Corte di Cassazione, Sez. Prima, Ordinanza n. 8222 del 2020, dep. il 27.04.2020

[…]

FATTI DI CAUSA

La Corte d’appello di Brescia con sentenza del 30 aprile 2018 ha respinto l’impugnazione avverso la decisione di primo grado, la quale, in accoglimento della domanda proposta da […] nei confronti del coniuge separato […], ha dichiarato che oggetto della comunione legale dei coniugi alla data del 5 maggio 2011 erano tutti i beni in proprietà della società […] s.n.c., dalla quale la prima era receduta con lettera del 3 agosto 2009.
La corte territoriale ha affermato, per quanto ancora rileva, che:
a) in punto di fatto, fra i coniugi vigeva il regime patrimoniale della comunione legale dei beni; b) pertanto, la società costituita fra i coniugi è oggetto dell’azienda coniugale di cui all’art. 177, lett. “d”, ed i beni acquistati dalla società sono entrati a far parte della comunione legale, ai sensi della lett. “a” di tale disposizione; c) per reputare i beni in titolarità della società, sarebbe stato necessario che l’atto costitutivo di questa fosse stato redatto per atto pubblico, necessario ai fini del mutamento convenzionale del regime patrimoniale, ai sensi degli artt. 162 e 191 c.c., in quanto ciò avrebbe coinciso con lo scioglimento della comunione di coniugi sull’azienda coniugale; d) il 14 aprile 2011 il […] con scrittura privata autenticata da notaio ha dato atto del recesso della […] dalla società, partecipata dai due coniugi, ed il 5 maggio 2011 egli, revocato lo stato di liquidazione della società di cui era rimasto l’unico socio, ha trasformato la società in nome collettivo in impresa individuale; e) tuttavia, tali operazioni ed, in particolare, il recesso della socia hanno solo comportato la cessazione della cogestione dell’azienda, lasciando sussistere la comproprietà di tutti i beni aziendali in capo ad entrambi i coniugi ed il regime di comunione legale fra i medesimi.
Avverso questa sentenza viene proposto ricorso per cassazione dal soccombente, fondato su quattro motivi. Si difende l’intimata con controricorso.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – I motivi proposti dal ricorso possono essere come di seguito riassunti:
1) violazione e falsa applicazione degli artt. 162, 177, 179, 191 e 2697 c.c., 112, 115, 116 c.p.c., per essere la corte territoriale incorsa in ultra ed extra-petizione, in quanto essa – a fronte di una domanda di accertamento del diritto di comproprietà sui beni immobili e mobili registrati, in titolarità della società, formulata dall’attrice nel suo atto di citazione – ha ritenuto, d’ufficio„ esistente una cogestione di azienda coniugale ed il difetto di un’idonea forma della convenzione matrimoniale per la costituzione di una società di persone tra le parti, pur in assenza di domande dell’attrice al riguardo e di qualsiasi cenno in tal senso nella stessa sentenza del Tribunale di Brescia, nonché, comunque, della contestazione dell’istante su tali profili;
2) violazione delle predette disposizioni e dell’art. 132 c.p.c., con nullità della sentenza, per avere la corte d’appello reso una motivazione meramente apparente, afferente i suddetti elementi di fatto e di diritto, mai introdotti in giudizio;
3) violazione e falsa applicazione di una serie di disposizioni in materia di comunione legale, di azienda coniugale, di trasformazione della società e di recesso del socio, oltre che degli artt. 100, da 112 a 116 c.p.c., avendo la sentenza impugnata del tutto ignorato che l’attrice chiese semplicemente l’accertamento del preteso diritto di comproprietà dei beni sociali e che, in presenza di una società personale, al socio receduto spetta unicamente la liquidazione della quota sociale; né il richiamo all’art. 177, lett. d), c.c. è corretto, dal momento che tra i soci, come è pacifico anche nella sentenza impugnata, fu costituita una società e che solo questa era proprietaria dei beni afferenti il suo patrimonio; a ciò, si aggiunga che mai la coniuge ha dedotto di avere cogestito alcunché, onde la circostanza è stata arbitrariamente individuata ed affermata dalla corte del merito;
4) violazione delle medesime disposizioni di cui al motivo che precede, nonché dell’art. 132 c.p.c., con nullità della sentenza, per avere la decisione impugnata reso una motivazione meramente apparente, afferente i suddetti elementi di fatto e di diritto mai introdotti in giudizio.
