Corte di Cassazione, Sez. VI, Ordinanza n. 6666 del 2018, dep. il 16.03.2018

[…]

RILEVATO CHE

1. Con sentenza del 24 giugno 2016 la Corte d’appello di Napoli ha dichiarato improcedibile l’impugnazione per nullità di lodo arbitrale proposta (secondo quanto risulta dall’intestazione della sentenza) da […], […], […], […], […], […], […], (viceversa in motivazione, a pagina 3, sono indicati […], […], […], […], […], già […], […],), nei confronti di […] e […], indicate nell’intestazione, nonché di Fallimento […] e […], ivi non indicate.

2 — Per la cassazione della sentenza risultano proposti due distinti ricorsi di uguale contenuto, entrambi per i medesimi due mezzi, notificati in pari data, ma con diverse intestazioni:
-) l’uno risulta proposto da […], già […], […], […], […], […];
-) l’altro risulta proposto da […], […], […], […], […], già […], […], […].
[…] ha resistito con controricorso mentre […], […] e […] non hanno svolto difese.

CONSIDERATO CHE

3. — Il primo motivo denuncia nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione degli articoli 348, primo comma, 307, primo comma, 824 b s , 827 e seguenti c.p.c. in relazione all’articolo 360, primo comma, numero 4, c.p.c., censurando la sentenza impugnata per aver giudicato improcedibile l’impugnazione per nullità di lodo arbitrale, non essendo stata iscritta a ruolo nel termine di 10 giorni dalla notificazione ai sensi dell’articolo 348, primo comma, c.p.c., mentre avrebbe dovuto fare applicazione della disciplina di cui all’articolo 307 c.p.c..

Il secondo motivo denuncia nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione dell’articolo 153 c.p.c. in relazione all’articolo 360, primo comma, numero 4, c.p.c., censurando la sentenza impugnata per aver omesso di pronunciare sulla subordinata richiesta di rimessione in termini avanzata sul presupposto che l’improcedibilità fosse da ascrivere ad un imprevedibile overruling giurisprudenziale.

RITENUTO CHE

4. — Il Collegio ha disposto l’adozione della modalità di motivazione semplificata.

5. — Vale anzitutto osservare, in generale, che la legittimazione a proporre l’impugnazione, o a resistere ad essa, spetta solo a chi abbia assunto la veste di parte nel giudizio di merito, secondo quanto risulta dalla decisione impugnata, tenendo conto sia della motivazione che del dispositivo (Cass. 30 maggio 2017, n. 13584; Cass. 23 marzo 2017, n. 7467). Al di fuori di detta ipotesi, la legittimazione al ricorso per cassazione di un soggetto che non ha partecipato al grado precedente del giudizio può essere riconosciuta soltanto se egli sia un successore, a titolo universale o particolare, nel diritto controverso (Cass. 12 gennaio 2017, n. 681). Il soggetto che abbia proposto impugnazione con ricorso per cassazione nell’asserita qualità di successore, a titolo universale, di colui che era stato parte nel precedente grado di giudizio, deve non soltanto allegare la propria legitimatio ad causam per essere subentrato nella medesima posizione del proprio dante causa, ma è tenuto, altresì, a fornire la prova con riscontri documentali – la cui mancanza, attenendo alla regolare instaurazione del contraddittorio, è rilevabile d’ufficio – delle circostanze costituenti i presupposti di legittimazione alla successione nel processo ai sensi dell’art. 110 c.p.c. (Cass. 4 novembre 2016, n. 22507). Principio, quest’ultimo, applicabile anche nell’ipotesi disciplinata dall’art. 111 c.p.c..
Nel caso in esame è inammissibile l’impugnazione proposta da […] in liquidazione, già (non è dato comprendere che cosa detto avverbio dovrebbe significare) […], non risultando che la menzionata ricorrente sia in qualche modo succeduta quest’ultima società.

6. — È poi inammissibile il ricorso proposto da […] in liquidazione avendo […] comprovato che la società è stata cancellata dal registro delle imprese in data 21 marzo 2014, in applicazione del principio secondo cui, in tema di giudizio di legittimità, è inammissibile il ricorso proposto da una società, originaria parte attrice, ormai cancellata dal registro delle imprese atteso che, da un lato, l’estinzione, intervenuta in pendenza di giudizio, determina la perdita della capacità processuale, l’interruzione del processo ex art. 299 ss. c.p.c. e la successione dei soci ai sensi dell’art. 110 c.p.c., e, dall’altro, la regola dell’ultrattività del mandato alla lite, pur consentendo la notifica del ricorso della controparte presso il difensore in appello della società estinta, non vale per la proposizione del ricorso per cassazione, che esige la procura speciale e deve, quindi, essere effettuata dai soci (Cass. 22 luglio 2016, n. 15177, pronunciata in relazione al controricorso).

