[…]
FATTO
Nell’atto introduttivo del primo dei tre epigrafati giudizi, il ricorrente, proprietario di un compendio immobiliare, sito in […], premesso d’avere, tempo addietro, operato un intervento di manutenzione al fabbricato, consistente nel rifacimento di alcuni ambienti, ivi compreso il recupero di uno spazio, sottostante il terrazzo in proprietà sul lato nord (rifacimento delle divisioni interne, al fine di meglio distribuire ed utilizzare gli spazi, destinati ad abitazione e relativi servizi, per le sopravvenute esigenze abitative del proprio figlio), che non avevano comportato modifiche alla sagoma esterna, né aumento di volumetria; lamentava che, “senza valutare i suddetti dati nonché la situazione pregressa”, il Responsabile del Settore Edilizia Privata del Comune di […], con ordinanza n. […]/05, aveva disposto la demolizione delle predette opere, ritenendole completamente abusive; faceva altresì presente d’aver avanzato, nei termini di legge, istanza di sanatoria per le opere di completamento;
tanto premesso, articolava, avverso detto provvedimento, le seguenti censure:
– 1) Violazione e falsa applicazione di legge (artt. 3, 31 e ss. d. P. R. 380/01; l. r. C. n. 35/87; l. r. C. n. 19/01; artt. 151 e 164 d. l.vo n. 490/99; d. l.vo n. 42/2004; art. 36 e 37 del d. P. R. 380/01; artt. 2, 3 e 7 l. 241/90). Eccesso di potere (difetto d’istruttoria, erroneità e perplessità):
– A) l’immobile di cui sopra ricadeva in area, alla quale s’applicava la l r. C. n. 35/87, secondo cui era consentita la realizzazione di opere di ordinaria e straordinaria manutenzione, di restauro, di risanamento conservativo e di ristrutturazione; sicché il Comune “avrebbe, a tutto voler concedere, potuto contestare al ricorrente l’assenza di autorizzazione preventiva ma non ordinare, sic et simpliciter, la demolizione di immobili esistenti da tempo, oggetto di condono, interessati da interventi edilizi minori”; veniva in rilievo, sotto tale profilo, anche la violazione degli artt. 31 e ss. del d. P. R. 380/01;
– B) inoltre il Comune, oltre che disattendere tale disciplina, aveva ritenuto d’applicare l’art. 3 del citato T. U. E., concernente gli interventi di nuova costruzione, senza fornire alcuna idonea motivazione, atteso che l’atto impugnato si limitava ad elencare opere, realizzate in assenza del “permesso di costruire”, richiamando, in maniera generica, norme statali e regionali, e disponendo la demolizione delle opere contestate; laddove, “per correttamente operare, sarebbe stato anche necessario indicare in dettaglio le norme ritenute violate, nonché il tipo d’accertamento svolto”, al fine di verificare se la rimozione, parziale od integrale, delle opere ritenute abusive avrebbe potuto compromettere l’intero fabbricato; ancora, “le menzionate opere, eventualmente da autorizzare in sanatoria, ovvero oggetto di condono del 1985”, erano “ampiamente compatibili con le vigenti prescrizioni urbanistiche ed ambientali, non avendo comportato alterazioni delle sagome volumetriche”; da cui la denunziata, erronea, applicazione dell’art. 3 d. P. R. 380/01 cit. e della conseguente sanzione demolitoria;
– C) inoltre l’Amministrazione aveva emesso provvedimento demolitorio, “senza preventivamente valutare l’accertamento di conformità delle opere ai sensi degli artt. 36 e 37 del d. P. R. 380/01 e dell’art. 181, co 1 quater, del d. l.vo 42/04”.
Si costituiva in giudizio il Comune di […], eccependo l’inammissibilità, e, comunque, sostenendo l’infondatezza del gravame, evidenziando che l’area, sulla quale era stato realizzato l’abuso, ricadeva in zona a vincolo paesaggistico ed ambientale, ex D. M. 22.11.1955 ed in zona d’interesse paesaggistico ed ambientale, ai sensi del vigente strumento urbanistico.
Nell’imminenza della discussione, il ricorrente depositava memoria conclusiva, della quale si darà conto infra, dopo l’esposizione delle censure degli altri ricorsi in trattazione, e depositava documentazione fotografica.
All’udienza pubblica del 13 febbraio 2018, il ricorso era trattenuto in decisione.
Con il secondo dei giudizi in epigrafe, il ricorrente, qualificandosi “proprietario di un immobile sito su più livelli, catastalmente individuato in CT. al foglio 3, part.lla 572 (ex 307)”, immobile, destinato a civile abitazione, che aveva subito, nel corso degli anni, varie modifiche nonché interventi di risanamento, necessari al mantenimento delle condizioni minime di salubrità, e che in particolare era stata oggetto, prima del 2003, di piccoli lavori di ampliamento ed adeguamento alla destinazione abitativa, per il nucleo familiare del figlio, lavori oggetto di domanda di condono, faceva presente che, a seguito del giudizio penale, richiamato nell’ordinanza impugnata, era stata emessa sentenza con la quale il Tribunale di Amalfi, pur rilevando la prescrizione del reato d’abuso, aveva condannato il ricorrente alla demolizione della parte, non ancora assentita; ma, stante l’impossibilità di demolire, senza inficiare la parte di fabbricato legittimo, il ricorrente aveva presentato, alla Procura della Repubblica di Salerno, istanza di sospensione dell’ingiunzione a demolire e richiesta d’applicazione della sanzione alternativa, ex art. 34 d. P. R. 380/2001 (il relativo procedimento, incardinato con il numero di R. G. 13/2013, era “in itinere”); che nelle more, a seguito di sopralluogo della P .M. di Amalfi del luglio 2013, erano state riscontrate alcune opere minori, non costituenti aumenti di volumetria, a corredo dell’abitazione, consistenti nella:
– 1) posa in opera di pavimentazione e di ringhiera in ferro delle dimensioni di circa m. 13,00 di lunghezza e m.. 1,00 di altezza, su di un esistente terrazzo delle dimensioni di circa 13,00 m. x 2,30 m.;