2. – Il secondo ed il quarto motivo, da trattare con priorità sotto il profilo logico, sono infondati, avendo la corte del merito esposto un’argomentazione completa e diffusa, nel pieno rispetto del principio costituzionale della motivazione delle sentenze.
3. – Il primo ed il terzo motivo, del pari da trattare congiuntamente in quanto pongono le medesime questioni, sono fondati.
Dal contenuto dell’atto di citazione che, in ossequio al principio di specificità di cui all’art. 366 c.p.c., risulta dal ricorso introduttivo, emerge come l’attrice, dopo avere narrato che tra i coniugi fu costituita la […] s.n.c. e che ella era receduta dalla società, propose la domanda di accertamento della circostanza «che i beni, già facenti parte del patrimonio della snc, erano di proprietà anche dell’attrice e che pertanto andava dichiarata la proprietà comune degli stessi…», riportando espressamente il giudice di primo grado la domanda come volta ad accertare e dichiarare « “la titolarità in capo a sé del diritto di comproprietà dei beni immobili e mobili registrati” già di proprietà della società […] snc, società costituita in costanza di matrimonio tra le parti, le cui quote appartenevano ad entrambi i coniugi nella misura del 50% ciascuno» (così la sentenza di primo grado, riportata nel ricorso). Ha aggiunto il tribunale come fra le parti fosse incontestato l’avvenuto recesso della moglie dalla società nel 2009.
A fronte di tale allegazione, costituisce violazione dei principi della domanda e della corrispondenza del chiesto al pronunciato la individuazione – mai dedotta – di una azienda coniugale e della cogestione della medesima in capo ai coniugi.
Della allegazione e della prova di tali circostanze, infatti, la sentenza impugnata non dà affatto conto, limitandosi ad una riqualificazione ex officio della situazione, dopo avere introdotto tuttavia essa stessa, del pari d’ufficio, nuovi fatti al proprio esame.
In sostanza, dal mero regime della comunione legale dei coniugi, accertato come esistente al momento della costituzione della società, nonché dall’allegazione attorea dell’esistenza di una società di persone e del proprio recesso dalla medesima, con domanda di attribuzione di beni sociali, la corte d’appello ha fatto d’ufficio derivare l’allegazione di una circostanza diversa: non più il dedotto recesso da una società personale tra i coniugi, ma l’avvenuto esercizio in cogestione di un’azienda coniugale.
Al riguardo, giova appena precisare che i regimi dello svolgimento di attività d’impresa nell’ambito della famiglia possono assumere qualificazioni giuridiche diverse, da cui deriva una differente disciplina regolatrice dei rispettivi rapporti: l’azienda coniugale ex art. 177, comma 1, lett. d), l’azienda appartenente ad un solo coniugi con mera comunione degli utili e degli incrementi ex art. 177, comma 2, l’impresa gestita individualmente da uno dei coniugi ex art. 178, l’impresa familiare ex art. 230-bis e -ter, la società di persone di cui agli artt. 2251 ss., le società di capitali, sino al cd. patto di famiglia ex art. 768-bis.
Prima ancora, sono diversi i presupposti integrativi di ciascuna fattispecie: onde non compete al giudice di sostituire i fatti, allegati da una parte come costitutivi di una disposizione normativa, con i fatti che meglio si adattino a rappresentare gli elementi integrativi di una fattispecie (con i relativi effetti) diversa, che egli intenda applicare.
