tale ordine non è mai stata ritenuta espressione della imposizione di una sequenza obbligata dalla quale il giudice non possa discostarsi in base alle esigenze volta a volta emergenti.
Anche il più logico dei criteri assunti può dover essere adeguato alla fattispecie concreta dedotta in giudizio.
Ne risulta confermata la tesi secondo cui, se, in linea generale, è indubbio che le questioni pregiudiziali (o impedienti o assorbenti) debbano essere esaminate prima di quelle da esse dipendenti, i parametri operativi ben possono essere molteplici, e quell’ordine è suscettibile di essere sovvertito. Tali parametri sono costituiti dalla natura della questione, dalla sua idoneità a definire il giudizio, dalla sua maggiore evidenza (cd. liquidità), dalla sua maggiore preclusività, dalla volontà del convenuto. 5.14.4. Non è questa la sede per indagare funditus sulle formule pregiudizialità e preliminarità. È sufficiente distinguere, per quanto è qui di interesse, tra questioni riguardanti il rito e questioni attinenti alla fattispecie sostanziale dedotta in giudizio, aventi ad oggetto sia elementi estintivi, modificativi, impeditivi, sia elementi relativi alla integrità della fattispecie stessa. La risoluzione delle prime è funzionale a eliminare gli impedimenti che si frappongono all’accertamento della fondatezza della domanda. Le seconde svolgono una funzione strumentale e preparatoria. 5.14.5. Sotto tale profilo, la pregiudizialità delle questioni processuali assume un significato diverso da quella delle questioni di merito. La base positiva è offerta non soltanto dall’art. 187 c.p.c., commi 2 e 3 e art. 279, comma 2, ma soprattutto dall’art. 276 c.c., comma 2, ai sensi del quale “il collegio, sotto la direzione del presidente, decide gradatamente le questioni pregiudiziali proposte dalle parti o rilevabili d’ufficio e quindi il merito della causa”.
La disposizione è riferita non solo alla ipotesi di rimessione in decisione ad istruttoria completa, ma anche a quella provocata da una questione preliminare di merito, se l’art. 189, comma 2 dispone che “la rimessione investe il collegio di tutta la causa, anche quando avviene a norma dell’art. 187, commi 2 e 3”.
La necessità di rispettare l’ordine delle questioni rito/merito ha, così, quale unica conseguenza la inammissibilità di un rigetto della domanda sia per motivi di rito che di merito: dall’avvenuta verifica della insussistenza del requisito processuale discende sempre l’impossibilità di pervenire anche ad una statuizione sul merito.
5.14.6. L’assunto della inossidabile primazia del rito rispetto al merito va poi disatteso alla luce di una recente giurisprudenza di questa stessa Corte (ex aliis, Cass. ss.uu. 15122/2013), evocativa del pensiero di autorevole dottrina.
5.14.7. Maggiore liquidità della questione significa, in particolare, che, nell’ipotesi del rigetto della domanda, occorre dare priorità alla ragione più evidente, più pronta, più piana, che conduca ad una decisione indipendentemente dal fatto che essa riguardi il rito o il merito. Alla base di tale criterio – inutile sottolinearlo ancora – vi è un’evidente esigenza di una maggiore economia processuale, poiché la sua applicazione consentirà di ridurre l’attività istruttoria e quella di stesura della motivazione.
Così riducendo i tempi del processo.
5.14.8. Maggiore preclusività della questione equivale a sua volta ad una migliore economia processuale: tra più ragioni di rigetto della domanda, il giudice dovrebbe optare per quella che assicura il risultato più stabile (tra un rigetto per motivi di rito e uno per ragioni afferenti al merito, il giudice dovrebbe scegliere il secondo).
5.14.9. Volontà del convenuto sarà, di regola, quella volta a ottenere una pronuncia di rigetto che sia quanto più preclusiva di altri giudizi, al fine di non vedersi esposto alla reiterazione di pretese da parte dell’attore, anche se tale regola conosce una importante variabile, rappresentata proprio dalla rilevabilità d’ufficio di una determinata questione: in tal caso, infatti, non basterebbe la volontà del convenuto ad invertire l’ordine logico delle questioni, attraverso la richiesta di subordinazione dell’una all’altra.
5.15. La rilevazione officiosa della nullità da parte del giudice non è, quindi, soggetta ad alcun vincolo preclusivo assoluto, quanto alla sua trattazione ed al relativo ordine che ne consegue.
5.16. All’esito della ricognizione che precede, possono affermarsi i seguenti principi:
– La nullità deve essere sempre oggetto di RILEVAZIONE/INDICAZIONE da parte del giudice;
– La nullità può essere sempre oggetto di DICHIARAZIONE /ACCERTAMENTO da parte del giudice;
– L’espresso accertamento contenuto nella motivazione della sentenza sarà idoneo a produrre, anche in assenza di un’istanza di parte (domanda o accertamento incidentale) L’EFFETTO DI GIUDICATO sulla nullità del contratto in mancanza di impugnazione sul punto;
– La mancanza di qualsivoglia rilevazione/dichiarazione della nullità in sentenza è idonea, in linee generali ma non in via assoluta, e non senza eccezioni – come di qui a breve si dirà – a costituire GIUDICATO IMPLICITO SULLA VALIDITÀ DEL CONTRATTO.
6. LA RICOSTRUZIONE SISTEMATICA DELLE AZIONI DI IMPUGNATIVA NEGOZIALE.
6.1. Prima di procedere alla elaborazione di una sorta di “quadro sinottico” (infra, sub 7) delle diverse ipotesi in cui la nullità negoziale rileva e spiega influenza in seno al processo, è necessario affrontare il tema dei rapporti (di omogeneità ovvero di eterogeneità) tra tutte le azioni di impugnativa negoziale. 6.1.1. La giurisprudenza di questa Corte, benché non sempre consapevolmente, ne ha quasi sempre accomunate le sorti, anche se la sentenza 14828/2012, sia pur soltanto a livello di obiter dictum, sembrò voler indicare, più pensosamente, la strada di una possibile differenziazione tra azioni di adempimento e di risoluzione da un canto, e azioni cd. “demolitorie” (rescissione, annullamento) dall’altro.
6.2. L’utilità sistematica di una soluzione predicativa dell’omogeneità funzionale e di disciplina tra tutte le azioni di impugnativa negoziale si desume, peraltro, dalla analisi dei rispettivi caratteri morfologici, da esaminarsi (anche) sul piano sostanziale, come emergerà dalle considerazioni che seguono.
a) L’azione di risoluzione
6.3. Con il revirement di cui a Cass. ss.uu. 14828/01 2 si ammette in via definitiva il potere/dovere del giudice di rilevare d’ufficio la nullità in presenza di un’azione di risoluzione contrattuale, e si mette a nudo il fraintendimento determinato in parte qua dalla pretesa violazione dei principi della domanda e della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, valorizzando ad abundantiam, ma del tutto opportunamente, il principio della collaborazione fra il giudice e le parti, sostanzialmente prescritto dall’art. 183, comma 4, oltre che formalmente indicato dall’art. 88 codice di rito. 6.4. È convincimento del collegio che tale soluzione sia da confermare tout court, specificando che essa deve ritenersi applicabile a tutte le ipotesi di risoluzione, e non soltanto a quella per inadempimento, oggetto di esame nella sentenza del 2012. 6.4.1. La rilevazione officiosa della nullità può, infatti, avere ingresso anche nel giudizio avente ad oggetto la risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta, attesa la facoltà alternativa di reductio ad aequitatem riconosciuta, ex art. 1467, comma 3, al contraente interessato comunque alla conservazione del contratto – reductio ovviamente non consentita in ipotesi negozio nullo.
La legittimità di tale rilevazione ex officio appare altrettanto necessaria in caso di domanda di risoluzione per impossibilità sopravvenuta, perché se è vero che si è comunque in presenza di uno scioglimento di diritto del contratto – onde l’automaticità dell’effetto ablativo/liberatorio dovrebbe indurre ad escludere la rilevabilità officiosa -, non è meno vero che l’accertamento della oggettività ed inevitabilità dell’evento, ovvero dell’eventuale parzialità della sopravvenuta impossibilità, o ancora dell’eventuale necessità di individuazione del momento della specificazione e della consegna della res e della conseguente traslazione del rischio, potrebbero richiedere lunghi e defatiganti accertamenti processuali, mentre la quaestio nullitatis potrebbe essere risolta de plano e in tempi assai rapidi. Nè vanno trascurate le differenze di effetti costituiti dai profili risarcitori/restitutori delle rispettive declaratorie conseguenti all’uno o all’altro accertamento (si pensi al contratto di prestazione d’opera professionale stipulato tra un ente locale e un progettista, nullo per difetto di forma scritta ma del quale sia chiesta la risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta dell’opus publicum: è evidente che eventuali questioni risarcitorie e/o di indebito arricchimento riceveranno soluzioni diverse a seconda che, di quel contratto, si disponga la risoluzione ovvero si dichiari la nullità).
