Corte di Cassazione, Ssez. I, Sentenza n. 2717 del 2007, dep. il 7 febbraio 2007

[…]

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il consorzio […]. ricevette in concessione dal Presidente della Regione […], quale […] per gli interventi di cui alla L. 14 maggio 1981, n. 219, la costruzione di alloggi; tale concessione fu successivamente estesa, con convenzione del […]1985, a seguito di ordinanza commissariale […]1985, n. […], anche alla realizzazione di opere viarie (“[…]”); infine con atto aggiuntivo del […]1990 le parti rinegoziarono la concessione stabilendo la realizzazione delle opere previste fino all’importo di L. 268.863.327.473.
Essendo insorta controversia tra le parti, con atto del 2 aprile 1997 il […] introdusse giudizio arbitrale facendo valere riserve, formulate dalle imprese appaltatrici cui aveva affidato l’esecuzione dei lavori, riguardanti quantità non riconosciute e non contabilizzate (le riserve nn. 6, 7, 8, 9, 12, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 21, 22, 23, 24, 25, 26, 27, 28 e 29) ed equo compenso per anomalo andamento lavori (la riserva n. 11).
Con lodo del 22 giugno 2000 il collegio arbitrale, accogliendo in parte la domanda, condannò […] – subentrata per legge nella posizione del concedente – al pagamento, in favore del consorzio concessionario, di varie somme nonché dei due terzi delle spese. Avverso il lodo proposero impugnazione principale […] e impugnazione incidentale il consorzio […].
Con sentenza del 7 dicembre 2001 l’adita Corte di appello di Napoli ha accolto il primo e il terzo motivo del ricorso principale, dichiarando assorbiti i restanti motivi del medesimo nonché il ricorso incidentale, ed ha, per l’effetto, rigettato la domanda proposta dal consorzio davanti agli arbitri e condannato il medesimo consorzio alle spese del giudizio d’impugnazione.
La Corte, nell’accogliere il primo motivo dell’impugnazione principale, ha affermato che il lodo era affetto da ultrapetizione nella parte in cui aveva riconosciuto al consorzio il risarcimento del danno per illegittima sospensione dei lavori in relazione al ritardo, rispetto ai tempi contrattualmente stabiliti, con cui era stata dal concedente approvata una variante resasi necessaria in corso d’opera (fatto illecito): infatti la domanda in realtà formulata dal consorzio con la riserva, con l’atto di accesso al procedimento arbitrale, con i quesiti e con le conclusioni finali era di equo compenso – ai sensi dell’art. 14 del capitolato generale di appalto approvato con D.P.R. 16 luglio 1962, n. 1063 e dell’art. 1664 c.c. – per l’anomalo andamento dei lavori (fatto lecito), e “la domanda volta al risarcimento del danno per inadempimento contrattuale è domanda nuova e, in ogni caso, è stata proposta soltanto con la comparsa conclusionale”.
Quindi la Corte ha precisato che esulava dal giudizio d’impugnazione la questione, non riproposta dall’impugnante, della tempestività della riserva concernente la pretesa di cui si è detto; ha dichiarato assorbito il secondo motivo dell’impugnazione principale, incentrato sulla prova del danno invocato dal consorzio, nonché il quarto motivo dell’impugnazione incidentale, con cui veniva censurato il disconoscimento del mancato utile per il periodo di fermo e degli oneri di progettazione per la variante; ha escluso che la dichiarazione di nullità parziale del lodo comportasse il passaggio alla fase rescissoria, dato che il consorzio non aveva riproposto la domanda di equo compenso con impugnazione incidentale condizionata. La Corte ha inoltre accolto il terzo motivo dell’impugnazione principale, con cui […] aveva denunciato violazione delle norme sull’interpretazione dei contratti, con riguardo all’atto aggiuntivo del […]1990, per avere gli arbitri ritenuto che esso configurasse un rapporto di concessione di opera “a misura” e non “a forfait”.