– 2) realizzazione, in adiacenza al preesistente fabbricato, di un terrazzo, in luogo di un giardino preesistente, pavimentato in parte con piastrelle e in parte con battuto di cemento, avente forma irregolare, pari a circa mq. 70, protetto a valle da una ringhiera in ferro;
– 3) realizzazione, nell’angolo sud del terrazzo, di cui al n. 1), e in aderenza all’appartamento, di un piccolo locale lavanderia, costituito da murature perimetrali e copertura in lamiere coibentate, avente dimensione in pianta pari a m. 2,30 x m. 1,00, con altezza massima pari a m. 2,00 e altezza minima pari a m. 1, 70;
– 4) installazione di una ringhiera in ferro, lungo il perimetro dell’esistente lastrico di copertura, di dimensioni complessive pari a m. 11,00 di lunghezza per m. 1,05 di altezza, con conseguente modifica della destinazione d’uso, da lastrico solare in terrazzo praticabile, delle dimensioni pari a circa m. 6,00 x m. 5,30;
tanto premesso, lamentava che il Responsabile dell’Area Tecnica del Comune di […], “senza tener conto della entità delle opere e della possibilità di assentirle in sanatoria”, e “senza neanche dare comunicazione dell’avvio del procedimento, ai sensi dell’art. 7 della l. 241/90”, aveva emesso il provvedimento demolitorio impugnato, avverso il quale articolava le seguenti censure:
I) VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DI LEGGE (artt. 1, 2, 3, 7 della l. 241/90 e succ. mod.; l. r. C. 35/87; artt. 3, 9, 31, 33, 36 e seguenti del d. P. R. 380/01; d. l.vo 42/04; d. P. R. 139/2010); Violazione e falsa applicazione del principio del buon andamento della pubblica amministrazione; ECCESSO DI POTERE (difetto del presupposto legale e d’istruttoria – arbitrarietà – sviamento – illogicità manifesta):
A) Il vizio che “sovrastava ogni altro” consisteva nell’erronea applicazione delle norme richiamate in rubrica ed in particolare dell’art. 7 della l. 241/90; l’autorità comunale, autonomamente, aveva “ritenuto di procedere all’ingiunzione di demolizione di opere, senza comunicare al ricorrente non solo l’avvio del procedimento (volto) all’emissione dell’ingiunzione stessa, ma addirittura senza comunicare l’ipotesi di una sanatoria edilizia, stante la natura delle opere contestate nonché l’epoca di realizzazione, non consentendo in tal modo, preventivamente, al destinatario dell’atto di partecipare al procedimento”; ne risultava altresì violato anche il principio del buon andamento della P. A., la quale, nell’emanare l’atto, aveva fatto riferimento “ad altro procedimento che al contrario si riferisce ad un aumento di volumetria, apportato in una zona diversa del fabbricato, procedimento per il quale pende domanda di condono edilizio”; si trattava d’errore rilevante, perché non solo si trattava di “ben altra cosa rispetto alle opere contestate, ma anche perché le stesse, essendo opere minori”, erano “sanabili attraverso la procedura agevolata del d. P. R. 139/2010”;
B) ad ogni buon conto, il fabbricato era stato oggetto di opere di risistemazione degli spazi esterni, in particolare: – a) le opere di cui ai nn. 1) e 2) dell’ordinanza impugnata non avevano comportato la realizzazione di alcun nuovo volume e/o superficie, ma semplicemente un’alterazione della preesistente piazzola di pertinenza del fabbricato, attraverso la pavimentazione e l’apposizione di una ringhiera, per cui la stessa rimaneva pur sempre un’area pertinenziale del fabbricato preesistente; – b) l’apposizione della ringhiera di cui al punto 4) dell’ordinanza s’era resa necessaria, per la messa in sicurezza del lastrico solare del piano superiore, al fine di salvaguardare i bambini che ivi risiedevano; – c) il locale descritto al punto 3), invece, era destinato ad impianti tecnologici (caldaia), caratterizzandosi, evidentemente, anche per le sue ridottissime dimensioni, come un volume tecnico; il ricorrente stigmatizzava “la superficialità con cui l’autorità procedente ha condotto l’istruttoria” (rectius “ha omesso di condurre l’istruttoria”), era “eclatante, in quanto, oltre a quanto riferito sopra, l’atto riporta il riferimento all’ordinanza […]/2005, relativa ad altro intervento”; insomma, per il ricorrente era “evidente che l’abitazione, oggetto del provvedimento impugnato, era preesistente nell’attuale consistenza”, non venendo contestato altro che “opere di sistemazione esterna, tutte autorizzabili”, di conseguenza, era “erronea e pretestuosa l’affermazione secondo cui la tipologia dei suddetti interventi avrebbe reso necessario il rilascio di un idoneo permesso a costruire”, e del pari “pretestuosi” apparivano i riferimenti normativi contenuti nel provvedimento impugnato; nonostante i dedotti vizi del provvedimento, il ricorrente segnalava che, “in via tuzioristica”, s’era comunque attivato, per presentare istanza d’accertamento di conformità, relativamente alle suddette opere).
Si costituiva in giudizio il Comune di […], il quale, in riferimento all’avvenuta presentazione, da parte del ricorrente, d’istanza d’accertamento di conformità, eccepiva l’inammissibilità del ricorso, per tale motivo, dovendo il Comune decidere sulla predetta istanza ed eventualmente rinnovare, all’esito, il procedimento sanzionatorio; concludeva, in ogni caso, per il rigetto del ricorso nel merito, in quanto infondato, ribadendo l’inserimento dell’area, nella quale era stato realizzato l’abuso, in zona a vincolo paesaggistico ed ambientale ex D. M. 22.11.1955; nonché in zona d’interesse paesaggistico ed ambientale ai sensi del vigente strumento urbanistico, per di più inserita nel perimetro del Parco Regionale dei Monti Lattari.
Seguiva – nell’imminenza del passaggio in decisione – il deposito della memoria conclusiva e della documentazione fotografica di cui s’è detto sopra; dopo di che, all’udienza del 13 febbraio 2018, il ricorso transitava in decisione.