In tutti i casi di risoluzione contrattuale, inoltre, la incongruità di una soluzione che consenta la risoluzione di un contratto nullo e l’insorgere di un eventuale obbligo ancillare di risarcimento rispetto a un titolo inefficace ab origine impone di ritenere sempre e comunque rilevabile ex officio la nullità del negozio.
6.5. La questione posta dall’ordinanza di rimessione in ordine al giudicato sulla non-nullità negoziale merita, invece, una più approfondita riflessione, che condurrà (si anticipa sin d’ora) ad una soluzione che, pur nel solco delle argomentazioni svolte funditus dalla sentenza del 14828/2012, in parte dovrà discostarsene.
b) L’annullamento e la rescissione.
6.6. Si pone al collegio la ulteriore questione della necessità di procedere, o meno, ad una radicale distinzione tra l’azione di risoluzione e le azioni cd. demolitorie del vincolo contrattuale rispetto alla rilevabilità ex officio della nullità negoziale. 6.6.1. La stessa sentenza del 2012 mostra, difatti, di dubitare, non senza ragione, della correttezza di una soluzione che estenda i principi adottati per l’adempimento e la risoluzione anche a alle azioni di annullamento e di rescissione.
6.6.2. La questione è stata, come già ricordato, oggetto di rimessione a queste sezioni unite.
6.6.3. L’ordinanza interlocutoria n. 21083/2012 muove, difatti, dalla premessa secondo cui, nella sentenza del 4 settembre 2012, n. 14828, si afferma testualmente che la soluzione adottata in tema di risoluzione non sarebbe con altrettanto nitore ravvisatile nel caso di azione di annullamento. Aggiunge, in proposito, il collegio remittente che alcuni autori, nell’indagare la tematica che ci occupa e più in generale la funzione dell’azione di nullità, hanno evidenziato che la rilevazione incidentale della nullità è doverosa nei casi di azione per l’esecuzione o la risoluzione del contratto, ma non nel caso in cui siano allegati altri vizi genetici, come avviene nell’azione di annullamento. La relativa domanda non postula la validità del contratto, sicché, sebbene la tradizione giurisprudenziale e dottrinale dell’orientamento favorevole al rilievo d’ufficio apparenti le ipotesi di risoluzione, annullamento e rescissione, andrà a suo tempo verificato se sussistono i presupposti per questa equiparazione.
Con la pronuncia del 2012 si ritenne opportuno – volutamente, nel rispetto della specifica quaestio facti concretamente posta alle sezioni unite della Corte – lasciare impregiudicato il problema della estensibilità anche alle ipotesi di annullamento (o di rescissione) dei principi enunciati in tema di rapporti tra domanda di risoluzione e rilievo di ufficio della nullità del contratto, pur lasciando intendere che, con riferimento alle prime, il modello argomentativo adottato per la seconda non sarebbe stato facilmente replicabile. 6.6.4. Peraltro, l’ordinanza interlocutoria sottolinea ancora come, nella giurisprudenza di questa Corte, le ipotesi di risoluzione, annullamento o rescissione di un contratto siano state solitamente (quanto acriticamente e) accomunate tra loro, pur riferendosi la quasi totalità dei precedenti giurisprudenziali ad ipotesi in cui risultava proposta l’azione di risoluzione. Proprio alla luce di tale giurisprudenza, la precedente ordinanza interlocutoria, del 28 novembre 2011, n. 25151, cui aveva fatto seguito la sentenza 14828/2014, indicò come più ampia questione da risolvere, rispetto a quella poi decisa, se la nullità del contratto possa essere rilevata d’ufficio non solo allorché sia stata proposta domanda di esatto adempimento, ma anche allorché sia stata domandata la risoluzione, l’annullamento o la rescissione (equiparandosi alla risoluzione lo scioglimento da parte del curatore ai sensi della legge fall., art. 72) del contratto stesso. 6.6.5. Si individuò, in particolare, come uno dei termini del contrasto giurisprudenziale, la pronuncia di cui a Cass. 2.4.1997, n. 2858, intervenuta in relazione ad una domanda di annullamento del contratto.
La Corte ritenne che la domanda di annullamento, allo stesso modo di quella di risoluzione, presupponesse, in realtà, la validità del contratto, facendosi valere con essa un diritto potestativo di impugnativa contrattuale nascente dal contratto, non meno del diritto all’adempimento. E poiché la validità del contratto è il presupposto anche della domanda di annullamento, il rilievo officioso della nullità da parte del giudice non eccedeva, per l’una come per l’altra, il principio sancito dall’art. 112 cod. proc. civ.. 6.6.6. L’ordinanza interlocutoria esporrà ancora le principali ricostruzioni dottrinali in materia: da quella secondo la quale nullità ed annullabilità possono coesistere rispetto a una medesima fattispecie concreta, avendo entrambe la stessa funzione di eliminare ex tunc gli effetti negoziali (così che il giudice non potrebbe porre a base della sua pronuncia un fatto impeditivo differente da quello dedotto dalla parte senza cadere nella sostituzione d’ufficio della domanda proposta), a quella per cui la perdurante efficacia fino alla pronuncia di annullamento, dotata di effetto costitutivo, imporrebbe di ritenere che l’annullabilità sia oggetto di un diritto potestativo. E l’utilità del suo esperimento verrebbe meno, per mancanza dell’oggetto nell’ipotesi di nullità del negozio, senza che sia possibile riscontrare una significativa differenza fra azione di nullità ed azione di annullamento.
In tale prospettiva, è stato ancora affermato che, per rispettare il principio della domanda, il giudice non potrebbe “dichiarare” la nullità con effetti di giudicato, ma solo rilevarla incidenter tantum.
Viene infine riportata l’opinione secondo cui, mentre la validità e l’esistenza del contratto sono presupposti non solo da chi ne chiede l’adempimento, ma anche da chi ne domanda la risoluzione o la rescissione, la domanda di annullamento del contratto non ne presuppone tanto la validità, quanto l’inidoneità a produrre effetti, sicché la fattispecie dell’annullamento si differenzierebbe da tutte le altre azioni di impugnativa negoziale.
6.7.1 La questione posta dall’ordinanza di rimessione 21083/01 2 evoca, dunque, le perplessità sollevate incidenter tantum dalla sentenza 14828/01 2, le stesse che autorevole dottrina ha ritenuto in più occasioni di manifestare in subiecta materia.
6.7.1. In particolare, si è sostenuto che la proposizione di un’azione a carattere demolitorio (annullamento/rescissione) non consentirebbe il rilievo d’ufficio della nullità, avendo essa stessa il medesimo scopo di “annientamento” del contratto, ed avendo l’annullamento e la rescissione ad oggetto l’azione stessa;
precisandosi peraltro che, in tema di rescissione, doveva darsi conto dell’esistenza di una peculiare ipotesi nella quale si ammette il potere-dovere del giudice di procedere al rilievo officioso della nullità, e cioè quella della nullità per violazione di norme imperative con conseguente sostituzione della clausola invalida con quella prevista per legge, ossia quando sia proprio la prima a determinare “le condizioni inique” ex art. 1447, ovvero la sproporzione tra prestazioni”, ex art. 1448. In tal caso il giudice, rilevata la nullità della clausola e preso atto della sua sostituzione ex lege, dovrebbe riconoscere il venir meno dei presupposti dell’azione di rescissione e rigettare la domanda. 6.7.2. Altra dottrina ha proposto una ulteriore distinzione tra azione di rescissione (ritenuta omologabile quoad effecta a quella di risoluzione) e domanda di annullamento, della quale si afferma, viceversa, la incompatibilità con il rilievo officioso della nullità contrattuale.
In tema di rescissione – si osserva – l’art. 1450 c.c., attribuendo al convenuto il potere di evitare la caducazione dell’atto con l’offerta di una modificazione idonea a ricondurlo ad equità, finirebbe per garantire forza vincolante al contratto nullo. La differente disciplina della rilevabilità officiosa si fonderebbe, pertanto, sulla radicale differenza che, sul piano sostanziale, caratterizza il vizio che colpisce il contratto annullabile (il vulnus arrecato all’integrità del consenso) rispetto a quello rescindibile.
6.8. Entrambe le tesi postulano, dunque, una ulteriore frammentazione funzionale delle azioni di impugnativa negoziale.
6.8.1. Entrambe le tesi tralasciano, però, di considerare l’esistenza di altre speculari norme di sistema, il cui contenuto e la cui comune ratio non sembrano consentire la soluzione della irrilevabilità officiosa della nullità contrattuale in presenza di azioni di impugnativa negoziale diverse da quelle di adempimento e di risoluzione.