Ha in proposito premesso che andava esclusa l’applicazione del principio – in sostanza invocato dall’impugnante – della prevalenza del criterio letterale rispetto agli altri indicati dalla legge (in claris non fit interpretatio); che decisiva era, invece, l’individuazione della comune intenzione delle parti, senza limitarsi al senso letterale della parole usate (art. 1362 c.c.); che l’unico vizio ammissibilmente denunciabile in sede di impugnazione del lodo, in punto di interpretazione del contratto da parte degli arbitri, è la violazione delle regole legali di ermeneutica (artt. 1362 c.c., e ss.), non essendo ammessa neppure la denuncia di omessa o insufficiente motivazione di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5; che, posto che il dato letterale (nella specie l’uso, nell’atto, dell’espressione “a forfait”, anziché dell’espressione “a misura”) può essere superato dall’interprete, “il sindacato di questo giudice dovrà necessariamente consistere nei controllo delle ragioni che hanno indotto gli arbitri a ritenere quel dato insufficiente ai fini della ricostruzione della comune volontà delle parti. Il che si traduce, in sede d’impugnazione per nullità, in un problema di qualificazione, vale a dire nel controllo dei criteri adottati dagli arbitri per la individuazione del tipo contrattuale voluto dalle parti”.
Tanto premesso, la Corte di merito ha individuato due argomentazioni essenzialmente valorizzate dagli arbitri, sulla scorta della consulenza tecnica di ufficio, a tal proposito: la prima consistente nel rilievo che le parti, dopo aver definito “a forfait chiuso” il corrispettivo, avevano fatto riferimento alle opere individuate in un allegato (l’allegato C) costituito dai computi metrici descrittivi delle categorie di lavori oggetto del contratto, deducendone che vi era stato un preciso richiamo ad essi per la determinazione del corrispettivo contrattuale; la seconda consistente nel rilievo che nell’atto aggiuntivo in questione non erano richiamati i progetti esecutivi delle opere, che invece costituivano elemento indispensabile per poter qualificare “a forfait” il contratto, dato che la progettazione esecutiva definisce la prestazione dell’esecutore.
Ha quindi ritenuto che entrambe le argomentazioni fossero “del tutto inessenziali” nell’individuazione del tipo contrattuale e che, pertanto, non configurassero “un elemento ermeneutico tale da superare la denominazione adoperata per designare il tipo di appalto che, per la qualità stessa delle parti (ex art. 1368 cod. civ.) doveva ritenersi ad esse ben noto”.
Infatti, posto che si ha appalto a corpo allorché viene stabilito quale corrispettivo una somma determinata, fissa ed invariabile, riferita globalmente all’opera nel suo complesso, il mero riferimento ai computi metrici non influiva sulla determinazione del corrispettivo stesso, “una volta che le parti avevano stabilito il prezzo fisso ed invariabile di L. 268.863.327.473 per le opere indicate nell’allegato C, con questo chiaramente significando che l’allegato in questione fungeva da esclusivo riferimento alle opere da realizzare e non già ai prezzi”. In ogni caso, il riferimento ai prezzi a misura è necessario a tutt’altri fini come del resto impone il R.D. n. 350 del 1985, art. 118, anche per l’appalto a forfait – ossia per la determinazione degli importi da liquidare secondo gli stati di avanzamento e per la valutazione delle opere difformi da quelle previste contrattualmente, soprattutto quando si rendono necessarie delle varianti.
Inoltre, se è vero che, nell’appalto a corpo, l’opera deve essere determinata anche nelle dimensioni, con progetti esecutivi assai dettagliati, è anche vero che tale dettagliata determinazione può essere rinviata “ad un momento successivo alla stipulazione del contratto e cioè agli accordi integrativi (come sembra sia avvenuto nel caso di specie)”.
Da ciò la Corte di appello ha tratto la conclusione che “nessuno dei criteri indicati dagli arbitri è determinante ai fini della qualificazione del contratto”. E ha poi aggiunto che neppure costituiva impedimento alla qualificazione del contratto come appalto a corpo la circostanza – segnalata sempre dal consulente tecnico di ufficio nel procedimento arbitrale – che le misurazioni e le successive contabilizzazioni fossero state eseguite con sistemi tipici dei contratti a misura, dato che l’accordo integrativo del 1990 prevedeva tabelle parametriche per il calcolo degli stati di avanzamento in percentuale del totale dei lavori. In definitiva, “non sussisteva, dunque, alcuna ragione per svalutare il dato letterale in favore di un’interpretazione essenzialmente fondata sulla difficoltà del CTU di calcolare gli importi dei singoli SAL”.
Dichiarata, per tali ragioni, la nullità del lodo anche per il relativo capo, la Corte di appello ha conseguentemente dichiarato assorbito il quarto motivo dell’impugnazione principale e i primi tre motivi di quella incidentale. Ha inoltre precisato, anche qui, che non vi era luogo a passare alla fase rescissoria del giudizio, perché tutte le riserve sollevate dal consorzio attenevano a variazioni quantitative derivanti da determinazioni a misura, e l’errata quantificazione rientrava nell’alea dell’appalto a corpo. Avverso tale sentenza il […] ricorre per tre motivi, cui resiste […] con controricorso contenente anche ricorso incidentale per un motivo.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. – Va preliminarmente disposta la riunione dei ricorsi principale e incidentale, riguardanti la medesima sentenza (art. 335 c.p.c.).