Invero, a tacer d’altro:
– l’azienda coniugale di cui all’art. 177, lett. d), c.c. ricade nella comunione legale fra i coniugi, che vi assumono posizione paritaria, in quanto l’azienda è acquisita in costanza di matrimonio e viene gestita da entrambi (Cass. 23 maggio 2006, n. 12095), che divengono dunque coimprenditori; la mera comproprietà dell’azienda non è, pertanto, idonea a far presumere, di per sé, la necessaria cogestione di entrambi i coniugi e l’esistenza di un’azienda coniugale ex art. 177, lett. d), c.c.; la cogestione, o gestione da parte di entrambi i coniugi, deve essere effettiva e reale, pur senza particolari accordi o formalità;
– l’esistenza della cogestione quale elemento essenziale della fattispecie differenzia tale istituto dalla mera collaborazione che si attua nell’impresa familiare, di cui all’art. 230-bis c.c., ove vi è una semplice partecipazione del coniuge all’attività aziendale, interamente imputata al titolare dell’impresa (cfr. Cass., sez. un., 6 novembre 2014, n. 23676; Cass. 2 dicembre 2015, n. 24560; Cass. 18 gennaio 2005, n. 874; Cass. 15 aprile 2004, n. 7223; Cass., 18 dicembre 1992, n. 13390);
– fra i coniugi può ben esistere una società, come ex lege confermato dall’art. 230-bis, comma 1, c.c. (nonché, per le convivenze, dall’art. 230-ter c.c.); l’esistenza di un atto costitutivo vale proprio a segnalare che non di mera gestione di azienda coniugale in comunione si tratta, ma di titolarità dell’azienda in capo all’ente collettivo; ciò avviene nell’esercizio dell’autonomia negoziale dei coniugi nel decidere le regole organizzative per l’esercizio collettivo di un’impresa, avendo il legislatore del 1975 permesso ai soli coniugi in regime di comunione legale dei beni di avvalersi di una particolare modalità organizzativa e disciplina dell’impresa collettiva, mediante la cd. impresa coniugale; l’individuazione della scelta societaria è agevole in presenza della stipula di un atto costitutivo formale, il quale esonera l’interprete da più complesse interpretazioni della volontà dei coniugi, i quali, in tal modo, hanno reso esplicita la fattispecie prescelta, proprio in ragione della più efficiente e completa disciplina societaria per l’esercizio di un’attività produttiva, che soddisfa l’esigenza di regole e modelli certi e la trasparenza dei rapporti con i terzi; in tal caso, non il coniuge socio, ma la società personale è il soggetto imprenditore, in quanto titolare di un interesse sovraindividuale, dotato di autonoma soggettività e sottoposto allo statuto dell’imprenditore commerciale (cfr. artt. 2266, 2659, 2839 c.c.) (cfr., fra le altre, Cass., sez. un., 6 novembre 2014, n. 23676 e Cass. 13 ottobre 2015, n. 20552); ne deriva che la disciplina sussidiaria dell’impresa familiare è recessiva, in presenza di rapporto tipizzato, dotato di regolamentazione compiuta ed autosufficiente, quale quello societario, mentre «nessun diritto esigibile può essere reclamato, nemmeno dal socio, sui beni acquisiti al patrimonio sociale, e tanto meno sugli incrementi aziendali, durante societate» (Cass., sez. un., 6 novembre 2014, n. 23676, in motiv.), potendo solo parlarsi di liquidazione della quota del socio uscente; né si pongono, al riguardo, problemi di pubblicità, atteso il regime dell’iscrizione dell’atto costitutivo nel registro delle imprese, il quale, anche quanto alla tutela dei terzi, permette ai medesimi di accertare agevolmente la situazione aziendale, dopo l’iscrizione tutelandosi specificamente l’affidamento dei terzi in ordine all’applicazione del regime giuridico dai coniugi prescelto.
Pertanto, qualsiasi diverso inquadramento dei fatti nelle astratte ipotesi di legge, operato dal giudice pur nell’ambito del suo potere di qualificazione della domanda, è ammesso solo sino al limite in cui esso non immuti i fatti prospettati dalle parti, non potendo l’esercizio di qualificazione giuridica comportare la modifica officiosa della domanda proposta.
In tal senso è la costante giurisprudenza di legittimità (cfr., con riguardo sia al giudizio di cassazione, sia a quello di merito: Cass. 12 agosto 2019, n. 21333; Cass. 28 giugno 2018, n. 17015; Cass. 9 aprile 2018, n. 8645; Cass. 28 luglio 2017, n. 18775).