6.8.2 Non è questa la sede per affrontare la delicatissima problematica delle azioni costitutive, e della possibilità di configurarne una categoria unitaria. Ma un definitivo riconoscimento dell’omogeneità funzionale delle azioni di impugnativa negoziale appare al collegio una conseguenza inevitabile, una volta esclusa la fondatezza della tesi che considera oggetto dell’azione di annullamento non già le situazioni soggettive sostanziali sorte dal contratto, bensì il diritto potestativo di annullamento (sostanziale, ovvero a necessario esercizio giudiziale).
6.9. All’accoglimento di una tesi improntata al criterio del distingue frequenter, difatti, sembrano frapporsi ostacoli tanto di tipo strutturale, costituiti dall’esistenza un vero e proprio plesso di norme “di sistema”, la cui ratio appare del tutto omogenea e del tutto analoga a quella dell’art. 1450 c.c., quanto di tipo funzionale, destinati a spiegare influenza sulle conseguenze di un eventuale predicato di non rilevabilità officiosa della nullità in presenza di una domanda di annullamento e/o di rescissione. La questione da risolvere, difatti, non è il pregiudiziale accertamento della originaria efficacia dell’atto, una volta promossa l’azione di rescissione/annullamento, per le ragioni già esposte in ordine alla insoddisfacente ricostruzione delle impugnative negoziali come espressione di diritti potestativi.
6.9.1. Sul piano strutturale, e circoscrivendo l’analisi allo stretto ambito codicistico, gli ostacoli alla teoria della frammentazione sono costituiti, oltre che dall’art. 1450, dagli artt. 1432 e 1446 c.c. (a tacere dell’art. 1815 c.c., comma 2, norma, peraltro, specificamente settoriale dettata in tema di nullità parziale). Le disposizioni in parola costituiscono l’esatto pendant dell’art. 1467 c.c., dettato in tema di risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta. E se appare comunemente assurdo ritenere che il convenuto in un giudizio risolutorio possa evitare la caducazione del contratto nullo offrendo di modificarne equamente le relative condizioni, è altrettanto impensabile che questo possa accadere per un negozio rescindibile o annullabile. L’art. 1450 dispone: il contraente contro il quale è domandata la rescissione può evitarla offrendo una modificazione del contratto sufficiente per ricondurlo ad equità.
L’art. 1432 stabilisce: la parte in errore non può domandare l’annullamento del contratto se, prima che ad essa possa derivarne pregiudizio, l’altra offra di eseguirlo in modo conforme al contenuto ed alle modalità del contratto che quella intendeva concludere. È appena il caso di aggiungere che, in entrambe le ipotesi, tale offerta può intervenire tanto in via stragiudiziale, prima che un’azione di rescissione/annullamento sia stata introdotta dinanzi al giudice, quanto in sede giudiziaria, banco iudicis e a lite in corso. Pur in assenza di una disposizione analoga al 143 del BGB (secondo la quale l’effetto di annullamento è ricollegato all’atto di parte anziché alla pronuncia del giudice), sarà comunque la parte a porre fine alla controversia e ad ogni possibile accertamento sulla nullità del contratto.
L’art. 1446 recita: nei contratti plurilaterali l’annullabilità che riguarda il vincolo di una sola delle parti non importa annullamento del contratto, salvo che la partecipazione di questa debba, secondo le circostanze, considerarsi essenziale.
Di tali disposizioni appaiono indiretto, ma significativo corollario l’art. 1430, che prevede la rettificabilità del negozio viziato da errore di calcolo, e l’art. 1440, dettato in tema di dolo incidente per l’ipotesi in cui i raggiri non siano stati determinanti del consenso, con obbligo di risarcimento dei danni per il contraente in mala fede.
6.9.3. Quanto alle residue ipotesi di annullabilità (dolo causam dans, violenza morale, incapacità), le disposizioni contenute negli artt. 1434, 1435, 1436, 1437, 1438 e 1439 sono tali da imporre una serie di accertamenti di fatto che potrebbero risultare assai complessi e defatiganti (il carattere ingiusto e notevole del male minacciato; le qualità e le condizioni soggettive del minacciato; la provenienza e la rilevanza della violenza diretta contro terzi diversi dai prossimi congiunti; la rilevanza determinante e non soltanto incidente dei raggiri; gli artifici usati dal terzo a beneficio del deceptor e la loro necessaria conoscenza da parte di quest’ultimo; le cause e l’entità dello stato temporaneo e transeunte di incapacità), ma che perderebbero ipso facto ogni rilevanza processuale una volta rilevata de plano la eventuale nullità del contratto ex art. 1421 c.c..
6.9.4. Le disposizioni di legge poc’anzi citate costituiscono un vero e proprio sottosistema normativo, sicuramente omogeneo, la cui univoca ratio consiste nel riconoscimento della facoltà di paralizzare l’impugnativa negoziale della controparte che lamenti l’errore (essenziale e riconoscibile), il raggiro (determinante del consenso), la violenza morale (ingiusta e notevole), l’approfittamento dello stato di bisogno.
Ciò in evidente sintonia con quanto previsto in costanza di giudizio di risoluzione per inadempimento o eccessiva onerosità sopravvenuta. Se il potere di paralizzare l’azione di annullamento o di rescissione attraverso l’offerta banco iudicis di una efficace reductio ad aequitatem del contratto è destinato a stabilizzarne definitivamente l’effetto negoziale non prohibente iudice (o addirittura nell’inerte silenzio del giudice), la originaria nullità di quella convenzione deve porsi, invece, in termini assolutamente impeditivi del perdurare di un effetto mai nato, e come tale irredimibilmente ostativo all’attuazione dell’originario programma contrattuale. Se al giudice fosse impedito l’esercizio del proprio potere officioso ex art. 1421 c.c., difatti, la reductio ad aequitatem si risolverebbe nella definitiva stabilizzazione dei (non) effetti dell’atto, in guisa di sanatoria negoziale diversa dalla conversione, che resta invece l’unica forma di possibile “sanatoria” di un negozio nullo. Nè vale obiettare che, in un successivo giudizio, la nullità di quel negozio potrebbe sempre essere fatta autonomamente valere. A tacere dei differenti effetti in tema di trascrizione e di diritti dei terzi, di cui è cenno in precedenza, tale soluzione sarebbe in insanabile contraddizione con quanto sinora si è andato esponendo sul tema dell’oggetto del processo, dei valori funzionali ad esso sottesi, della stabilità ed affidabilità delle decisioni giudiziarie.
6.9.5. Sul piano funzionale, un ulteriore e non meno rilevante coacervo normativo si erge ad ostacolo insuperabile per la teoria della frammentazione.
L’art. 1443 dispone che, se il contratto è annullato per incapacità di uno dei contraenti, questi non è tenuto a restituire all’altro la prestazione ricevuta se non nei limiti in cui è stata rivolta a suo vantaggio;
L’art. 1444 prevede che il contratto annullabile possa essere convalidato dal contraente al quale spetta l’azione di annullamento mediante un atto che contenga la menzione del contratto, del motivo di annullabilità e la dichiarazione che si intende convalidarlo;
L’art. 1445 dichiara impregiudicati i diritti acquistati a titolo oneroso dai terzi di buona fede dalla pronuncia di annullamento (che non dipenda da incapacità legale) salvi gli effetti della trascrizione della relativa domanda. Anche sotto l’aspetto degli effetti di un processo in cui fosse impedita la rilevazione di ufficio della nullità, si coglie appieno, alla luce di tali disposizioni, la differenza tra una pronuncia costitutiva di annullamento/rescissione del negozio e una sentenza di accertamento della sua originaria nullità.
Ben diverso, esemplificativamente, sarà il comportamento processuale della parte che, proposta domanda di annullamento del contratto, dubitando dello spessore delle prove addotte, si determini nel corso del giudizio a convalidare il negozio, rispetto a quello conseguente alla rilevazione officiosa della nullità di quel medesimo contratto – rilevazione cui seguirà, con ogni probabilità, la domanda di accertamento, principale o incidentale ex art. 34, con definitivo tramonto di ogni intento di convalida di un atto insanabilmente inefficace.