2. – Il primo motivo del ricorso principale riguarda la nullità del lodo quanto al capo relativo ai danni per sospensione dei lavori. Il consorzio ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 816 e 829, n. 7, in relazione agli artt. 183 e 184 c.p.c., Lamenta che la Corte di appello abbia annullato il lodo per ultrapetizione dando illegittimamente rilievo alla circostanza che la domanda risarcitoria fosse stata, nel procedimento arbitrale, proposta soltanto con la comparsa conclusionale – mentre in precedenza era stata proposta soltanto domanda indennitaria – quasi, che nel procedimento arbitrale si applichino le preclusioni di cui agli artt. 183 e 184 c.p.c.. Vero è, invece, secondo il ricorrente, che le norme riguardanti il processo giurisdizionale si applicano a quello arbitrale solo in caso di espresso accordo dei compromettenti, in mancanza del quale – come nel caso in esame – ciò che conta è soltanto il rispetto del principio del contraddittorio. E anche tale principio era stato nella specie rispettato, poiché dopo il deposito della memoria conclusionale del consorzio era stato dagli arbitri consentito quello di ben due ulteriori, memorie da parte dell'[…], oltre a procedersi alla discussione orale, e l'[…] non aveva mai eccepito la tardività della domanda.
Il ricorrente lamenta, altresì, la contraddittorietà della motivazione della sentenza impugnata, avendo i giudici prima accertato che il consorzio aveva introdotto, per quanto solo nella memoria conclusionale e di replica, il tema del ritardo nell’esame della variante quale causa del fermo dei lavori, e poi affermato che il collegio arbitrale aveva rilevato di ufficio il corrispondente illecito del concedente.
2.1. – Il motivo è fondato sotto il profilo della violazione di legge. La motivazione della sentenza impugnata non è, infatti, contraddittoria, essendone invece ben chiaro e coerente il senso (ancorché incongrui i riferimenti normativi, individuati dai giudici negli artt. 99 e 112 c.p.c.), consistente nel rilievo della tardività – e dunque inammissibilità – della domanda risarcitoria in concreto accolta dagli arbitri, sul presupposto che nel procedimento arbitrale non sarebbe consentita l’introduzione di domande nuove con la comparsa (o memoria) conclusionale. Tale rilievo, tuttavia, è errato in diritto, alla luce della costante giurisprudenza di questa Corte (formatasi nel vigore della disciplina dell’arbitrato anteriore alla riforma del 1994, ma applicabile anche a quella successiva – qui rilevante ratione temporis – non innovativa sul punto), secondo cui nell’arbitrato rituale, ove le parti non abbiano vincolato gli arbitri all’osservanza delle norme del codice di rito, è consentito alle medesime di modificare ed ampliare le iniziali domande, senza che trovino applicazione le preclusioni di cui agli artt. 183 e 184 c.p.c. (ora, a seguito della novella di cui alla L. 26 novembre 1990, n. 353, viene in considerazione il solo art. 183, riguardando l’art. 184 c.p.c., la diversa materia delle deduzioni istruttorie), purché sia rispettato il principio del contraddittorio (Cass. 8320/2004, 5371/2001, 8937/2000, 1620/2000, 12517/1993, 323/1962 resa a sezioni unite). Detta considerazione è sufficiente per cassare sul punto la sentenza impugnata, senza che rilevi l’esame dell’ulteriore, distinto profilo – pure dedotto dal ricorrente – del rispetto nella fattispecie del principio del contraddittorio, dato che tale aspetto non è oggetto di alcuna statuizione da parte dei giudici (nè risulta dalla sentenza essere stato oggetto di censura, con l’impugnazione del lodo, da parte dell’interessata […]).