7. — […] ha anzitutto dedotto l’inammissibilità del ricorso per difetto di procura speciale, attesa la genericità del testo della procura apposta in calce al ricorso ed in mancanza dell’indicazione dei dati identificativi dei conferenti, che avevano sottoscritto con firma illeggibile.
L’eccezione va disattesa nei limiti che seguono.
In ordine al difetto di specialità della procura vale osservare che questa Corte ha stabilito che, quando la procura al difensore è apposta in calce o a margine del ricorso per cassazione, essa viene a costituire un corpus inscindibile con esso, sicché il requisito della specialità sussiste non soltanto se il testo della procura contenga un espresso riferimento al giudizio di legittimità che la parte intende intraprendere, ma anche se esso nulla dica in proposito ovvero se in particolare per l’impiego di timbri — richiami altri gradi o fasi del giudizio, unitamente o meno al ricorso per cassazione (v. in molteplici fattispecie Cass. 16 settembre 1996, n. 8282; Cass. 20 settembre 1996, n. 8372; Cass. 26 novembre 1996, n. 10498; Cass. 1° aprile 1997, n. 2842; Cass. 18 settembre 1997, n. 9287; Cass. 30 marzo 1999, n. 3034; Cass., Sez. Un., 10 aprile 2000, n. 108; Cass. 18 aprile 1998, n. 3981; Cass. 3 settembre 1998, n. 8739; Cass. 29 aprile 1998, n. 4357; Cass., Sez. Un., 17 dicembre 1998, n. 12615; Cass. 22 marzo 1999, n. 2659; Cass. 13 ottobre 1999, n. 11516; Cass. 19 novembre 1999, n. 12838; Cass. 5 aprile 2000, n. 4171; Cass. 28 settembre 2000, n. 12870; Cass. 25 gennaio 2001, n. 1058; Cass. 19 aprile 2002, n. 5722; Cass. 5 maggio 2004, n. 8528; Cass. 7 marzo 2006, n. 4868; Cass. 4 febbraio 2000, n. 1241; Cass. 4 febbraio 2000, n. 1243; Cass. 11 agosto 2000, n. 10732; Cass. 18 luglio 2002, n. 10443; Cass. 8 gennaio 2001, n. 200; Cass. 6 marzo 2003, n. 3349; Cass. 2 febbraio 2006, n. 2340; Cass. 31 marzo 2007, n. 8060; Cass. 3 luglio 2009, n. 15692; Cass. 17 dicembre 2009, ti. 26504).
Va per il resto rammentato che non è requisito di validità della procura alle liti la leggibilità della sottoscrizione del conferente apposta in calce ad essa: nulla dispone in proposito la legge, sicché ciascuno firma come usa fare. E tuttavia questa Corte fa seguire all’affermazione di principio dell’irrilevanza dell’illeggibilità della sottoscrizione da parte del conferente la procura alle liti la precisazione che l’illeggibilità è irrilevante «ove l’autore sia identificabile, con nome e cognome, dal contesto dell’atto medesimo, in quanto ciò consente di affermare, pur in presenza di firma illeggibile, la riferibilità della procura alla persona, come effetto dell’autenticazione compiuta dal procuratore» (Cass. 19 marzo 2007, n. 6464; Cass. 9 marzo 2006, n. 5134). Ha in particolare avuto rilievo, in passato, il problema della illeggibilità della sottoscrizione, quando quest’ultima provenisse dal legale rappresentante di una persona giuridica. Ma sul punto occorre far riferimento all’indirizzo delle Sezioni Unite le quali hanno affermato che l’illeggibilità della firma del conferente la procura alle liti, apposta in calce od a margine dell’atto con il quale sta in giudizio una società esattamente indicata con la sua denominazione, è irrilevante, non solo quando il nome del sottoscrittore risulti dal testo della procura stessa o dalla certificazione d’autografia resa dal difensore, ovvero dal testo di quell’atto, ma anche quando detto nome sia con certezza desumibile dall’indicazione di una specifica funzione o carica, che ne renda identificabile il titolare per il tramite dei documenti di causa o delle risultanze del registro delle imprese. In assenza di tali condizioni, ed inoltre nei casi in cui non si menzioni alcuna funzione o carica specifica, allegandosi genericamente la qualità di legale rappresentante, si determina nullità relativa, che la controparte può opporre con la prima difesa, a norma dell’art. 157 c.p.c., facendo così carico alla parte istante d’integrare con la prima replica la lacunosità dell’atto iniziale, mediante chiara e non più rettificabile notizia del nome dell’autore della firma illeggibile; ove detta integrazione difetti, sia inadeguata o sia tardiva, si verifica invalidità della procura ed inammissibilità dell’atto cui accede (Cass., Sez. Un., 7 marzo 2005, n. 4814; Cass., Sez. Un., 7 marzo 2005, n. 4816; Cass., Sez. Un., 7 marzo 2005, n. 4810; la successiva giurisprudenza si è conformata, v. da ult. Cass. 5 luglio 2017, n. 16634).
Al che resta soltanto da aggiungere che il nominativo dei conferenti nella loro qualità risulta, salvo quanto si aggiungerà, dall’intestazione del ricorso.
E’ però inammissibile il ricorso proposto da […]: a parte il fatto che non riesce a capirsi come questa società possa essere ancora in vita, vista la già ricordata intestazione di uno dei ricorsi a «[…] (già […])», sta di fatto che né in calce all’una, né in calce all’altra copia del ricorso la procura alle liti è sottoscritta per detta società.