Ancor più dissimili saranno le conseguenze di una sentenza che abbia accertato la nullità di un contratto contrario a buon costume del quale sia stata chiesta la rescissione perché concluso in stato di pericolo, con conseguente esclusione del diritto ad equo indennizzo. 6.9.6. La questione va ulteriormente considerata, quoad effecta, in relazione alle diverse declaratorie e ai diversi accertamenti contenuti nella sentenza rispetto ai terzi acquirenti, che vedranno fatti salvi i diritti acquisiti in caso di pronuncia di annullamento, ma non di nullità, e in relazione alle azioni risarcitorie conseguenti al tipo di pronuncia adottata. Se il giudice condannasse il convenuto al risarcimento del danno conseguente alla pronuncia di annullamento/rescissione, egli non farebbe che dare diverso vigore, sia pure soltanto sotto il profilo risarcitorio, al contratto nullo, in spregio all’art. 1421 c.c.. 6.9.7. La diversità degli effetti restitutori rispettivamente derivamenti dall’accoglimento di una domanda di annullamento e di una domanda di nullità si colgono poi con riferimento ai rapporti di durata: nel primo caso, e non nel secondo, difatti, le prestazioni eseguite saranno irripetibili (un contratto di locazione del quale si chiede l’annullamento o la rescissione, se dichiarato nullo, obbligherà il locatore alla restituzione dei canoni, diversamente dal caso in cui l’azione originariamente proposta venga accolta senza alcun rilievo officioso della nullità della locazione). 6.10. Le azioni di impugnativa negoziale sono, pertanto, disciplinate da un plesso normativo autonomo e omogeneo, del tutto incompatibile, strutturalmente e funzionalmente, con la diversa dimensione della nullità contrattuale.
Ogni ipotesi di limitazione posta alla rilevabilità officiosa della nullità deve, pertanto, essere definitivamente espunta dall’attuale sistema processuale con riguardo a tutte le azioni di impugnativa negoziale.
6.10.1. La soluzione risulta del tutto omogenea a quella più volte adottata da questa stessa Corte di legittimità in ordine alla possibilità per il giudice cui venga richiesta la declaratoria di nullità di un contratto di pronunciarne invece l’annullamento sulla base dei medesimi motivi addotti dalla parte a fondamento della propria azione, in forza del rilievo che, in tal caso, si tratterebbe di un mero adeguamento riduttivo della domanda (Cass. 1592/1980; 6139/1988; 11157/1996). Se è lecito discorrere di adeguamento riduttivo della domanda sulla base dei medesimi fatti, non meno legittimo è riconoscere il principio della rilevabilità officiosa della nullità per evitare che di un contratto inefficace ab origine si discorra, comunque, in seno al processo, in termini di efficacia caducabile, con le conseguenze sinora esaminate.
6.10.2. Premessa la omogeneità funzionale di tutte le azioni di impugnativa negoziale, e indipendentemente dalla bontà della tesi dell’assorbimento della annullabilità nella quaestio nullitatis, è innegabile che le due fattispecie si trovino in una relazione reciprocamente conflittuale, che ne esclude qualsivoglia coesistenza o concorrenza. Al di là delle discussioni circa la validità/invalidità dell’atto annullabile (del quale va senz’altro riaffermata la duplice dimensione di invalidità/efficacia caduca bile), quel che appare incontestabile è che l’atto annullabile sia produttivo di effetti, e che presupposto necessario della fattispecie dell’annullabilità sia proprio l’esistenza e la produzione di effetti negoziali eliminabili ex tunc.
6.10.3. Appare legittimo l’approdo a una ricostruzione unitaria della fattispecie del negozio ad efficacia eliminabile, che comprende tanto negozi invalidi ma temporaneamente efficaci (il contratto annullabile e quello rescindibile), quanto negozi validi ed inizialmente efficaci, ma vulnerati nella dimensione funzionale del sinallagma (il contratto risolubile, quello destinato allo scioglimento ex art. 72 L.F., ovvero allo scioglimento per mutuo dissenso).
6.11. Va pertanto affermato il principio secondo il quale la rilevabilità ex officio della nullità va estesa a tutte le ipotesi di azioni di impugnativa negoziale – senza per ciò solo negarne le diversità strutturali, che le distinguono sul piano sostanziale (adempimento e risoluzione postulano l’esistenza di un atto morfologicamente valido, di cui si discute soltanto quoad effecta, rescissione e annullamento presuppongono una invalidità strutturale dell’atto, pur tuttavia temporaneamente efficace).
6.12. L’impugnativa negoziale trova, in definitiva, la sua comune Grundlage, e cioè il suo fondamento di base, nell’assunto secondo cui, non sussistendo ragioni di nullità, il giudice procede all’esame della domanda di adempimento, esatto adempimento risoluzione, rescissione, annullamento, scioglimento dal contratto ex art. 72 L.F., scioglimento del contratto per mutuo dissenso.
c) La nullità diversa da quella invocata dalla parte.
6.13. Il duplice quesito posto a queste sezioni unite dalle due ordinanze di remissione più volte ricordate non ricomprende esplicitamente la fattispecie del rilievo ope iudicis di una causa di nullità diversa da quella originariamente prospettata dalla parte con la domanda introduttiva.
6.13.1. Esplicite (e legittime) istanze di precisazioni in merito provenienti dalla dottrina, evidenti esigenze sistematiche, innegabili ragioni di completezza argomentativa sul tema delle impugnative negoziali inducono, peraltro, il collegio all’analisi di questa ulteriore tematica.
6.13.2. La giurisprudenza di questa Corte appare, sul punto, ampiamente consolidata (con l’isolata eccezione di cui a Cass. 4181/1980, in motivazione) nel senso dell’impossibilità per il giudice di procedere al rilievo officioso di un motivo di nullità diverso da quello fatto valere dalla parte (ex multis, Cass. 11157/1996, 89/2007, 14601/2007, 28424/2008, 15093/2009, 11651/2012).
È stato evidenziato al riguardo come tale orientamento si fondi sulla riconducibilità dell’istanza di declaratoria della nullità alla categoria delle domande (relative a diritti) eterodeterminate.
6.13.3. Questo orientamento è stato oggetto di molteplici e penetranti rilievi critici da parte della dottrina, concorde nel ritenere che la domanda di nullità negoziale, volta all’accertamento negativo della non validità del contratto, si identifichi in ragione di tale petitum, consentendo ed anzi imponendo al giudice di accertarne tutte le sue possibili (ed eventualmente diverse) cause. Si osserva che la sentenza dichiarativa della nullità di un contratto per un motivo diverso da quello allegato dalla parte corrisponde pur sempre alla domanda originariamente proposta, sia per causa petendi (l’inidoneità del contratto a produrre effetti a causa della sua nullità), sia per petitum (la declaratoria di invalidità e di conseguente inefficacia ab origine dell’atto). Si aggiunge che le domande aventi ad oggetto una questio nullitatis postulano l’accertamento negativo dell’esistenza del rapporto contrattuale fondamentale, onde nessun mutamento sarebbe predicabile in relazione alle singole cause di nullità che l’attore possa dedurre. Si precisa infine che, a fronte di una domanda di accertamento e declaratoria di nullità del contratto, sussiste sempre l’imprescindibile potere-dovere del giudice di rilevare anche d’ufficio i diversi motivi di nullità non allegati dalla parte ex art. 1421 c.c., poiché il rilievo non avrà più ad oggetto una eccezione, ma un ulteriore titolo della domanda, in forza del quale essa potrà trovare legittimo accoglimento a condizione che la diversa causa di nullità emerga dalle rituali allegazioni delle parti o dalle produzioni documentali in atti.
6.13.4. La domanda di nullità sarebbe pertanto unica rispetto ai diversi, possibili vizi di radicale invalidità che affliggono il negozio: così, la doglianza dell’attore volta all’accertamento di un difetto di causa non esclude che, accertatane la validità sotto quel profilo, il contratto risulti poi patentemente nullo per difetto di forma.
E la rilevazione ex officio di tale vizio non contrasterebbe ne’ con l’originario petitum (la domanda di declaratoria di nullità negoziale) ne’ con la causa petendi (il contratto di cui si assume la nullità).
6.13.5. Al giudice cui sia stata proposta la corrispondente istanza dovrebbe pertanto essere riconosciuto il potere-dovere di accertare tutte le possibili ragioni di nullità, non soltanto quella indicata dall’attore, anche in ragione della ratio sottesa alla fattispecie invalidante.
In tal modo, e salvo sempre il rispetto del principio del contraddittorio ex art. 184 c.p.c., comma 4 e art. 101 c.p.c., comma 3 sulle diverse cause di nullità rilevate dal giudice, non si travalicherebbero i limiti imposti dal principio dispositivo, poiché la domanda di nullità pertiene ad un diritto autodeterminato, ed è quindi individuata a prescindere dello specifico vizio (rectius, titolo) dedotto in giudizio (È stata felicemente evocata, in proposito, l’immagine del carattere “grandangolare” di tale giudizio).
6.13.6. La domanda di accertamento della nullità negoziale si presta allora, sul piano dinamico-processuale, a un trattamento analogo a quello concordemente riservato alle domande di accertamento di diritti autodeterminati, inerenti a situazioni giuridiche assolute, anch’esse articolate in base ad un solo elemento costitutivo. Il giudizio di nullità/non nullità del negozio (il thema decidendum e il correlato giudicato) sarà, così, definitivo e a tutto campo indipendentemente da quali e quanti titoli di nullità siano stati fatti valere dall’attore.