3. – Con il secondo motivo, riguardante la dichiarazione di nullità del lodo nella parte residua, il ricorrente principale censura la qualificazione del rapporto come appalto (recte, concessione) a misura sulla base dell’atto aggiuntivo del 1990. Denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 c.c., e ss., e dell’art. 829 c.p.c., n. 4, ult. parte, il Consorzio deduce che la Corte di appello:
a) pur negando, in teoria, che in sede di impugnazione del lodo l’interpretazione del contratto ivi contenuta sia censurabile per vizi motivazionali, ha in concreto finito proprio per censurare quel tipo di errore degli arbitri, atteso che il “controllo dei criteri adottati dagli arbitri”, teorizzato nella sentenza, è cosa ben diversa dal “controllo delle ragioni che hanno indotto a ritenere il dato letterale insufficiente”, che poi nella medesima sentenza viene dichiaratamente praticato;
b) è incorsa in macroscopica contraddizione allorché, dopo aver affermato che l’art. 1362 c.c. “impone all’interprete di non limitarsi al senso letterale delle parole”, ha poi ritenuto di dover controllare “le ragioni che hanno indotto gli Arbitri a ritenere insufficiente il dato letterale”, mentre, come riconosciuto dalla stessa Corte, è la norma di diritto ad imporre l’estensione anche in altre direzioni dell’accertamento sulla comune intenzione delle parti;
c) pur essendosi ripromessa di controllare quelle ragioni, ne ha poi, in concreto, esaminato soltanto due, male interpretandole, ed ha tralasciato le altre;
d) ha violato il R.D. n. 350 del 1895, art. 118, affermando che questo imporrebbe, anche nell’appalto a forfait, di far riferimento ai prezzi a misura;
e) si è basata – quanto all’affermazione relativa agli accordi integrativi sulle determinazioni delle opere successivi al contratto – su ipotesi di fatti che potrebbero essersi verificati, invece che su fatti verificatisi certamente.
3.1. – Il motivo è fondato nei sensi che seguono.
La Corte di appello, pur dichiarando di accogliere l’indiscusso principio che l’interpretazione del contratto è riservata agli arbitri e che il giudice dell’impugnazione del lodo deve limitarsi a controllare il rispetto delle regole di diritto – in particolare dei criteri ermeneutici stabiliti dagli artt. 1362 c.c. e ss.- senza che gli sia consentita neppure la verifica della sussistenza di vizi motivazionali quali quelli che, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, legittimano il ricorso per Cassazione avverso le sentenze dei giudici, finisce, poi, per disattendere vistosamente, in concreto, tale principio allorché procede a quello che definisce il “controllo della ragioni che hanno indotto gli arbitri a ritenere” il dato letterale (l’espressa qualificazione del contratto come a forfait) “insufficiente ai fini della ricostruzione della comune volontà della parti”.
Anzitutto è bene precisare, per chiarezza, che non è esatto che – come sostiene la Corte di appello – il controllo predetto si traduca “in un problema di qualificazione, vale a dire nel controllo dei criteri adottati dagli arbitri per la individuazione del tipo contrattuale voluto dalle parti”. La qualificazione giuridica, ossia la riconduzione del contratto ad un determinato tipo o schema legale, invero, presuppone la ricostruzione in fatto dalla comune volontà delle parti; ed è appunto di tale ricostruzione, come operata dagli arbitri, che si è occupata la Corte di appello.
Tanto chiarito, può ammettersi che, in linea di principio, non sia del tutto precluso al giudice dell’impugnazione del lodo il controllo delle ragioni che abbiano indotto gli arbitri, nella ricostruzione della comune volontà delle parti, a superare il dato meramente letterale; ma tale controllo può essere esercitato esclusivamente alla stregua delle regole del diritto (ai sensi dell’art. 829 c.p.c., comma 2, sempre che gli arbitri non siano stati autorizzati a decidere secondo equità o con lodo non impugnabile) e giammai può estendersi al controllo di logicità o, addirittura, al diretto sindacato della valutazione che, sulla base dei concorrenti elementi disponibili, compreso quello letterale, gli arbitri abbiano compiuto per ricostruire la comune volontà delle parti. In altri termini, se, nel motivare la ricostruzione di tale volontà, gli arbitri siano incorsi in errori giuridici, questi rientrano nel sindacato consentito al giudice dell’impugnazione del lodo; ma se, invece, non vengano rilevati siffatti errori, qualsiasi censura da parte del giudice è illegittima, in quanto evidentemente esercitata sui residui piani – a lui preclusi – della logicità della motivazione (supposta, ovviamente, esistente e non talmente inadeguata da non consentire la ricostruzione dell’iter logico seguito dagli arbitri per giungere a una determinata conclusione, viceversa essendo ammesso il sindacato di legittimità ai sensi del combinato disposto dell’art. 829 c.p.c., comma 1, n. 5 e art. 823 c.p.c., comma 2, n. 3: v., in particolare, Cass. 12550/2000), o, addirittura, delle valutazioni di merito.