Nel terzo degli epigrafati giudizi, […] – premessa l’esposizione, in fatto, delle vicende che avevano dato luogo all’emanazione dei provvedimenti di demolizione, impugnati nei precedenti ricorsi – e dopo aver precisato che, in data 15.10.2013, prot. n. […], aveva presentato al Comune di […], per tali opere minori, istanza d’accertamento di conformità, ai sensi degli artt. 36 e 37 del d. P. R. 380/2001, nonché accertamento di compatibilità paesaggistica, ai sensi degli artt. 167 e 181 del d. l.vo 42/04, lamentava che “inaspettatamente, senza dar vita a nessun procedimento istruttorio, né per la richiesta ex artt. 36 e 37 del d. P. R. 380/01 né per l’accertamento di compatibilità paesaggistica, ai sensi degli art. 167 e 181 del d. l.vo 42/04, ma nemmeno per la domanda di condono edilizio, pratica n. 188, ex L. 326/2003”, il Responsabile dell’Area Tecnica del Comune di […], in data 21.02.2014, gli aveva comunicato il preavviso di diniego del condono edilizio, concedendogli il termine di dieci giorni per la presentazione delle memorie, ex art. 10 bis della l. 241/90, memorie prontamente presentate; ma, “senza nessuna ulteriore indagine, e nel giro di pochissimi giorni, lo stesso dirigente del Comune di […] aveva definitivamente denegato la richiesta di condono edilizio, e avverso tale provvedimento articolava le seguenti censure:
– I) VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DI LEGGE (artt. 1, 2, 3, della l. 241/90 e succ. mod.; l. R. C. 35/87; artt. 3, 9, 31, 33, 36 e seguenti del d. P. R. 380/01; d. l.vo 42/04; art. 32 d. l. 269/2003, conv. in l. 326/2003); Violazione e falsa applicazione del principio del buon andamento della pubblica amministrazione – Omessa pronuncia sulla richiesta di accertamento di conformità, ex artt. 36 e 37 d. P. R. 380/01; ECCESSO DI POTERE (difetto del presupposto legale e d’istruttoria – arbitrarietà – sviamento – illogicità manifesta):
– A) il vizio centrale consisteva “nell’erronea applicazione delle norme richiamate in rubrica ed in particolare della violazione e falsa applicazione dell’art. 32 del d. l. 269/2003, conv. in l. 326/2003; il provvedimento impugnato, infatti, si fondava sulla circostanza che le opere, oggetto di condono e di richiesta di sanatoria, erano state realizzate entro il 2000 e, quindi, successivamente all’entrata in vigore del P. U. T. della […] (l. r. C. n. 35/87) e che, ai sensi dell’art. 32, comma 27, lett. d) della l. 326/2003: “Le opere abusive non sono comunque suscettibili di sanatoria, qualora (…) siano state realizzate su immobili soggetti a vincoli imposti sulla base di leggi statali e regionali a tutela degli interessi idrogeologici e delle falde acquifere, dei beni ambientali e paesistici, nonché dei parchi e delle aree protette nazionali, regionali e provinciali qualora istituiti prima della esecuzione di dette opere, in assenza o in difformità del titolo abilitativo edilizio e non conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici”; al contrario, il ricorrente, come già anticipato con la memoria ex art. 10 bis l. 241/90, presentata al Comune di […], sosteneva che l’area interessata dalle opere, oggetto di condono, ricadeva in zona 1b del P. U. T., e non poteva ritenersi d’ostacolo al rilascio del condono edilizio la sola menzione del disposto dell’art. 32 comma 27 lett. d) del d. l. 269/2003, in considerazione della natura relativa, non assoluta, del vincolo d’inedificabilità, derivante dal P. U. T. e gravante sulla zona de qua, conformemente a precedenti giurisprudenziali secondo i quali la suddetta previsione normativa esclude dalla sanatoria le opere abusive realizzate su aree caratterizzate da determinate tipologie di vincoli (in particolare, quelli imposti sulla base di leggi statali e regionali a tutela degli interessi idrogeologici e della falde acquifere, dei beni ambientali e paesaggistici, nonché dei parchi e delle aree protette nazionali, regionali e provinciali), subordinando, peraltro, l’esclusione a due condizioni costituite: a) dal fatto che il vincolo sia stato istituto prima dell’esecuzione delle opere abusive; b) dal fatto che le opere realizzate in assenza o in difformità del titolo abilitativo risultino non conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici; da tale ricostruzione emergeva, quindi, un sistema che ben consente la sanatoria delle opere, realizzate su aree vincolate, in due ipotesi, previste disgiuntamente, costituite dalla realizzazione delle opere abusive prima dell’imposizione dei vincoli (e, in questo caso, trattasi della mera riproposizione di una caratteristica propria della disciplina posta dalle due precedenti leggi sul condono, con riferimento ai vincoli d’inedificabilità assoluta, ex art. 33 comma 1, 1. n. 47 del 1985); ovvero dal fatto che le opere oggetto di sanatoria, benché non assentite o difformi dal titolo abilitativo, risultassero comunque conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici; insomma, “la novità sostanziale della suddetta previsione normativa è costituita proprio dall’inserimento del requisito della conformità urbanistica, all’interno della fattispecie del condono edilizio, così dando vita ad un meccanismo di sanatoria che si avvicina fortemente all’istituto dell’accertamento di conformità, previsto dall’art. 36 del d. P. R. 380 del 2001, piuttosto che ai meccanismi previsti dalle due precedenti leggi sul condono edilizio”; poste tali premesse, in base alla disciplina del d. l. 269 del 2003, “la sanabilità delle opere realizzate in zona vincolata è radicalmente esclusa solo qualora si tratti di un vincolo di inedificabilità assoluta e non anche nella diversa ipotesi di un vincolo di inedificabilità relativa, ossia di un vincolo superabile, mediante un giudizio a posteriori di compatibilità paesaggistica”, essendo ben possibile ottenere la sanatoria delle opere abusive realizzate in zona sottoposta ad un vincolo d’inedificabilità relativa, purché ricorrano le condizioni previste dall’art. 32, comma 27, lett. d), d. l. n. 269 del 2003, conv. in 1. n. 326 del 2003; peraltro, di tale ragionamento non v’era traccia nel preavviso di diniego all’istanza di condono, né nel provvedimento di diniego definitivo, che s’erano limitati alla sola menzione della prefata disposizione legislativa;
– B) inoltre, l’autorità procedente, a distanza di dieci anni dalla domanda di condono e di un anno dalla richiesta d’accertamento di conformità, “con un’ingiustificata accelerazione”, aveva ritenuto opportuno, in circa trenta giorni, “avviare il procedimento di diniego ed il diniego stesso, con un unico provvedimento, scarno di motivazione, pronunciandosi su tutte e due le separate richieste, quella di condono e, sembrerebbe, anche quella di conformità”; ancora, l’autorità procedente s’era pronunciata negativamente, senza esaminare alcuna documentazione, per entrambe le pratiche, atteso che nessuna documentazione illustrativa era stata mai depositata, né tampoco richiesta, dal Comune, in fase istruttoria; e, anche sotto tale aspetto, il diniego, “al buio”, licenziato dall’autorità comunale, appariva “palesemente viziato, anche in riferimento alla entità delle opere”;
– C) ad ogni buon conto, il fabbricato era stato oggetto di opere di risistemazione degli spazi esterni, che, in particolare, non avevano comportato la realizzazione di alcun nuovo volume e/o superficie, ma semplicemente un’alterazione della preesistente piazzola di pertinenza del fabbricato, attraverso la pavimentazione e l’apposizione di ringhiera, per cui, anche all’esito di queste modifiche, essa rimaneva pur sempre “un’area pertinenziale del fabbricato preesistente”; laddove “l’apposizione della ringhiera si è resa necessaria per la messa in sicurezza del lastrico solare del piano superiore, al fine di salvaguardare i bambini che vi risiedono”; ancora, veniva rimarcata “la superficialità” con cui il Comune aveva sostanzialmente omesso di svolgere l’istruttoria, “atteso che (…) l’atto stesso si limita a riferimenti normativi di carattere generale, di cui non si conosce la corretta applicazione”; “erronea e pretestuosa”, di conseguenza, era l’affermazione secondo cui la tipologia dei suddetti interventi avrebbe reso necessario il rilascio di un idoneo permesso a costruire, come pure “pretestuosi” apparivano i riferimenti normativi, contenuti nel provvedimento impugnato; veniva sottolineato, poi, che l’immobile era utilizzato, a scopo abitativo, da decenni, essendo stati apportati solo interventi, mirati ad una migliore vivibilità della stessa; la fattispecie concreta, in definitiva, per il ricorrente, sarebbe stata del tutto diversa da quella ipotizzata nel provvedimento impugnato;
– D) il procedimento risultava viziato anche dalla violazione dell’art. 33, comma 4 del d. P. R. 380/01 (“Qualora le opere siano state eseguite su immobili, anche se non vincolati, compresi nelle zone omogenee A, di cui al decreto ministeriale 2 aprile 1968 n. 1444, il dirigente o il responsabile dell’ufficio richiede all’amministrazione competente alla tutela dei beni culturali ed ambientali apposito parere vincolante circa la restituzione in pristino o la irrogazione della sanzione pecuniaria di cui al precedente comma. Qualora il parere non venga reso entro 90 giorni dalla richiesta il dirigente o il responsabile provvede autonomamente”); nel caso di immobili, anche non vincolati, situati nelle zone omogenee A ed oggetto di ristrutturazioni non consentite, il legislatore aveva perciò ritenuto che, in ordine alla sanzione, dovesse essere “prioritariamente ponderata la scelta tra quella della restituzione in pristino e quella pecuniaria”, ma di tale attività non v’era traccia né nel provvedimento impugnato con il presente ricorso, né nell’ordinanza, impugnata con il ricorso n. 1979/2013; con la conseguenza che i provvedimenti de quibus sarebbero stati “irrimediabilmente viziati da difetto di motivazione”; da ultimo, gli stessi provvedimenti erano viziati, anche per l’assenza d’una espressa pronuncia, circa la richiesta d’accertamento di conformità, ex artt. 36 e 37 del d. P. R. 380/2001; e il ricorrente aveva predisposto “idonea relazione tecnica comprovante la conformità delle opere agli strumenti urbanistici vigenti, circostanza necessaria ai fini della condonabilità e/o sanabilità delle opere”.