Infatti, nel processo civile, l’applicazione del principio iura novit curia, di cui all’art. 113, comma 1, c.p.c., importa la possibilità per il giudice di assegnare una diversa qualificazione giuridica ai fatti ed ai rapporti dedotti in lite, nonché all’azione esercitata in causa, ricercando le norme giuridiche applicabili alla concreta fattispecie sottoposta al suo esame, potendo porre a fondamento della sua decisione principi di diritto diversi da quelli erroneamente richiamati dalle parti: ma tale condotta è limitata dal divieto di ultra ed extrapetizione, di cui all’art. 112 c.p.c., in applicazione del quale è precluso al giudice pronunziare oltre i limiti della domanda e delle eccezioni proposte dalle parti, mutando i fatti costitutivi o quelli estintivi della pretesa, ovvero decidendo su questioni che non hanno formato oggetto del giudizio e non sono rilevabili d’ufficio.
Resta, in particolare, preclusa al giudice la decisione basata non già sulla diversa qualificazione giuridica del rapporto, ma su diversi elementi materiali che inverano il fatto costitutivo della pretesa (Cass. 24 luglio 2012, n. 12943). Infatti, costituisce domanda nuova la deduzione di una nuova causa petendi„ la quale comporti, attraverso la prospettazione di nuove circostanze, il mutamento dei fatti costitutivi del diritto fatto valere in giudizio e, introducendo nel processo un nuovo tema di indagine e di decisione, alteri l’oggetto sostanziale dell’azione ed i termini della controversia; conseguentemente ricorre la violazione dell’art. 112 c.p.c. quando il giudice, integrando o sostituendo in tutto o in parte gli elementi della causa petendi, ponga a fondamento della pronunzia un fatto giuridico costitutivo diverso da quello dedotto dall’atto e dibattuto in giudizio (Cass. 16 luglio 2002, n. 10316).
Il principio è costante in ogni settore del diritto sostanziale (cfr. es. Cass. 27 settembre 2011, n. 19736, con riguardo a diverse eccezioni nella fideiussione) ed è stato applicato specificamente con riguardo al limitrofo istituto dell’impresa familiare, dove, avuto riguardo al fatto costitutivo allegato dalla parte come al bene giuridico preteso, si è qualificata nuova, perché afferente a diritti eterodeterminati, la domanda diretta a conseguire gli utili ancora dovuti al momento della cessazione del rapporto di collaborazione segnata dalla morte del titolare dell’impresa, rispetto ad un’iniziale domanda rivolta da un coerede nei confronti degli altri coeredi al fine di conseguire una quota dell’azienda e la conseguente ripartizione degli utili (sul presupposto dell’esistenza di quote in base alle quali determinare gli utili da distribuire), con conseguente inammissibile mutatio libelli (Cass. 18 ottobre 2018, n. 26274).
4. – Occorre ancora osservare come, ove tra i soci sussista un regime societario, i beni conferiti in società appartengono al patrimonio di questa, e non dei singoli soci, essendo anche le società personali dotate di soggettività di diritto; ed il recesso di un socio comporta che la partecipazione si concentri in capo al socio superstite, con conseguente scioglimento della società personale di due soci, rimasta con unico socio e successiva liquidazione della società, ove la pluralità non sia ricostituita entro sei mesi, ai sensi dell’art. 2272, comma 1, n. 4, c.c.
In ogni caso, dal recesso del socio deriva il diritto di questi alla liquidazione della quota, il cui valore va determinato ai sensi dell’art. 2289 c.c., tenuto conto del valore patrimoniale al momento dello scioglimento del rapporto sociale: onde occorre richiamare ora i principi, secondo cui in tale liquidazione deve tenersi conto dell’effettiva consistenza della situazione patrimoniale al momento della uscita del socio (fra le altre, Cass. 18 marzo 2015, n. 5449), tenuto conto degli utili e delle perdite inerenti ad «operazioni in corso» alla data del recesso, quali sopravvenienze attive e passive che trovino la loro fonte in situazioni già esistenti a quella data (Cass. 22 aprile 2016, n. 8233).
Va, infine, richiamato il condiviso principio secondo cui il recesso dalla società personale è atto unilaterale recettizio, onde il socio perde tale status al momento della comunicazione del recesso alla società (Cass. 11 settembre 2017, n. 21036; Cass. 8 marzo 2013, n. 5836).
Ne deriva, altresì, che la domanda di accertamento della comproprietà dei beni sociali in capo al socio receduto può essere interpretata alla stregua della domanda di liquidazione della quota sociale, ove ne sussistano i requisiti.