8. — Il ricorso va respinto.

8.1. Il primo motivo è inammissibile ai sensi dell’articolo 360 bis, n. 1, c.p.c., la cui applicazione va effettuata in conformità ai principi affermati da Cass., Sez. Un., 21 marzo 2017, n. 7155.
Questa Corte ha difatti già stabilito che l’arbitrato rituale ha natura giurisdizionale per cui l’impugnazione del lodo è soggetta alla disciplina e ai principi che regolano il giudizio di appello, in quanto compatibili.
Ne consegue che, in caso di tardiva iscrizione a ruolo, l’impugnazione è improcedibile, trovando applicazione l’articolo 348, primo comma, c.p.c. e non l’art. 171 c.p.c. (Cass. 18 giugno 2014, n. 13898). D’altro canto il motivo non offre argomenti per mutare l’orientamento della Corte, dal momento che esso poggia sull’ormai consolidato indirizzo, confermato dalle Sezioni Unite (Cass., Sez. Un., 25 ottobre 2010, n. 24153), che riconosce la natura giurisdizionale dell’arbitrato.
Quanto alla memoria illustrativa, vi viene invocato il principio formulato da Cass., Sez. Un., 6 settembre 2010, n. 19051, che però è stato riconsiderato, sulla scia di alcuni precedenti, dalla già citata Cass., Sez. Un., 21 marzo 2017, n. 7155, ben nota, giacché resa dalle Sezioni Unite su questione di massima di particolare importanza, oggetto di contrasto, la quale ha stabilito che la violazione dell’art. 360 bis c.p.c.. determina inammissibilità, anche del singolo motivo, e non manifesta infondatezza.
Per il resto, l’affermazione contenuta in memoria, secondo cui la natura giurisdizionale dell’arbitrato sarebbe stata ribaltata in epoca successiva alla pronuncia di Cass. 18 giugno 2014, n. 13898 è totalmente destituita del benché minimo fondamento, come emerge dalla semplice trascrizione, senza pretesa alcuna di completezza, delle assortite massime che seguono:
Cass. 26 maggio 2014, n. 11634: In tema di arbitrato, anche prima dell’introduzione dell’art. 824 bis c.p.c. da parte del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, gli effetti tra le parti del lodo arbitrale rituale erano equiparabili a quelli della sentenza, avendo l’attività degli arbitri natura giurisdizionale e sostitutiva della funzione del giudice ordinario.Ne consegue che degli effetti favorevoli al condebitore del lodo reso tra il creditore ed uno dei condebitori solidali prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 40 del 2006 può giovarsi altro condebitore solidale che non sia stato parte del giudizio arbitrale, applicandosi pure al lodo non impugnabile l’effetto espansivo della sentenza previsto dall’art. 1306, secondo comma, c.c.
Cass. 13 agosto 2014, n. 17908: E’ inammissibile l’appello avverso la decisione del tribunale declinatoria della propria competenza a favore degli arbitri rituali, poiché l’attività di questi ultimi ha natura giurisdizionale e sostitutiva della funzione del giudice ordinario, sicché la relativa questione può essere fatta valere solo con regolamento di competenza.
Cass. 7 aprile 2015, n. 6909: In tema di interpretazione del patto compromissorio, anche con riferimento alla disciplina applicabile prima della introduzione dell’art. 808 ter c.p.c. ad opera del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, il dubbio sull’interpretazione dell’effettiva volontà dei contraenti va risolto nel senso della ritualità dell’arbitrato, tenuto conto della natura eccezionale della deroga alla norma per cui il lodo ha efficacia di sentenza giudiziaria.
Cass. 12 novembre 2015, n. 23176: Anche prima delle modifiche introdotte dal d.lgs. n. 40 del 2006 deve ritenersi che l’attività degli arbitri rituali abbia natura giurisdizionale e sostitutiva della funzione del giudice ordinario, sicché lo stabilire se una controversia spetti alla cognizione dei primi o del secondo si configura come questione di competenza. Ne consegue che la mancata impugnazione della declinatoria di competenza del giudice ordinario ed il conseguente giudicato formatosi sulla competenza degli arbitri preclude ogni discussione non solo sull’atto che ne sta alla base (la clausola compromissoria), ma anche sulla pronuncia arbitrale che ne costituisce lo sviluppo, ove non impugnata per ragioni ulteriori e diverse da quelle riguardanti la competenza.
Cass. 25 ottobre 2016, n. 21523: In tema di arbitrato rituale, l’art. 819-ter c.p.c., introdotto dall’art. 22 del d.lgs. n. 40 del 2006, il quale prevede l’impugnabilità con il solo regolamento di competenza delle pronunce affermative o negative della competenza in relazione ad una convenzione di arbitrato, si applica a tutte le sentenze pronunciate dopo l’entrata in vigore della citata disposizione (2 marzo 2006), a prescindere dalla data di instaurazione del relativo processo. La soluzione interpretativa si impone in ragione della riconosciuta natura giurisdizionale dell’arbitrato rituale ed in applicazione del principio tempus reit actum, per il quale, in assenza di diversa disposizione transitoria, il regime di impugnabilità dei provvedimenti va desunto dalla disciplina vigente quando essi sono venuti a giuridica esistenza.
(Nella specie, la S.C. ha ritenuto inammissibile l’impugnazione proposta avverso la sentenza di merito che aveva dichiarato improponibile la domanda, dovendo tale pronuncia essere rettamente intesa quale sentenza declinatoria della competenza in favore degli arbitri e, dunque, impugnabile soltanto con il regolamento necessario di competenza).
Né può ricostruirsi, come si sostiene contro l’evidenza nella memoria illustrativa, l’esistenza di un diverso orientamento a partire da Cass. 30 ottobre 2014, n. 23074, non a caso neppure massimata dal competente ufficio, giacché essa, lungi dall’adottare una posizione critica rispetto a quella della notissima citata decisione delle Sezioni Unite poc’anzi richiamata (decisione che Cass. 30 ottobre 2014, n. 23074 neppure cita, come non cita Cass. 18 giugno 2014, n. 13898, il che rende sorprendente l’assunto di parte ricorrente), si cimenta con un problema totalmente diverso, quale quello della distinzione tra arbitrato rituale e irrituale, adottando una formula tralaticia priva di ogni rilievo nomofilattico.