Si costituiva in giudizio il Comune di […], con memoria di stile, indi depositando scritto difensivo in cui osservava come controparte contestasse il provvedimento di diniego della domanda di condono edilizio ex L. 326/03, avente ad oggetto la realizzazione di un terrazzo, con superficie pari a circa 40 mq, a livello di casa residenziale (sul prospetto nord); e a tal fine (con unico motivo) deduceva “presunte illegittimità nell’operato della resistente Amministrazione, in quanto avrebbe disatteso il paradigma normativo applicabile nella fattispecie de qua”; premesso che l’intervento, illecitamente realizzato, ricadeva in zona territoriale 1B del P. U. T. “Tutela dell’ambiente naturale – 2° grado”, ed altresì in zona “C – Area di riserva controllata” del Parco Regionale dei Monti Lattari”, che sanciva, nelle relative zone territoriali (tutte di tutela), l’inedificabilità sia pubblica che privata, e che l’opera abusiva era stata realizzata successivamente all’entrata in vigore del P. U. T. (id est: giugno 1987, a fronte di opere eseguite entro il 2000, come dichiarato nella domanda di condono edilizio), in palese contrasto con la normativa urbanistica vigente che, come già innanzi evidenziato, vieta(va) ogni nuova edificazione sia pubblica sia privata, la difesa dell’ente sosteneva la legittimità del diniego, ex adverso impugnato, stante l’efficacia preclusiva dell’art. 32, comma 27, lett. d), della l. n. 326/20033, che esclude la condonabilità delle opere, realizzate in aree vincolate e non conformi alle norme urbanistiche (come specificato infra); nella specie, osservava che con istanza di condono edilizio, ex l. 326/2003, il ricorrente aveva chiesto la sanatoria, per l’illecita realizzazione di “un terrazzo a livello di casa di residenza sul prospetto nord, di superficie di circa mq. 40”; al contempo, dichiarava che l’intervento era stato realizzato entro l’anno 2000 e che, al 31 marzo 2004, i lavori erano parzialmente completati; istruita la pratica, l’Ufficio Tecnico Comunale comunicava, al ricorrente, il preavviso di diniego, ex art. 10 bis l. 241/90, evidenziando l’efficacia ostativa delle norme del P. U. T.; garantito in tal modo il contraddittorio, il Responsabile del Servizio aveva infine notificato il provvedimento di diniego, rilevando l’inidoneità delle osservazioni presentate, dal ricorrente, in vista del superamento dei motivi, ostativi all’accoglimento della domanda di condono; tanto premesso in punto di fatto, la difesa del Comune rilevava l’infondatezza del ricorso, posto che controparte tentava di giustificare la condonabilità dell’intervento abusivamente realizzato, attraverso un’interpretazione fuorviante della normativa applicabile ratione materiae, ovvero ritenendo che il vincolo impresso dal P. U. T. sia qualificabile come “relativo” e, come tale, superabile, ai fini della sanatoria, ma tale affermazione era frutto di una petizione di principio, atteso che l’art. 32, comma 27, lett. d), del D. L. 269/2003, convertito nella l. 326/2003 (cd. terzo condono), letteralmente dispone che: “Fermo restando quanto previsto dagli articoli 32 e 33 della legge 28 febbraio 1985 n.47 (norme che rimandano alla natura assoluta o relativa dei vincoli ed ai relativi effetti), le opere abusive non sono comunque suscettibili di sanatoria, qualora siano state realizzate su immobili soggetti a vincoli imposti sulla base di leggi statali e regionali a tutela degli interessi idrogeologici e delle falde acquifere, dei beni ambientali e paesistici, nonché dei parchi e delle aree protette nazionali, regionali e provinciali qualora istituiti prima della esecuzione di dette opere, in assenza o in difformità del titolo abilitativo edilizio e non conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici”; inoltre, al Comune di […] (essendo sprovvisto di P. U. C.) s’applicano le norme del P. U. T. dell’Area [..] (Legge Regionale n. 35 del 27 giugno 1987) che, come specificato sopra, impongono nell’area, interessata dall’intervento abusivo (zona territoriale 1b – Tutela dell’ambiente naturale – 2° grado) l’inedificabilità, sia pubblica sia privata; del resto il P. U. T., sebbene approvato con legge regionale (dal punto di vista sostanziale), si configura come Piano Urbanistico Territoriale di Coordinamento con specifica considerazione dei valori paesistici ed ambientali, assimilabile, secondo la previsione di cui all’art. 135, comma 2, D. L. n. 42 del 2004 (id est: Codice dei beni culturali e del paesaggio), ad un piano paesistico, lato sensu inteso; sicché le previsioni, contenute nel medesimo, hanno specifica valenza paesaggistica (TAR Campania, Napoli, sez. VII, 9 dicembre 2013, n. 5632). Insomma, l’opera realizzata era “incontrovertibilmente abusiva, stante l’efficacia preclusiva del P. U. T. sia all’epoca della realizzazione dell’intervento, sia alla data di presentazione dell’istanza di condono; ancora, era citato il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui: «La distinzione che si vorrebbe introdurre con riferimento alla predetta lett. d) cit. fra vincoli assoluti e relativi va esclusa, stante il chiaro e piano disposto legislativo che non ha fatto cenno alla stessa (“in claris non fit interpretatio”): la norma, infatti, richiama (in modo indifferenziato) opere che “siano state realizzate su immobili soggetti a vincoli imposti sulla base di leggi statali e regionali”» (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. VI, 6 novembre 2013, n. 4902; Cons. di Stato, sez. IV, 10 agosto 2007, n. 4396); in ogni caso, anche ammettendo la natura relativa del vincolo, era ribadito che l’intervento de quo non era “conforme alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici”, oltre che successivo all’imposizione del vincolo; di conseguenza, in applicazione di consolidata giurisprudenza, l’opera che ricade in area soggetta a vincolo e non risulti compatibile con la normativa edilizia, ai sensi dell’art. 32, comma 27, del citato d. l. 269/2003 (nel testo derivante dalla legge di conversione), non era suscettibile di sanatoria. D’altro canto, ad