6.14. La soluzione opposta condurrebbe, sul piano processuale, a conseguenze assai problematiche.
L’eventuale giudicato di rigetto della domanda di nullità comporterebbe, difatti, l’accertamento della non-nullità del contratto, con conseguente preclusione di ulteriori azioni di nullità di quel rapporto negoziale sulla base di diversi profili, con il conseguente delinearsi di una (inammissibile) forma di sanatoria indiretta erga omnes di un contratto nullo, ma non più accertabile come tale.
La diversa soluzione della proponibilità in altro processo di una diversa questione di nullità è ancora una volta destinata ad infrangersi sulle argomentazioni sinora svolte in tema di valori funzionali del processo e del suo oggetto, e di esigenze di concentrazione e stabilità delle decisioni giudiziarie. La domanda di accertamento della nullità del contratto ha ad oggetto, in definitiva, l’accertamento negativo dell’esistenza del rapporto contrattuale fondamentale, così che il giudicato di rigetto di tali domande accerta la non nullità del negozio, la conseguente (non inesistenza del rapporto, e preclude qualsiasi nuova azione di nullità di quel negozio sotto ogni ulteriore profilo. 6.14.1. Le incongruenze di una soluzione restrittiva emergono ancor più chiaramente proprio qualora la nullità sia invece opposta in via di eccezione dal convenuto.
Quest’ultimo, evocato in giudizio per l’adempimento del contratto, potrebbe difendersi tanto eccependo l’avvenuto adempimento, ovvero l’inadempimento della controparte, quanto l’esistenza di una specifica causa di nullità che il giudice reputi infondata a fronte di una conclamata diversa causa di nullità. In tutti questi casi, e segnatamente in quest’ultimo, il differente vizio di nullità sarebbe rilevabile in via officiosa, trattandosi di eccezione in senso lato, con evidente quanto ingiustificata disparità del trattamento riservate all’attore e al convenuto parti rispetto ad una medesima species facti.
6.15. Non pare condivisibile la pur seria obiezione di chi, paventando nella rilevazione officiosa di una causa diversa di nullità una inammissibile sostituzione del giudice all’impostazione difensiva della parte “che, per scelta tattica o strategica, o soltanto per errore, abbia fatto valere una causa di nullità, in ipotesi infondata, in luogo di un’altra invece sussistente”: l’aporia di una nullità contrattuale non più accettabile non pare superabile impedendo poi all’altra parte, che avanzi una successiva pretesa fondata su quel contratto (nullo ma non dichiarato tale nel precedente giudizio), di agire in giudizio sulla base di una inammissibilità della domanda per abuso del diritto. Proprio la preclusione all’intervento officioso imposta al giudice impedisce, in fatto, di ravvisare nella specie un’ipotesi di abuso dello strumento del processo, se nel precedente processo il thema decidendum sia stato confinato all’accertamento della causa di nullità dedotta dall’attore.
6.15.1. Nè pare vulnerato il diritto di difesa del convenuto (del quale autorevole dottrina paventò, in passato, il rischio “dello spiazzamento delle difese”), volta che, rilevata dal giudice la diversa questione di nullità, alle parti sarebbe accordato tutto lo spazio difensivo conseguente a tale rilevazione, e ciò sino alla riserva in decisione della causa da parte del giudice alla luce dell’armonica architettura processuale oggi disegnata dagli artt. 183 e 101 c.p.c. proprio in funzione della piena esplicazione del contraddittorio.
6.15.2. L’eco di una conferma, sia pur indiretta, della rilevabilità ex officio di una diversa causa nullità sembra potersi rinvenire nella sentenza di queste sezioni unite, n. 10955 del 2002, resa in tema di prescrizione.
Con quella pronuncia si specificò che, eccepita dalla parte una determinata tipologia di prescrizione, non è precluso al giudice rilevarne un tipo diverso, senza che a ciò fosse di ostacolo la sua natura di eccezione in senso stretto, a condizione che fosse stato attivato il contraddittorio.
Il fondamento di tale decisione apparve proprio l’esatta individuazione dell’oggetto del processo, vale a dire la (invocata estinzione della) situazione sostanziale fatta valere dalla controparte, della quale il convenuto chiedeva, al di là ed a prescindere dal tipo di prescrizione invocata, una declaratoria di definitiva estinzione dell’intero rapporto sostanziale dedotto in giudizio.
6.15.3. Appare altresì consonante con tali principi l’opzione di queste sezioni unite in tema di usi bancari e di anatocismo di cui alla già citata sentenza n. 21095 del 2004, ove si legge che l’eventuale difesa del convenuto finalizzata a rilevare determinati profili di nullità, o a non individuarne affatto, non preclude il potere officioso del giudice di indagare e dichiarare, sotto qualsiasi profilo, la nullità del negozio (nel medesimo senso, ancora, in tema di abusivo riempimento di moduli da parte della banca quanto alle dichiarazioni di aumento delle fideiussioni, Cass. 17257/2013). 6.15.4. Va pertanto affermato il principio della legittimità del rilievo officioso del giudice di una causa diversa di nullità rispetto a quella sottoposta al suo esame dalla parte. 6.16. Il potere di rilevazione officioso del giudice deve essere altresì valutato in relazione alla fattispecie della nullità parziale.
6.16.1. La prevalente giurisprudenza di questa Corte ha sempre adottato, in materia, un orientamento fortemente restrittivo, affermando la eccezionalità dell’effetto estensivo della nullità della singola clausola all’intero negozio (tra le altre, Cass. 16017/2008, 27732/2005, 1189/2003, 4921/1980), e specificando che la pronuncia dichiarativa della nullità dell’intero contratto, a fronte di una domanda che miri all’accertamento della nullità della singola clausola, incorrerebbe nel vizio di ultrapetizione, essendo specifico onere della parte che abbia interesse ad una declaratoria di nullità tout court dimostrare che il contratto non si sarebbe concluso senza tale clausola, giusta disposto dell’art. 1419 c.c.. A fronte di tale pressoché unanime orientamento si pone il dictum di cui a Cass. 18 gennaio 1988 n. 32, che, in tema di collegamento negoziale, ha ritenuto applicabile ai contratti collegati la disposizione di cui all’art. 1419 cod. civ., per modo che la nullità parziale del contratto o la nullità di singole clausole di un contratto importa la nullità dei vari contratti collegati, nullità che può essere rilevata d’ufficio, allorché sia stato accertato il collegamento funzionale tra i negozi stessi.
6.16.2. Anche su questo punto, parte della dottrina mostra di dissentire dalla quasi unanime giurisprudenza.
6.16.3. Si è difatti osservato che, sul piano dei principi, la formulazione dell’art. 1419 c.c., comma 1 non consente di desumere una regola generale dell’ordinamento volta a privilegiare la nullità parziale.
6.16.4. Si sono così indicati due essenziali criteri cui ancorare l’eventuale attività officiosa del giudice:
– Il criterio della volontà ipotetica volto alla ricostruzione del probabile e presumibile intento dei contraenti, tenuto conto dell’id quod plerumque accidit, se essi avessero saputo che una parte del negozio era priva di efficacia;
– Il criterio del giudizio oggettivo di buona fede (prevalente in altri ordinamenti europei, come quello inglese, dove vige la cd. blue pencil rule, secondo cui le parti nulle di una convenzione devono poter essere cancellate con un semplice tratto di matita affinché il contratto possa essere conservato), che postula un’attività di tipo controfattuale da parte del giudice volta ad accertare se il vigore del regolamento parziale sia coerente con il modello distributivo di oneri e vantaggi su cui i contraenti avevano consentito, o se, al contrario, la caducazione di parte dell’accordo provochi una tale alterazione dell’economia del contratto che il mantenimento e l’esecuzione del residuo comporterebbero conseguenze obbiettivamente non riconducibili al disegno dell’autonomia privata, attraverso un giudizio di compatibilità tra quanto ancora attuabile e quanto inizialmente convenuto e programmato dalle parti.
6.16.5. A giudizio del collegio, le critiche non colgono nel segno, anche se le conclusioni cui è pervenuta la giurisprudenza di legittimità non possono essere tenute ferme, poiché appaiono fondate sulla sovrapposizione concettuale dei due distinti momenti della rilevazione e della dichiarazione della nullità totale. È innegabile che entrambi i criteri suggeriti dalla dottrina assegnerebbero al giudice un compito assai arduo, sovente inattuabile.