In particolare, con la domanda di liquidazione della quota di una società di persone da parte del socio receduto o escluso si fa valere un’obbligazione della società, non in via diretta degli altri soci; ma, ove siano stati evocati in giudizio tutti i soci, il contraddittorio può dirsi correttamente instaurato (cfr. Cass. 2 aprile 2012, n. 5248); e, in presenza di società di due soci, ove uno receduto, l’altro socio potrà risultare evocato, sulla base dell’esame del concreto contenuto dell’atto di citazione, sia per la società, sia in proprio, quale socio illimitatamente responsabile per le obbligazioni sociali (art. 2267, 2291, 2313 c.c.).
5. – Nel caso di specie, i fatti materiali costitutivi del diritto vantato dalla odierna intimata erano stati dalla medesima, nell’originario atto di citazione, riferiti esclusivamente all’esistenza di una società in nome collettivo tra i coniugi ed al recesso dalla società dalla stessa operato, in epoca anteriore allo scioglimento della comunione tra i coniugi.
Su tali fatti essa aveva, quindi, fondato la conseguente pretesa di vedere riconosciuta in capo a sé la proprietà paritaria dei beni sociali, con automatico passaggio dal regime societario al regime comproprietario, in riferimento ai beni pur intestati a soggetto collettivo autonomo, quale è la società personale, sebbene priva di personalità giuridica.
Tali fatti non sono affatto fungibili con quelli introdotti autonomamente dalla corte del merito, relativi, invece, ad una azienda coniugale gestita da entrambi i coniugi in regime di comunione dei beni, basata su presupposti diversi da quelli fondanti la pretesa azionata; inquadramento che, tra l’altro, ha comportato l’affermazione apodittica, secondo cui «il recesso del socio.., ha comportato la cessazione della cogestione dell’azienda ma non della titolarità dei beni».
In sostanza, i fatti costitutivi, posti a base della domanda originaria proposta, volti a pretendere la attribuzione della quota pari alla metà dei beni sociali, erano carenti di inerenza rispetto al diverso titolo di credito della pretesa accolta, attesa la notevole diversità fra i medesimi, implicante non una mera riqualificazione giuridica, ma la valutazione di una diversa causa petendi.
Si noti, per completezza, che neppure potrebbe farsi applicazione del lato principio espresso da questa Corte a Sezioni unite (Cass., sez. un., 15 giugno 2015, n. 12310, posto che non risulta mai svolta una modifica della domanda ad opera della parte, ma una diretta introduzione di fatti e di causa petendi nuovi da parte del giudice.
6. – Dall’accoglimento dei detti motivi deriva la cassazione della sentenza impugnata, che non ha correttamente applicato i principi della domanda e della corrispondenza del chiesto al pronunciato, con rinvio alla Corte d’appello di Brescia, in diversa composizione, affinché – valutata la possibilità di interpretare la domanda proposta come di liquidazione della quota sociale della allegata società personale fra i coniugi – provveda all’accertamento dell’esistenza e della entità del diritto stesso, al tempo dell’efficacia della comunicazione del recesso, a norma dell’art. 2289 c.c.
La stessa applicherà i seguenti principi di diritto:
«Tra i coniugi in comunione dei beni può essere costituita una società di persone, al cui patrimonio appartengono i beni conferiti in società, essendo anche le società personali dotate di soggettività giuridica.
Il recesso di un socio comporta l’obbligo della liquidazione, a carico della società, della quota di questi, il cui valore va determinato ai sensi dell’art. 2289 c.c., tenuto conto del valore patrimoniale della quota al momento dello scioglimento del rapporto sociale;
La domanda di accertamento della comproprietà dei beni sociali in capo al socio receduto può essere interpretata dal giudice del merito, ove ne sussistano i presupposti, come domanda di liquidazione della quota sociale.
Nel giudizio volto alla liquidazione di quota sociale in favore del socio uscente è legittimata passiva la società, ma l’unico socio superstite può essere convenuto in giudizio sia in nome di questa, sia in proprio, al fine di farne valere la responsabilità per le obbligazioni sociali quale socio illimitatamente responsabile».[…].