avviso della difesa dell’ente, controparte avvalorava la propria tesi, censurando l’assenza (nel diniego oggetto del presente gravame) di un’espressa pronuncia sulla richiesta di accertamento di conformità, ex art. 36 del d. P. R. n. 380/2001, presentata dallo stesso, il 15 ottobre 2013, come circostanza sintomatica di un difetto di motivazione; ma andava rimarcata la radicale differenza sussistente tra l’istituto della sanatoria delle opere abusive (rectius: condono) e quello inerente l’accertamento di conformità (ex art. 36 TU Edilizia) (mentre, infatti, nel caso di accertamento di conformità ci si riferisce ad una regolarizzazione di abusi caratterizzati da discordanze di natura formale, il condono edilizio costituisce, invece, una soluzione una tantum con cui lo Stato concede, eccezionalmente e per un periodo di tempo circoscritto, la cancellazione di un abuso sostanziale); l’art. 36, comma 3, T. U. Edilizia, letteralmente dispone che: “Sulla richiesta di permesso in sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione, entro sessanta giorni decorsi i quali la richiesta si intende rifiutata”, ovvero, decorsi sessanta giorni dalla presentazione della richiesta, il silenzio serbato dal Comune è qualificabile come silenzio provvedimentale (con contenuto di rigetto) e non come silenzio – inadempimento all’obbligo di provvedere; il che confortava la legittimità dell’operato dell’Amministrazione; infine, il Comune rilevava che controparte aveva posto in risalto l’apparente esiguità dell’intervento realizzato, che (a suo dire) non avrebbe comportato alcun aumento di volume e/o superficie, ma semplicemente un’alterazione della preesistente piazzola di pertinenza del fabbricato (attraverso la pavimentazione e l’apposizione di ringhiera); e aveva lamentato la mancata applicazione dell’art. 33, comma 4, d. P. R. 380/2001 (prevista per gli interventi di mera ristrutturazione); ma i lavori di pavimentazione e l’installazione di una ringhiera in zona vincolata comportano una modificazione dell’aspetto esteriore dell’edificio; sicché “la puntuale descrizione dell’abuso, nel caso di specie, lascia chiaramente intendere che si è in presenza di una rilevante trasformazione che comporta (accanto alla modifica strutturale dell’area) una sua finalizzazione ancor più consistente, in senso funzionale”.
Seguiva, nell’imminenza della decisione, il deposito di memoria riepilogativa da parte del ricorrente, comune ai tre ricorsi in epigrafe, nella quale il medesimo faceva anche presente d’avere, di recente, depositato al Comune un’istanza di rivalutazione del condono, sulla quale l’ente non s’era, tuttavia, ancora pronunziato.
Alla pubblica udienza del 13 febbraio 2017, anche il terzo ricorso era trattenuto in decisione.
DIRITTO
Preliminarmente, va disposta la riunione dei tre giudizi in esame, stante l’emergenza di evidenti ragioni di connessione, soggettiva e oggettiva, tra gli stessi.
Ciò posto, si rileva che, con l’atto introduttivo del giudizio, parte ricorrente ha impugnato l’ordinanza di demolizione n. […]/2005, notificata il 24.10.2005, relativa alle seguenti opere abusive:
“Realizzazione, in un terrazzamento agricolo situato sul versante nord a livello del piano terra dell’intero edificio, di un manufatto edile destinato ad uso abitativo, di forma pressoché rettangolare, delle dimensioni in pianta interne di mt. 9,80 x mt. 4,50 per un’altezza sempre interna di mt. 2,90. Esso, costituito da murature perimetrali e solaio piano di copertura, risultava suddiviso a mezzo tramezzature interne in due ambienti, un angolo cucina ed un locale W.C. Presentava un vano porta di ingresso di mt. 2,20 x mt. 0,95 sul prospetto nord, mentre sul prospetto est presentava due vani balcone di mt. 2,20 x mt. 1,20 pro capite ed un finestrino di mt. 1,15 x mt. 0,50. Tutti i succitati vani porta e finestra erano completi di infissi in alluminio di colore marrone, mentre le pareti interne ed esterne erano rifinite con intonaci civili. Il manufatto in questione era altresì privo di pavimentazione, di rivestimenti alle pareti del W. C. e dell’angolo cucina mentre l’impianto elettrico, quello idrico e di scarico erano solo predisposti sottotraccia ed i servizi igienici non erano ancora installati”.
La demolizione era ingiunta poiché il manufatto edilizio, sopra descritto, era qualificabile quale “intervento di nuova costruzione”, come definito dall’art. 3, comma 1, lett. e.1) del d. P. R. 380/2001 e s. m. i.; ed era stato realizzato in assenza del permesso di costruire, prescritto dall’art. 10, comma 1, lett. a), del d. P. R. 380/01 e s. m. i., in assenza della preventiva autorizzazione ex art. 159 d. lgs. 42/2004, in violazione del disposto di cui all’art. 5 della l. r. C. 35/87 e s. m. i., in violazione delle norme di salvaguardia per il Parco dei Monti Lattari ed in violazione delle disposizioni di cui alla Parte II, Capo IV del d. P. R. 380/01, nonché della l. r. C. 9/83.
A fronte di tale testuale tenore del provvedimento gravato, le prime due censure di parte ricorrente non sono fondate.
Non condivisibile, anzitutto, si presenta la qualificazione delle opere abusive quali opere (indistintamente) di ordinaria e straordinaria manutenzione, di restauro, risanamento conservativo e ristrutturazione.
In disparte che non viene specificato a quale delle superiori categorie, profondamente diverse tra loro, le opere contestate dovrebbero, in ipotesi, appartenere, è di solare evidenza che “un manufatto edile destinato ad uso abitativo” – come meglio sopra descritto e comportante significativa trasformazione e aumento superficiario e volumetrico dell’edificato – necessiti di permesso di costruire, trattandosi, senz’altro, di un intervento di nuova costruzione.
Tampoco può ritenersi valida l’obiezione di parte ricorrente, circa il difetto di motivazione che inficerebbe l’ordinanza de qua, la quale invece, ad avviso del Collegio, richiama in modo pertinente ed esaustivo le disposizioni, legislative ed urbanistiche, ostative alla realizzazione di opere siffatte, in assenza d’idoneo titolo abilitativo.