È altresì innegabile che quel che rileva, nella specie, è la diversità strutturale del petitum rivolto al giudice: un petitum evidentemente volto alla conservazione e non alla dichiarazione di inefficacia/inesistenza degli effetti negoziali. Ma tali legittime considerazioni – che hanno indotto la giurisprudenza di questa Corte a escludere l’ammissibilità di un potere officioso del giudice – vanno inscritte nella più vasta orbita della dissonanza e della diacronia tra rilevazione e dichiarazione-idoneità all’effetto di giudicato della nullità negoziale.
Non v’è, difatti, alcun motivo, sul piano normativo, ne’ letterale nè logico, per escludere il potere della (sola) rilevazione officiosa di una nullità totale da parte del giudice nell’ipotesi in cui le parti discutano invece della nullità della singola clausola negoziale.
E appare probabile che, all’esito di tale rilevazione, una delle parti formuli domanda di accertamento di nullità totale dell’atto secondo le modalità indicate dagli artt. 183 e 101 c.p.c.. L’ipotesi residuale, per cui entrambe le parti insistano nella originaria domanda di accertamento di una nullità soltanto parziale del contratto, vedrà il giudice vincolato ad una pronuncia di rigetto della domanda, poiché, al pari della risoluzione, della rescissione e dell’annullamento, non può attribuire efficacia, neppure in parte – fatto salvo il diverso fenomeno della conversione sostanziale – una (parte di) negozio radicalmente nullo. 6.17. L’ipotesi speculare – quella secondo cui, chiesta dalle parti la declaratoria di nullità totale del contratto, il giudice potrebbe dichiarare la nullità parziale senza incorrere in un vizio di ultrapetizione: così Cass. 16017/2008 – si presta a non difformi conclusioni.
6.17.1. Premessa la condivisibilità delle critiche mosse alla soluzione adottata con la citata sentenza – in ragione della diversità della tutela richiesta, volta che la nullità totale comporta un effetto dichiarativo di caducazione del rapporto negoziale e dei suoi effetti, mentre quella parziale mira ad un effetto conservativo di parte del negozio, così che una declaratoria di nullità parziale finirebbe per contrastare irrimediabilmente con il petitum attoreo -, va peraltro osservato come, anche in questo caso, il potere-dovere del giudice si limiti alla rilevazione di una fattispecie di nullità parziale, lasciando poi libere le parti di mantenere inalterate le domande originarie.
Ma è del tutto evidente che, confermate in sede di precisazione delle conclusioni le domande di nullità totale, non sarà in alcun modo consentito al giudice, attraverso l’emanazione di una non richiesta sentenza “ortopedica”, una inammissibile sovrapposizione del proprio decisum alla valutazione e alle determinazioni dell’autonomia privata espresse in seno al processo. 6.18. A non dissimili conclusioni deve pervenirsi in tema di conversione del negozio nullo.
Si è di recente ritenuto di offrire risposta positiva alla questione della relativa rilevabilità officiosa, sostenendosi che, ove il giudice dichiari la nullità del contratto, le parti resterebbero spogliate della facoltà di avvalersi dell’art. 1424 c.c., vedendosi così precluso il risultato di conseguire l’assetto di interessi dapprima divisato.
6.18.1. L’argomentazione, pur suggestiva, non può essere condivisa. I poteri officiosi di rilevazione di una nullità negoziale, difatti, non possono estendersi alla rilevazione (non più di un vizio radicale dell’atto, ma anche) di una possibile conversione del contratto in assenza di esplicita domanda di parte.
È decisivo, in tal senso, il dato testuale dell’art. 1424 c.c., a mente del quale il contratto nullo può (non deve) produrre gli effetti di un contratto diverso.
La rilevazione della eventuale conversione, difatti, esorbiterebbe dai limiti del potere officioso di rilevare la nullità (i.e. di rilevare la inattitudine genetica dell’atto alla produzione di effetti), ma si estenderebbe, praeter legem, alla rilevazione di una diversa efficacia, sia pur ridotta, di quella convenzione negoziale. Soluzione del tutto inammissibile, in mancanza di un’istanza di parte, poiché in tal caso è di una dimensione di interessi soltanto individuali che si discorre, diversamente che per la nullità tout court (in tal senso, Cass. 195/1969, 3443/1973, 2651/2010, 6633/2012, nonché Cass. 10498/2001 in tema di conversione del licenziamento nullo in recesso ad nutum, “da eccepirsi ritualmente e tempestivamente da parte del datore di lavoro”, e Cass. 6004/2008 che ha escluso la facoltà del giudice, che aveva accertato la nullità di una cessione d’uso perpetuo di posti d’auto all’interno di un condominio, di convertire il relativo negozio in un contratto costitutivo di un diritto d’uso trentennale avvalendosi del disposto dell’art. 979 c.c., comma 2). 6.18.2. Deve pertanto escludersi che l’orientamento minoritario di cui a Cass. 9102/1991, 5513/1987 e 6632/1987, favorevole alla rilevabilità d’ufficio della conversione, possa trovare ulteriore continuità.
                                                                         *
7. I POTERI DEL GIUDICE NELLE AZIONI DI IMPUGNATIVA NEGOZIALE.
7.1. I rapporti tra nullità negoziale ed impugnative contrattuali vanno così sintetizzati:
1) Il giudice ha l’obbligo di RILEVARE sempre una causa di nullità negoziale;
2) Il giudice, dopo averla rilevata, ha la facoltà di DICHIARARE nel provvedimento decisorio sul merito la nullità del negozio (salvo i casi di nullità speciali o di protezione rilevati e indicati alla parte interessata senza che questa manifesti interesse alla dichiarazione), e RIGETTARE LA DOMANDA – di adempimento, risoluzione, annullamento, rescissione -, specificando in motivazione che la ratio decidendi della pronuncia di rigetto è costituita dalla nullità del negozio, con una decisione che ha attitudine a divenire cosa giudicata in ordine alla nullità negoziale;
3) Il giudice deve RIGETTARE la domanda di adempimento, risoluzione, rescissione, annullamento SENZA RILEVARE – NE’ DICHIARARE – l’eventuale nullità, se fonda la decisione sulla base della individuata ragione più liquida: non essendo stato esaminato, neanche incidenter tantum, il tema della validità del negozio, non vi è alcuna questione circa (e non si forma alcun giudicato sul)la nullità;
4) Il giudice DICHIARA LA NULLITÀ del negozio nel dispositivo della sentenza, dopo aver indicato come tema di prova la relativa questione, all’esito della eventuale domanda di accertamento (principale o incidentale) proposta da una delle parti, con effetto di giudicato in assenza di impugnazione;
5) Il giudice DICHIARA LA NULLITÀ del negozio nella motivazione della sentenza, dopo aver indicato come tema di prova la relativa questione, in mancanza di domanda di accertamento (principale o incidentale) proposta da una delle parti, con effetto di giudicato in assenza di impugnazione;
6) In appello e in Cassazione, in caso di mancata rilevazione officiosa della nullità in primo grado, il giudice HA SEMPRE FACOLTÀ DI RILEVARE D’UFFICIO LA NULLITÀ.
*
7.2. Va infine osservato, prima di ricostruire attraverso un più articolato schema sinottico le varie ipotesi che possono verificarsi nel giudizio di primo grado, come la rilevabilità officiosa delle eccezioni in senso lato risulti posta in funzione di una concezione del processo che solo un’analisi superficiale può ritenere “eccessivamente pubblicistica”, e che invece, più pensosamente, fa leva sul valore della giustizia della decisione.
7.3. Il PROCESSO DI PRIMO GRADO
A – RILEVAZIONE EX OFFICIO DELLA NULLITÀ DA PARTE DEL GIUDICE (art. 183 c.p.c., comma 4 – art. 101 c.p.c., comma 2).