Ciò, invece, è quanto accaduto nel caso di. specie, in cui la Corte di appello non ha rilevato alcun errore giuridico commesso dagli arbitri nel motivare la ricostruzione della comune volontà della parti, ma ha soltanto sovrapposto la propria alla loro valutazione degli elementi di prova nella ricostruzione di quel fatto. Non sono, invero, altro che valutazioni di merito – implicanti una ponderazione e comparazione di tali elementi (specificamente di quelli valorizzati dagli arbitri, da un lato, e del dato letterale, dall’altro) al fine di stabilirne il valore probatorio nella ricostruzione della volontà delle parti – quelle in base alle quali la Corte di appello ha censurato l’interpretazione data dagli arbitri alle previsioni dell’atto aggiunto del 1990. Così è a dirsi, manifestamente, sia quanto all’affermazione – vera base su cui poggia il ragionamento dei giudici – che “le parti avevano stabilito il prezzo fisso ed invariabile di L. 268.863.327.473 per le opere indicate nell’allegato C, con questo chiaramente significando che l’allegato in questione fungeva da esclusivo riferimento alle opere da realizzare e non già ai prezzi”; sia quanto all’affermazione che “si scorge agevolmente come entrambe le argomentazioni degli arbitri siano del tutto inessenziali al fine della individuazione del tipo e, pertanto, non configurino un elemento ermeneutico tale da superare la denominazione adoperata in contratto per designare il tipo di appalto che, per la qualità stessa delle parti (ex art. 1368 cod. civ.) doveva ritenersi ad esse ben noto”; sia, infine, quanto alle conclusive affermazioni che “nessuno dei criteri indicati dagli arbitri è determinante ai fini della qualificazione del contratto” e che “non sussisteva, dunque, alcuna ragione per svalutare il dato letterale in favore di un’interpretazione essenzialmente fondata sulle difficoltà del CTU di calcolare gli importi dei SAL”.
Le suesposte considerazioni comportano la cassazione della sentenza impugnata per la relativa parte e assorbono ogni altro profilo di censura dedotto con il motivo in esame.
4. – Nell’accoglimento del motivo che precede resta assorbito, altresì, l’esame del terzo motivo del ricorso principale, con cui si lamenta che la Corte di appello abbia coinvolto nell’annullamento del lodo, disposto a causa della errata interpretazione del contratto come appalto (concessione) a misura, invece che a forfait, anche domande del concessionario in realtà non pregiudicate da tale qualificazione. Con la cassazione della sentenza sul punto sopra esaminato, infatti, la definizione della questione della nullità o meno del lodo per aver affermato l’avvenuta stipulazione di un contratto a misura è rimessa al giudice di rinvio, e con essa le ulteriori questioni sollevate con il motivo di cui si discute – riguardanti l’estensione dell’eventuale nullità – che parimenti restano aperte nella fase di rinvio.
5. – La cassazione della sentenza impugnata comporta anche l’assorbimento del ricorso incidentale, con cui è denunciata l’omessa pronuncia, da parte della Corte di appello, sulle spese di difesa nel procedimento arbitrale nonché per il funzionamento e il compenso del collegio, che […] aveva chiesto fossero poste a carico del consorzio. Anche la relativa questione resta aperta nella fase di rinvio.
6. – In conclusione, per effetto dell’accoglimento del primo e del secondo motivo del ricorso principale, la sentenza impugnata va cassata con rinvio al giudice indicato in dispositivo, il quale si atterrà ai seguenti principi di diritto:
A) nell’arbitrato rituale, ove le parti non abbiano vincolato gli arbitri all’osservanza delle norme del codice di rito, è consentito alle medesime di modificare ed ampliare le iniziali domande, senza che trovino applicazione le preclusioni di cui all’art. 183 c.p.c. (salvo il rispetto del principio del contraddittorio);
B) l’interpretazione data dagli arbitri al contratto e la relativa motivazione sono sindacabili, nel giudizio di impugnazione del lodo per nullità, soltanto per violazione di regole di diritto; dunque non è consentito al giudice dell’impugnazione sindacare ne’ la logicità della motivazione (ove esistente e non talmente inadeguata da non permettere la ricostruzione dell’iter logico seguito dagli arbitri per giungere a una determinata conclusione), ne’ la valutazione degli elementi probatori operata dagli arbitri nell’accertamento della comune volontà delle parti. Il giudice di rinvio provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità. […]