Quanto, poi, alla successiva – terza – censura, invero non perspicua, secondo la quale “le menzionate opere, eventualmente da autorizzare in sanatoria, ovvero oggetto di condono del 1985, sono ampiamente compatibili con le vigenti prescrizioni urbanistiche ed ambientali, non avendo comportato alterazioni delle sagome volumetriche”, donde “l’erronea applicazione dell’art. 3 del d. P. R. 380/01 e della sanzione demolitoria”, coniugata alla successiva affermazione, secondo cui “l’autorità procedente ha provveduto ad emettere il provvedimento demolitorio senza preventivamente valutare l’accertamento di conformità delle opere ai sensi degli artt. 36 e 37 del d. P. R. 380/2001 e art. 181, co 1 quater del d. lgs. 42/04”, la stessa, nella misura in cui parrebbe voler far discendere l’illegittimità del provvedimento impugnato dalla mancata considerazione, da parte del Comune, della sua astratta sanabilità, quale conseguenza della dedotta – ma non provata – compatibilità con gli strumenti urbanistici vigenti, è adeguatamente contrastata dall’indirizzo costante della giurisprudenza, che s’esprime in massime del genere delle seguenti: “La compatibilità di un intervento edilizio abusivo con le previsioni di zona dello strumento urbanistico è irrilevante ai fini dell’adozione e della legittimità dell’ordinanza di demolizione, posto che la sanzione in parola si fonda sulla circostanza della realizzazione di un’opera in difetto della prescritta concessione” (Consiglio di Stato, sez. V, 29/08/1994, n. 925); “I provvedimenti di repressione degli abusi edilizi sono atti dovuti con carattere essenzialmente vincolato e privi di margini discrezionali, da adottare a seguito della mera rilevazione dell’esecuzione di un intervento edilizio in assenza del prescritto titolo abilitativo, a nulla rilevando l’eventuale conformità urbanistica e compatibilità paesaggistica delle opere realizzate. In definitiva, presupposto per l’applicazione della sanzione edilizia consiste nel mero difetto del titolo abilitativo, senza che il Comune abbia alcun obbligo di verificare il contrasto delle opere realizzate con le prescrizioni urbanistiche, laddove il ricorrente ha piuttosto l’onere, qualora le opere siano assentibili, di invocarne la sanatoria con le modalità e nei termini all’uopo previsti. Pertanto, ai fini dell’adozione dell’ordine demolitorio è sufficiente la mera enunciazione dei presupposti di fatto e di diritto che consentono l’individuazione della fattispecie di illecito e dell’applicazione della corrispondente misura sanzionatoria prevista dalla legge” (T. A. R. Campania – Napoli, Sez. III, 5/09/2017, n. 4249).
Tuttavia, con la stessa, parte ricorrente pare voglia anche invocare l’efficacia paralizzante, rispetto all’ordinanza di demolizione de qua, della (previa) presentazione di domanda di condono.
La circostanza si precisa, nella narrativa del ricorso n. 1979/2013, nella quale parte ricorrente esplicitamente afferma che “tali opere” (oggetto di demolizione nel 2005) erano state “oggetto di domanda di condono”.
Osserva il Tribunale, inoltre, che, in atti, si rinviene effettivamente (quale allegato alla memoria di costituzione del Comune di […], nel giudizio n. 125/2006), copia del frontespizio di una “domanda relativa alla definizione degli illeciti edilizi”, prot. […] del 10.12.2004, presentata dal ricorrente; orbene, nonostante l’assenza d’ogni specificazione, nel ricorso in trattazione, circa i precisi contenuti della domanda di condono de qua, pur tuttavia, stante la mancanza di qualsivoglia controdeduzione, da parte della difesa del Comune di […], si deve concludere, nel senso che il presente ricorso è, sotto tale aspetto, fondato, in conformità al consolidato orientamento giurisprudenziale, secondo il quale: “È illegittima l’ordinanza di demolizione ex art. 31, d. P. R. n. 380 del 2001 emanata in pendenza dell’esame dell’istanza di condono, in quanto – ai sensi degli artt. 38, 43 e 44, l. n. 47 del 1985 (richiamati dall’art. 32, comma 25, d. l. n. 269 del 2003) – la presentazione dell’istanza di condono determina l’obbligo per l’Amministrazione Comunale di procedere in primo luogo al suo esame, paralizzando il corso dei procedimenti per l’applicazione delle misure repressive fino alla definizione della domanda di sanatoria” (T. A. R. Campania – Napoli, Sez. VIII, 26/09/2017, n. 4507).
Ne consegue, in definitiva, che per tale ragione, il ricorso introduttivo va accolto e l’ordinanza di demolizione, ivi impugnata, va annullata.
Passando al secondo dei ricorsi in epigrafe, esso concerne l’ulteriore ordinanza di demolizione, n. 44 del 19.07.2013, nella quale, “vista l’ordinanza di demolizione dell’U. T. C. n. […] del 18/10/2005 (ovvero quella, impugnata nell’atto introduttivo del giudizio); nonché “vista l’ingiunzione di demolizione n. 22/2013 R. E. S. A. che il Comando di P. M. su delega della Procura della Repubblica di Salerno – Ufficio Esecuzioni Penali – notificava al sig. […], atteso che lo stesso era stato condannato in 1° e 2° grado”; nonché “visto il verbale di sopralluogo prot. n. 340/2-1 del 01/07/2013”, s’ingiungeva, al ricorrente, di demolire le ulteriori opere abusive, realizzate relativamente al compendio immobiliare de quo, consistenti in:
– “1) Posa in opera di pavimentazione e di ringhiera in ferro delle dimensioni di circa mt. 13,00 di lunghezza e m. 1,00 circa di altezza, su di un esistente terrazzo delle dimensioni di circa 13,00 x 2,30 m.;
– 2) Realizzazione in adiacenza del preesistente fabbricato, di un terrazzo, in luogo di un’area giardino preesistente; pavimentato in parte con piastrelle e in parte con battuto di cemento, avente forma irregolare pari a circa mq. 70, protetto a valle una da ringhiera in ferro;
– 3) Realizzazione, sull’angolo sud del terrazzo di cui al primo punto ed in aderenza all’appartamento, di un piccolo locale lavanderia, costituito da murature perimetrali e copertura in lamiere coibentate, avente dimensioni in pianta pari a m. 2,30 x m. 1,00, con altezza massima pari a m. 2,00 ed altezza minima pari a m. 1,70;
– 4) Installazione di una ringhiera in ferro lungo il perimetro dell’esistente lastrico di copertura, di dimensioni complessive pari a m. 11,00 di lunghezza per m. 1,05 di altezza, modificandone la destinazione d’uso da lastrico solare in terrazzo praticabile, delle dimensioni pari a circa m. 6,00 x m. 5,30”.