8.2. — poi manifestamente infondato il secondo motivo.
Ed infatti, affinché un orientamento del giudice della nomofilachia non sia retroattivo come, invece, dovrebbe essere in forza della natura formalmente dichiarativa degli enunciati giurisprudenziali, ovvero affinché si possa parlare di prospettive overruling , devono ricorrere cumulativamente i seguenti presupposti: che si verta in materia di mutamento) della giurisprudenza su di una regola del processo; che tale mutamento sia stato imprevedibile in ragione del carattere lungamente consolidato nel tempo del pregresso indirizzo, tale, cioè, da indurre la parte a un ragionevole affidamento su di esso; che il suddetto overruling comporti un effetto preclusivo del diritto di azione o di difesa della parte (Cass. 11 marzo 2013, n. 5962).
Nel caso di specie, discorrere di imprevedibilità del mutamento giurisprudenziale (che peraltro neppure riguarda una regola del processo) in ordine alla natura dell’arbitrato, di cui è diretta conseguenza il principio che vuole applicabili all’impugnazione per nullità le regole dell’appello, ovviamente nei limiti della compatibilità, è del tutto fuor di luogo, dal momento che:
a) la natura «privata» dell’arbitrato è stata avversata da larga parte della dottrina anche nel circoscritto arco temporale in cui la giurisprudenza di questa Corte vi ha prestato adesione, sicché su detta ricostruzione non si è mai formato un generale consenso tale da giustificare l’affidamento degli operatori del diritto;
b) il ritorno alla tesi della natura giurisdizionale dell’arbitrato è diretta ed ineluttabile conseguenza della riforma di cui al decreto legislativo 2 febbraio 2006, n. 40, ed in particolare dell’articolo 824 bis c.p.c., il quale, stabilendo che il lodo ha gli effetti della sentenza pronunciata dall’autorità giudiziaria implica che il procedimento che conduce alla pronuncia del lodo abbia natura assimilabile a quella giurisdizionale;
c) del resto già la Consulta aveva ammesso gli arbitri a sollevare la questione di legittimità costituzionale (Corte cost., n. 376/2001), qualificando l’arbitrato come «procedimento previsto e disciplinato dal codice di procedura civile per l’applicaione obiettiva del diritto nel caso concreto, ai fini della risoluzione di una controversia, con le garanzie di contraddittorio e di imparzialità tipiche della giurisdizione civile ordinaria».
La memoria illustrativa non contiene argomenti ulteriori meritevoli di replica.

[…]