1) A seguito della rilevazione officiosa del giudice:
– La parte PROPONE DOMANDA di accertamento della nullità del contratto (in via principale ovvero incidentale);
– Il giudice ACCERTA e statuisce sulla nullità del contratto – L’accertamento è idoneo al giudicato sulla nullità negoziale;
2) A seguito (e a dispetto) della rilevazione officiosa del giudice:
– le parti NON PROPONGONO DOMANDA DI ACCERTAMENTO DELLA NULLITÀ, secondo un’ipotesi è definita, nella sentenza 14828/01 2 e da parte della dottrina, “soltanto residuale”, ma comunque meritevole di esame al fine di una complessiva disamina della questione, pur senza ricorrere ad ipotesi di scuola (è il caso dell’attore adempiente per aver versato in toto il corrispettivo in denaro di una compravendita, il quale, nonostante la rilevata nullità, insiste nella domanda di risoluzione per ottenere, oltre alla restituzione della res, anche il risarcimento dei danni; ovvero del locatore e del conduttore che abbiano entrambi interesse a che il contratto di locazione, pur indicato loro ex officio come nullo, non sia dichiarato tale, volendo entrambi limitare il giudizio alla questione del pagamento o meno di alcuni canoni, se la questione può risolversi sulla base della ragione più liquida – prescrizione, comprovato adempimento, comprovato inadempimento della controparte);
– le parti chiedono al giudice, in sede di precisazione delle conclusioni, di pronunciarsi SULLA SOLA DOMANDA ORIGINARIA; In dispositivo, il giudice RIGETTA LA DOMANDA, sic et simpliciter, non potendo pronunciare la risoluzione, l’annullamento, la rescissione di un contratto nullo;
– In motivazione, il giudice DICHIARA di aver fondato il rigetto sulla rilevata nullità negoziale:
– L’accertamento/dichiarazione della nullità è idoneo alla formazione del giudicato, in sostanziale applicazione (peraltro estensiva) della teoria, di matrice tedesca, del cd. vincolo al motivo portante – possono citarsi, in proposito, i classici esempi della compravendita che non potrà ritenersi esistente rispetto all’obbligo di consegnare la cosa al compratore quando il diritto del venditore al prezzo sia stato negato in conseguenza della (rilevata e) dichiarata nullità del contratto (e viceversa); ovvero della locazione, che, parimenti, non potrà riconoscersi ai fini del pagamento del canone quando il diritto alla consegna della cosa sia stato negato in conseguenza della (rilevata e) dichiarata nullità del contratto. Il vincolo del motivo portante, peraltro, se si ammette che, in motivazione, il giudice possa, in modo non equivoco, affrontare e risolvere, dichiarandola, la tematica della validità/nullità del negozio, non si limiterà ai soli segmenti del rapporto sostanziale dedotti in giudizio in tempi diversi, ma si estenderà a tutti i successivi processi in cui si discuta di diritti scaturenti dal contratto dichiarato nullo (onde la necessità di discorrere di oggetto del processo non soltanto in termini di rapporto, ma anche di negozio fatto storico/fattispecie programmatica). Si evita così il (non agevole) riferimento ai “diritti ed effetti strettamente collegati al giudicato di rigetto da nessi funzionali di senso giuridico”, che renderebbe assai arduo il compito del giudice di merito.
La sostanziale differenza dell’ipotesi in esame rispetto ad un accertamento pieno iure della nullità negoziale si coglie sotto (il già indagato) aspetto della trascrizione e della (in)opponibilità ai terzi dell’effetto di giudicato: l’attore che voglia munirsi di un titolo utile a tali fini dovrà, difatti, formulare, in quello stesso processo, una domanda di accertamento, in via principale o incidentale, della nullità come rilevata dal giudice. 3) A seguito della rilevazione officiosa del giudice di una nullità speciale:
– le parti NON PROPONGONO DOMANDA DI ACCERTAMENTO DELLA NULLITÀ e chiedono al giudice di pronunciarsi sulla domanda originaria;
– Il giudice RIGETTA (O ACCOGLIE) LA DOMANDA pronunciandosi soltanto su questa: pur avendo rilevato la nullità di protezione in corso di giudizio, non la dichiara in motivazione, limitandosi a rigettare la domanda, ove ne ricorrano i presupposti, per altro motivo, ovvero ad accoglierla, se fondata;
– Non v’è accertamento della nullità speciale nella sentenza, dunque non si pone alcun problema di giudicato, attesa la peculiare natura della nullità;
4) A seguito della rilevazione officiosa del giudice:
– le parti NON PROPONGONO DOMANDA DI ACCERTAMENTO DELLA NULLITÀ e chiedono al giudice di pronunciarsi sulla domanda originaria;
– Il giudice ACCOGLIE LA DOMANDA pronunciandosi soltanto su questa:
dopo aver rilevato la nullità nel corso del giudizio, egli non la dichiara in motivazione poiché, re melius perpensa, nel corso del processo, all’esito delle allegazioni e delle prove offerte, si convince che la nullità da lui in origine rilevata era in realtà insussistente e dunque non poteva essere dichiarata (è il caso della nullità per difetto di causa concreta del negozio, la cui esistenza e validità sia successivamente emersa in corso di giudizio);
– Si forma il giudicato implicito sulla NON-NULLITÀ del contratto, la cui validità non potrà più essere messa in discussione tra le parti in un altro processo, non avendo le parti stesse – pur potendolo, nel corso del giudizio di primo grado, a seguito del rilievo del giudice – formulato alcuna domanda di accertamento incidentale, e non essendo, pertanto, loro consentito di venire contra factum proprium, se non abusando del proprio diritto e del processo, abuso il cui divieto assume, ormai, rilevanza costituzionale ex art. 54 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
B – MANCATA RILEVAZIONE EX OFFICIO DELLA NULLITÀ DA PARTE DEL GIUDICE.
1. Il giudice ACCOGLIE LA DOMANDA (di adempimento, risoluzione, rescissione, annullamento): la pronuncia è idonea alla formazione del giudicato implicito sulla validità del negozio, (salva rilevazione officiosa del giudice di appello);
2. Il giudice RIGETTA LA DOMANDA (di adempimento, risoluzione rescissione, annullamento): si forma il giudicato implicito sulla validità del negozio, salvo il caso in cui (ed è quello di specie) la decisione non risulti fondata sulla ragione cd. “più liquida”, del cui fondamento teorico la processualistica italiana è tributaria di Rimmelspacher Bruno, e la cui ratio appare efficacemente distillata nel disposto dell’art. 187 c.p.c., comma 2 e dell’art. 111 Cost. e altrettanto efficacemente evidenziata nella recente giurisprudenza di questa Sezioni Unite (Cass. 9.10.2008, n. 24883, in motivazione). L’adozione di una decisione sulla base della ragione più liquida (la prescrizione del diritto azionato, l’adempimento, la palese non gravità dell’inadempimento, l’eccepita compensazione legale) a fronte di una eventualmente complessa istruttoria su di una eventuale quaestio nullitatis postula che il giudice non abbia in alcun modo scrutinato l’aspetto della validità del contratto, con conseguente inidoneità della pronuncia all’effetto di giudicato sulla non-nullità del contratto (alla medesima soluzione si perverrà ove la quaestio nullitatis sia stata oggetto di mera difesa o di semplice eccezione da parte del convenuto, nel qual caso il giudice non avrà nessun obbligo di pronuncia in ordine ad essa, potendo ancora una volta decidere in base alla ragione più liquida, tale obbligo di pronuncia nascendo, di converso, soltanto in presenza di apposita domanda).
3. Il giudice RIGETTA LA DOMANDA (di adempimento, risoluzione rescissione, annullamento). Il giudicato implicito sulla non nullità del negozio si forma (in tutti gli altri casi) se, nella motivazione, egli accerti e si pronunci non equivocamente nel senso della validità del negozio.
4. Il giudice RIGETTA LA DOMANDA, essendo stato SIN DALL’ORIGINE investito di una domanda di nullità negoziale, senza aver rilevato ALCUNA ALTRA CAUSA DI NULLITÀ NEGOZIALE – L’accertamento della non nullità del contratto è idonea al passaggio in giudicato, di talché, in altro giudizio, non potrà essere ulteriormente addotta, a fondamento dell’azione, una diversa causa di nullità.
7.4. Le soluzioni adottate dal collegio sul tema dei rapporti tra rilevazione officiosa della nullità e azioni di impugnativa negoziale offrono implicita risposta all’ulteriore quesito posto alla Corte dall’ordinanza di rimessione 16630/2013 circa la portata dell’onere di conformazione gravante sulle sezioni semplici ai sensi del novellato art. 374 c.p.c., comma 3, onere che deve ritenersi limitato all’applicazione del solo principio di diritto posto a fondamento del decisum delle sezioni unite e che costituisce la ratio decidendi della fattispecie concreta, senza estendersi a tutte le ulteriori argomentazioni svolte in guisa di obiter dictum o comunque contenute nella parte motiva della sentenza.
7.5. Il caso di specie rientra nell’ipotesi sopra considerata sub B – 2.
7.5.1. Ne consegue l’impredicabilità dell’effetto di giudicato conseguente alla pronuncia sulla domanda di risoluzione del contratto di rendita vitalizia, fondata sulla ragione più liquida senza che il giudice abbia, in motivazione, ne’ rilevato ne’ dichiarato la nullità del negozio.
7.5.2. Ne consegue il rigetto del quarto motivo del ricorso principale, non emergendo dagli atti di causa – cui la Corte ha accesso essendo denunciato un vizio processuale – alcun elemento dal quale evincere che il Tribunale di Padova, investito della domanda di risoluzione per inadempimento del contratto di rendita vitalizia nel contesto del procedimento definito con la sentenza n. 1187 del 1992, abbia affrontato la tematica della validità/invalidità degli atti negoziali sottoposti al suo esame.