Quanto alle doglianze, articolate da parte ricorrente avverso detta successiva ordinanza di demolizione, la prima, impingente nell’asserita violazione delle garanzie partecipative, ex art. 7 della l. 241/1990, è priva di pregio, conformemente all’indirizzo giurisprudenziale pacifico, compendiato, ex multis, nella massima che segue: “L’ordine di demolizione è un atto vincolato ancorato esclusivamente alla sussistenza di opere abusive e non richiede una motivazione del concreto interesse pubblico; in sostanza, verificata la sussistenza dei manufatti abusivi, la Pubblica amministrazione ha il dovere di adottarlo, essendo la relativa ponderazione tra l’interesse pubblico e quello privato compiuta a monte dal legislatore; inoltre, in ragione della natura vincolata dell’ordine di demolizione, non è necessaria la preventiva comunicazione di avvio del procedimento” (Consiglio di Stato, Sez. IV, 29/11/2017, n. 5595).
Anche relativamente a tale seconda ordinanza di demolizione, parte ricorrente ha poi sostenuto che le opere abusive, ivi sanzionate, non necessitassero, per la loro tipologia, del rilascio del permesso di costruire; ed ha nuovamente dedotto la “pretestuosità” dei riferimenti normativi, contenuti nel provvedimento impugnato, a giustificazione del potere sanzionatorio esercitato.
Orbene, da tali censure deve motivatamente dissentirsi, trattandosi di opere o comportanti aumento di volumetria (locale lavanderia), o di opere integranti una modifica rilevante dell’assetto planovolumetrico dell’edificio, con creazione di superficie utile calpestabile (realizzazione, in adiacenza del preesistente fabbricato, di un terrazzo, in luogo di un giardino preesistente), ovvero ancora di opere (trasformazione di un lastrico solare in un terrazzo praticabile) sicuramente necessitanti del rilascio del permesso di costruire (quanto all’edificazione del terrazzo e alla modifica di destinazione d’uso del lastrico solare, si tenga presente T. A. R. Sicilia – Catania, Sez. I, 10/11/2008, n. 2068: “Rientra nella nozione di opera edilizia subordinata a permesso di costruire la trasformazione di un lastrico di copertura in terrazzo praticabile, configurandosi una variazione essenziale. In tal senso, infatti, deve ritenersi che la modifica della copertura in terrazza aumenti la superficie utile dell’immobile in quanto idonea a trasformare la natura prevalentemente di protezione del fabbricato, propria del lastrico, destinandola ordinariamente e durevolmente alla fruizione umana, per affaccio e sosta”; nonché la recente sentenza della Sezione, n. 24 del 3 gennaio 2018), restando probabilmente fuori dal novero delle opere, per le quali è indefettibile il rilascio del p. di c., soltanto l’apposizione di pavimentazione e ringhiera su un terrazzo (già adibito a tale uso) preesistente.
Quanto all’eccepito difetto di motivazione, lo stesso non sussiste, posto che – come nell’ordinanza precedente – anche in quella, oggetto dell’attuale esame, sono chiaramente richiamate le disposizioni legislative e le prescrizioni urbanistiche, entro cui l’esercizio del potere, del Comune di […], d’ordinare la demolizione delle opere suddette, s’è collocato.
Neppure rileva – per quanto non fatta segno di un’esplicita censura, ma solo di un accenno al termine del ricorso – la circostanza della presentazione di domanda d’accertamento di conformità, per le opere suddette, ex art. 36 del d. P. R. n. 380/2001, in data 15.10.2013; ciò va posto in relazione al meccanismo di silenzio – rigetto, configurato dall’art. 36 d. P. R. 380/2001 (“Sulla richiesta di permesso in sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione, entro sessanta giorni decorsi i quali la richiesta si intende rifiutata”), in assenza d’impugnativa del provvedimento negativo tacito, in tal modo formatosi.
Del resto, di recente la Sezione ha aderito all’orientamento giurisprudenziale, secondo il quale: “Sul piano processuale, la presentazione dell’istanza di accertamento di conformità non comporta, di per sé, l’improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse del ricorso con il quale si è impugnata l’ordinanza di demolizione posto che gli effetti di quest’ultima sono soltanto temporaneamente sospesi. L’improcedibilità è concepibile solo nell’ipotesi di accoglimento della suddetta istanza, dovendosi attestare in tal modo la piena legittimità dell’opera, la quale ab origine è priva solo formalmente del titolo edilizio” (T. A. R. Campania – Napoli, Sez. III, 27/06/2017, n. 3501).
Ne consegue che alcun effetto d’improcedibilità del ricorso, per carenza sopravvenuta d’interesse, è – diversamente dal ricorso precedente, caratterizzato dalla presentazione di domanda di condono – ravvisabile nella specie.
Il secondo dei ricorsi in epigrafe, in definitiva, dev’essere, per le argomentazioni svolte sopra, respinto.
Né può ritenersi che il citato effetto d’improcedibilità per s. d. i. possa discendere, nella specie, dalla pendenza della domanda di condono, ex d. l. 269/2003, prot. 10127 del 10.12.2004, atteso che – a tacer d’altro – la stessa è stata oggetto d’espresso diniego, prot. n. 1807 del 7.03.2014, da parte del Comune di […], con l’atto gravato nel terzo dei ricorsi in epigrafe.
Passando, quindi, ad esaminare il terzo dei giudizi in trattazione, in cui parte ricorrente ha, per l’appunto, impugnato l’esplicito diniego di condono edilizio, licenziato dal Comune di […] relativamente alla domanda, ex d. l. 269/2003, presentata il 10 dicembre 2004 e acquisita, in pari data, al protocollo generale dell’ente, al n. 10217, concernente la realizzazione, entro l’anno 2000, sine titulo, di “un terrazzo a livello di casa di residenza sul prospetto nord, di superficie di circa mq 40”, osserva il Tribunale come le censure espresse in detto ricorso siano del pari infondate.
Richiamando, al riguardo, l’ampia esposizione della doglianza, di cui in narrativa, e l’altrettanto ampia confutazione della stessa, svolta dalla difesa dell’Amministrazione resistente, ritiene il Collegio che il rigetto della censura discenda, nella specie, dall’applicazione del costante indirizzo della giurisprudenza amministrativo, sintetizzato da ultimo nella massima che segue, secondo la quale: “Ai sensi dell’art. 32 comma 27 lett. d), l. 24 novembre 2003, n. 326, le opere abusive non sono suscettibili di sanatoria, qualora siano state realizzate su immobili soggetti a vincoli imposti sulla base di leggi statali e regionali a tutela degli interessi idrogeologici e delle falde acquifere, dei beni ambientali e paesistici, nonché dei parchi e delle aree protette nazionali, regionali e provinciali, qualora istituiti prima della esecuzione di dette opere, in assenza o in difformità del titolo abilitativo edilizio e non siano conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici; la possibilità di conseguire il condono edilizio è esclusa qualora il vincolo di inedificabilità sia preesistente all’esecuzione delle opere abusive, e le opere realizzate in assenza o in difformità del titolo abilitativo non siano conformi alle norme e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici generali” (T. A. R. Puglia – Lecce, Sez. III, 4/10/2017, n. 1571).