7.5.3. Ne consegue la speculare fondatezza del ricorso incidentale, di tal che le domande di restituzioni proposte con esso devono essere accolte. Tali restituzioni vanno disposte da questa stessa Corte con decisione nel merito, non risultando all’uopo necessari ulteriori accertamenti di fatto.
                                                                        *
8. Tutti i restanti motivi del ricorso principale devono essere respinti.
8.1. Va preliminarmente dichiarata la inammissibilità del terzo motivo di ricorso, con il quale viene oggi riproposta al collegio una censura già esaminata e dichiarata inammissibile (onde l’effetto di giudicato) da questa Corte regolatrice con la sentenza 10049/2008 (si tratta della doglianza relativa alla asserita nullità del processo e della sentenza per non avere il GOA dichiarato in primo grado l’estinzione del giudizio a motivo della tardiva costituzione dell’erede […] dopo la morte della sua dante causa);
8.2. Del pari inammissibile (prima ancora che palesemente infondato nel merito) risulta il sesto motivo del ricorso, con il quale viene censurata la sentenza emessa in sede di rinvio, nel contempo, per un vizio di omessa pronuncia da parte del giudice di appello (poiché la corte lombarda aveva ritenuto assorbito il sesto motivo di appello in quanto relativo a temi correlati alla domanda di annullamento del contratto di rendita vitalizia), per un difetto di ultrapetizione (per avere il giudice bresciano pronunciato su di una causa di nullità non prospettata dall’attrice), ed ancora, nello svolgimento del motivo, per una pretesa insufficienza o contraddittorietà della motivazione, e ciò in spregio alla consolidata giurisprudenza di questa Corte che, in subiecta materia, ha evidenziato in più occasione la impossibilità di convivenza, in seno al medesimo motivo di ricorso, di censure caratterizzate da tale, irredimibile eterogeneità.
8.3. Infondato appare il primo motivo di ricorso, con il quale si denuncia una pretesa violazione, da parte della Corte territoriale, del principio di intangibilità della sentenza di annullamento con rinvio pronunciata da questo giudice di legittimità nel 2008. Ma nessun fraintendimento del contenuto del dictum di legittimità risulta nella specie imputabile ai giudici del rinvio, che hanno correttamente interpretato il senso di quella decisione in termini di necessità di un nuovo e irrinunciabile accertamento del requisito dell’alea con riferimento al contratto di rendita vitalizia, in relazione alla situazione obbiettiva configurabile alla data di perfezionamento del contratto (così, testualmente, la sentenza oggi impugnata al folio 25 della motivazione). Nè va trascurato di considerare, sotto altro profilo, il principio di diritto secondo cui, qualora l’accoglimento in parte qua del ricorso per cassazione abbia riguardo ad un vizio di omessa pronuncia della sentenza impugnata, il merito della controversia resta del tutto impregiudicato, onde la legittimità della prospettazione di nuove questioni relative ad esso (ex multis, Cass. 15629/2006, affermativa di un principio di diritto cui il collegio intende dare continuità).
8.4. Del pari immeritevole di accoglimento (pur volendo prescindere dai non marginali profili di inammissibilità che lo caratterizzano, attesa la rinnovata coesistenza di plurime ed eterogenee censure, che denunciano presunte violazione di legge insieme con asseriti vizi strettamente motivazionali) risulta il secondo motivo di ricorso, e ciò tanto nella parte in cui esso ripropone (infondatamente) la questione del preteso giudicato interno scaturente dalla già ricordata pronuncia di questa Corte del 2008 sotto il profilo dell’accertamento del rischio nel contratto di vitalizio, quanto in quella con cui pone questioni di ermeneutica contrattuale che non colgono nel segno, avendo il giudice di merito fatto buon governo dei principi posti a presidio dell’attività interpretativa dei contratti. Il motivo, sì come articolato, pur lamentando formalmente una plurima violazione di legge e un decisivo difetto di motivazione, si risolve, in realtà, nella (non più ammissibile) richiesta di rivisitazione di fatti e circostanze ormai definitivamente accertati in sede di merito. Il ricorrente, difatti, lungi dal prospettare a questa Corte un vizio della sentenza rilevante sotto il profilo di cui all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 nella parte in cui il giudice del merito ha (del tutto correttamente) ritenuto di riesaminare il merito della causa secondo le indicazioni ricevute dalla sentenza di legittimità, si induce piuttosto ad invocare una diversa lettura delle risultanze procedimentali così come accertare e ricostruite dalla corte territoriale, muovendo così all’impugnata sentenza censure del tutto inammissibili, perché la valutazione delle risultanze probatorie, al pari della scelta di quelle fra esse ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati in via esclusiva al giudice di merito, il quale, nel porre a fondamento del proprio convincimento e della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, nel privilegiare una ricostruzione circostanziale a scapito di altre (pur astrattamente possibili e logicamente non impredicabili), non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere peraltro tenuto ad affrontare e discutere ogni singola risultanza processuale ovvero a confutare qualsiasi deduzione difensiva. È principio di diritto ormai consolidato quello per cui l’art. 360 c.p.c., n. 5 non conferisce in alcun modo e sotto nessun aspetto alla corte di Cassazione il potere di riesaminare il merito della causa, consentendo ad essa, di converso, il solo controllo – sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica – delle valutazioni compiute dal giudice d’appello, al quale soltanto, va ripetuto, spetta l’individuazione delle fonti del proprio convincimento valutando le prove, controllandone la logica attendibilità e la giuridica concludenza, scegliendo, fra esse, quelle funzionali alla dimostrazione dei fatti in discussione (eccezion fatta, beninteso, per i casi di prove cd. legali, tassativamente previste dal sottosistema ordinamentale civile). Il ricorrente, nella specie, pur denunciando, apparentemente, una deficiente motivazione della sentenza di secondo grado, inammissibilmente (perché in contrasto con gli stessi limiti morfologici e funzionali del giudizio di legittimità) sollecita a questa Corte una nuova valutazione di risultanze di fatto (ormai cristallizzate quoad effectum) sì come emerse nel corso dei precedenti gradi del procedimento, così mostrando di anelare ad una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito giudizio di merito, nel quale ridiscutere analiticamente tanto il contenuto di fatti e vicende processuali, quanto l’attendibilità maggiore o minore di questa o di quella risultanza procedimentale, quanto ancora le opzioni espresse dal giudice di appello non condivise e per ciò solo censurate al fine di ottenerne la sostituzione con altre più consone ai propri desiderata, quasi che nuove istanze di fungibilità nella ricostruzione dei fatti di causa fossero ancora legittimamente a porsi dinanzi al giudice di legittimità.
In particolare, poi, quanto allo specifico profilo dell’interpretazione adottata dai giudici di merito con riferimento al contenuto del complesso tessuto negoziale per il quale è processo, alla luce di una giurisprudenza più che consolidata di questa Corte regolatrice va in questa sede ribadito che, in tema di interpretazione del contratto, il sindacato di legittimità non può investire il risultato interpretativo in sè, che appartiene all’ambito dei giudizi di fatto riservati al giudice di merito, ma esclusivamente il rispetto dei canoni legali di ermeneutica e la coerenza e logicità della motivazione addotta (tra le tante, di recente, Cass. n. 2074/2002): l’indagine ermeneutica, è, in fatto, riservata esclusivamente al giudice di merito, e può essere censurata in sede di legittimità solo per inadeguatezza della motivazione o per violazione delle relative regole di interpretazione (vizi, nella specie, entrambi impredicabili), con la conseguenza che deve essere negato ingresso ad ogni critica della ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca solo nella prospettazione di una diversa valutazione degli stessi elementi di fatto da quegli esaminati.
8.5. Infondato risulta ancora il quinto motivo di ricorso – con il quale si lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 1418 c.c., artt. 99, 100, 115, 116, 214, 215 e 221 c.p.c., artt. 1326, 1362 ss., 1704, 1722 e 1723 c.c., e la nullità della sentenza impugnata per omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia – avendo la Corte territoriale correttamente applicato i principi di diritto dettati in tema di nullità negoziale, con specifico riguardo agli effetti riflessi della pronuncia di invalidità del contratto di vitalizio tanto sulla procura speciale conferita da […] a […] quanto sulla compravendita del 20.11.1985, con la quale quest’ultima cedette la nuda proprietà dell’immobile ancor oggi oggetto di controversia ai coniugi […] (compravendita nulla per difetto, da parte della dante causa, della facoltà di disporre in conseguenza della nullità originaria del contratto di rendita vitalizia del precedente 5 dicembre 1984).
8.6. Il settimo motivo di ricorso risulta, infine, assorbito dalla integrale compensazione delle spese dell’intero procedimento disposta in questa sede.

[…]