Sotto il profilo della preesistenza del vincolo (le opere sono state dichiarate come realizzate entro l’anno 2000), e della non conformità delle stesse opere alle prescrizioni della strumentazione urbanistica vigente, viene in rilievo – come efficacemente spiegato dalla difesa dell’Amministrazione – la circostanza che “al Comune di […] (essendo inoltre sprovvisto di P. U. C.) si applicano le norme del P. U. T. dell’Area […] (Legge Regionale n. 35 del 27 giugno 1987) che, come specificato in punto di fatto, impongono nell’area interessata dall’intervento abusivo (id est: zona territoriale 1b – Tutela dell’ambiente naturale – 2° grado) l’inedificabilità sia pubblica che privata”.
Quanto alla natura di piano paesistico, lato sensu inteso, del P. U. T. in questione (nonostante la sua approvazione, con legge regionale), rileva la massima seguente: “Il Piano Urbanistico Territoriale prevede norme generali d’uso del territorio dell’area […] e formula direttive a carattere vincolante alle quali i Comuni devono uniformarsi nella predisposizione dei loro strumenti urbanistici o nell’adeguamento di quelli vigenti. Il P. U. T., inoltre, formula indicazioni per la successiva elaborazione, da parte della Regione, di programmi di interventi per lo sviluppo economico dell’area. In considerazione del suo carattere vincolante per i Comuni e della sua specifica valenza di Piano di coordinamento con specifica considerazione dei valori paesaggistici ed ambientali, si spiegano anche le misure di salvaguardia di cui all’art. 5 comma 1, l. reg. n. 35 del 1987, per cui, fatta eccezione per le deroghe previste dai commi successivi, “dalla data di entrata in vigore del Piano Urbanistico Territoriale e sino all’approvazione dei Piani regolatori Generali comunali (ivi incluse le obbligatorie varianti generali di adeguamento ai Piani Regolatori Generali eventualmente vigenti) per tutti i Comuni dell’area è vietato il rilascio di concessioni ai sensi della l. 28 gennaio 1977 n. 10” (T. A. R. Campania – Napoli, Sez. VII, 14/10/2013, n. 4617).
Sicché, in definitiva, nella specie, il rigetto della domanda di condono s’è posto in linea con la disciplina legislativa e con le previsioni della strumentazione urbanistica, alla stessa specificamente applicabili; si tenga presente, al riguardo, per l’aderenza al caso concreto, l’ulteriore massima che segue: “Sono sanabili, ai sensi dell’art. 32 comma 27, lett. d), d. l. 30 settembre 2003 n. 269, convertito dalla l. 24 novembre 2003 n. 326, le opere edilizie abusivamente realizzate in aree sottoposte a specifici vincoli, fra cui quello ambientale e paesistico, purché ricorrano congiuntamente le seguenti condizioni: a) che si tratti di opere realizzate prima dell’imposizione del vincolo, anche se questo non comporta l’inedificabilità assoluta; b), che seppur realizzate in assenza o in difformità del titolo edilizio, siano conformi alle prescrizioni urbanistiche; c) che siano opere di minore rilevanza, corrispondenti alle tipologie di illecito di cui ai nn. 4, 5 e 6, dell’allegato a del d.l. n. 269 del 2003 (restauro, risanamento conservativo e manutenzione straordinaria), senza quindi aumento di superficie; d) che vi sia il previo parere favorevole dell’autorità preposta al vincolo. Da ciò l’incondonabilità delle opere, su area sottoposta a vincolo paesaggistico in quanto rientrante nel P. U. T. dell’area […], in relazione ad abusi rientranti nella tipologia 1 e non conformi alla normativa urbanistico – edilizia” (T. A. R. Campania – Napoli, Sez. VII, 8/05/2015, n. 2572).
Quanto alla doglianza, per cui il diniego di condono sarebbe stato pronunziato “al buio”, senza cioè acquisire, da parte del Comune, alcuna documentazione, la stessa è chiaramente inidonea ad incidere sul predetto nucleo fondante del provvedimento, fondato sulla preesistenza del vincolo e sulla contrarietà delle opere alla strumentazione urbanistica vigente, prevedente per la zona, in cui s’è collocato l’abuso, un vincolo d’inedificabilità assoluta.
Quanto, poi, alla successiva censura, tendente a porre in risalto la scarsa consistenza delle opere a condonarsi, e quindi la loro presunta riconducibilità al regime delle pertinenze immobiliari, con conseguente non necessità del previo rilascio del p. di c., per la loro edificazione (“Il fabbricato, in buona sostanza, è stato oggetto di opere di risistemazione degli spazi esterni, che, in particolare, non hanno comportato la realizzazione di alcun nuovo volume e/o superficie, ma semplicemente una alterazione della preesistente piazzola di pertinenza del fabbricato, attraverso la pavimentazione e l’apposizione di ringhiera, per cui anche avendo fatto queste modifiche rimane sempre un’area pertinenziale del fabbricato preesistente; l’apposizione della ringhiera, invece, si è resa necessaria per la messa in sicurezza del lastrico solare del piano superiore al fine di salvaguardare i bambini che vi risiedono”), valgano le osservazioni che si sono formulate sopra, riguardo all’analoga censura, espressa dal ricorrente nel giudizio, n. 1979/2013 R. G.
L’ulteriore motivo di ricorso, con cui s’è lamentata la mancata applicazione, alla specie, dell’art. 33, comma 4, del d. P. R. 380/2001 (“Qualora le opere siano state eseguite su immobili, anche se non vincolati, compresi nelle zone omogenee A, di cui al decreto ministeriale 2 aprile 1968, n. 1444, il dirigente o il responsabile dell’ufficio richiede all’amministrazione competente alla tutela dei beni culturali ed ambientali apposito parere vincolante circa la restituzione in pristino o la irrogazione della sanzione pecuniaria di cui al precedente comma. Qualora il parere non venga reso entro novanta giorni dalla richiesta il dirigente o il responsabile provvede autonomamente”), è piuttosto riferibile, anziché al diniego di condono, all’ordinanza di demolizione, gravata con il precedente ricorso (n. 1979/2013 R. G.), rispetto alla quale è, però, irrimediabilmente tardiva; in ogni caso, in giurisprudenza s’è osservato che: “La possibilità di verificazione di un pregiudizio per la parte legittimamente edificata, nel caso di esecuzione dell’ordine demolitorio, non incide sulla legittimità dell’ordine di demolizione stesso e, semmai, può rilevare, solo nella fase successiva e su impulso di parte, sempreché la demolizione sia ordinata ai sensi dell’art. 33 o dell’art. 34 d. P. R. n. 380 del 2001, essendo comunque da escludere l’applicazione di un mera sanzione pecuniaria quando la demolizione è ingiunta ai sensi dell’art. 31” (T. A. R. Campania – Napoli, Sez. III, 6/03/2017, n. 1304).
Quanto, infine, alla dedotta mancata considerazione della domanda d’accertamento di conformità del 2013, valgano le osservazioni, già rassegnate, riguardo all’identica censura del ricorso precedente.
In conformità a tutte le predette considerazioni, in definitiva, anche il terzo ricorso in trattazione va respinto.
[…]