Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia Lecce, Sez. Seconda, Sentenza n. 1666 del 2018, pubbl. il 12/11/2018

[…]

FATTO


In data 7 giugno 2017 l’Ispettorato Territoriale del Lavoro di […] effettuava un’ispezione presso la sede dell’attività di laboratorio marmi di […], ubicata in Comune di […], […].

In seguito il Comando Carabinieri per la Tutela del Lavoro – Nucleo Ispettorato del Lavoro […], chiedeva al Comune […].

L’immobile utilizzato dal […] per l’esercizio dell’attività di marmeria, ubicato in area censita come zona E2 “Zona agricola” dal PDF vigente, era stato oggetto di concessione edilizia rilasciata il […]1990, con la quale il Comune […] assentiva la: “Costruzione di un fabbricato rurale”.

Il Responsabile comunale del Settore Urbanistica, Assetto del territorio ed edilizia privata, in seguito ad apposito sopralluogo, rilevava la realizzazione delle seguenti opere, non contemplate nel progetto assentito dalla concessione del 1990: “modifiche interne; in particolare non sono state realizzate le tramezzature interne e il locale deposito è stato accorpato a porzione dei volumi destinati all’abitazione. Il locale cucina non è comunicante con il resto dell’immobile ma ha accesso indipendente dall’esterno; sono state realizzate aperture (porte e finestre) in numero e posizione differenti; è stata ampliata la veranda, che ora circonda il fabbricato anche lungo il lato sud, per una superficie pari a 22 mq; la scala esterna, prevista sul prospetto est, non è stata realizzata; è stata realizzata a est del fabbricato una vasca in cemento fuori terra, per la raccolta dell’acqua, della dimensione di circa 28 mq; cambio di destinazione d’uso rilevante ex art. 23 ter D.P.R. 380/2001 da deposito agricolo e abitazione rurale a laboratorio artigianale”. Il Responsabile concludeva che “In definitiva, trattasi di immobile eseguito in assenza di permesso di costruire art. 31 D.P.R. 380/2001”.

Veniva pertanto emessa l’ordinanza di demolizione n. […] del […]2017 con la quale si ordinava ad […] e ad […], proprietari dell’immobile, di procedere “alla demolizione delle opere descritte in premessa, realizzate in totale difformità dal titolo edilizio rilasciato, e al ripristino dello stato dei luoghi …”

L’ordinanza veniva impugnata con il ricorso introduttivo del presente giudizio, affidato ai seguenti motivi: 1) “Nullità dell’atto per omessa sottoscrizione”, con il quale si rilevava la necessità dell’apposizione della sottoscrizione autografa, in luogo di quella digitale, in calce all’ordinanza di demolizione; 2) “Nullità per difetto di motivazione – Violazione dell’art. 3 della legge 241/90, in relazione all’omessa allegazione di copia dell’atto presupposto. Violazione del principio del <<giusto procedimento>>. Eccesso di potere per difetto d’istruttoria. Malgoverno e sviamento.”, relativo all’omessa allegazione del verbale di sopralluogo; 3) “Nullità per difetto di motivazione – violazione dell’art. 7 L. 241/90, in relazione all’omesso invio della comunicazione di avvio del procedimento”; 4) “Nullità dell’ordinanza per difetto di motivazione – estrema genericità dell’identificazione delle opere”; 5) “Nullità per violazione dell’art. 31 comma 2 D.P.R. 380/2001 che impone all’amministrazione di provvedere all’individuazione dell’area già nell’ordinanza di demolizione”; 6) “Nullità per mancanza dell’atto presupposto della revoca totale o parziale del permesso a costruire”; 7) “Nullità per difetto di motivazione – sviamento ed eccesso di potere – in ordine alla rilevanza dell’interesse pubblico in relazione al tempo intercorso dalla realizzazione dell’opera”; 8) “Violazione dell’art. 3 L. 241/1990. Eccesso di potere per difetto d’istruttoria e motivazione erronea. Illogicità e irragionevolezza manifesta. Malgoverno.”, con il quale si deduceva la non rilevanza del cambio di destinazione d’uso e la qualificabilità, con riferimento ad alcuni degli abusi rilevati dalla p.a. (segnatamente: vasca e veranda), come difformità parziali e non totali, con conseguente asserita applicabilità della sanzione pecuniaria di cui all’art. 34 D.P.R. 380/2001 in luogo di quella demolitoria irrogata dall’amministrazione comunale. Veniva richiesta altresì la sospensione cautelare dell’ordinanza ai sensi dell’art. 55 c.p.a..

Si costituiva in giudizio il Comune […] con atto depositato il 27 marzo 2018, chiedendo la reiezione del ricorso e dell’istanza cautelare.

All’esito della Camera di Consiglio dell’11 aprile 2018, con Ordinanza n. 190 del 12 aprile 2018, veniva concessa la sospensione dell’efficacia del provvedimento impugnato, con compensazione tra le parti delle spese della fase cautelare.

All’udienza pubblica del 9 ottobre 2018 la causa veniva trattenuta in decisione.

DIRITTO

1. Con il primo motivo di ricorso si deduceva la nullità dell’atto amministrativo per difetto di sottoscrizione autografa. Si affermava al riguardo che la firma digitale sarebbe stata consentita solo negli atti redatti nella forma del documento informatico, e che tale forma sarebbe stata utilizzabile dall’amministrazione solo per gli atti emessi in modo seriale ed automatico, non richiedenti motivazioni specifiche da relazionare al caso concreto.

Il quadro normativo attuale smentisce la fondatezza della censura.

Il combinato disposto degli artt. 12, 20, 21, 24 e 40 del D. Lgs. 82/2005 (Codice dell’Amministrazione Digitale), evidenzia come l’azione amministrativa debba esplicarsi, in via generale, mediante provvedimenti adottati nella forma del documento informatico (art. 12 comma 2: “Le pubbliche amministrazioni utilizzano, nei rapporti interni, in quelli con altre amministrazioni e con i privati, le tecnologie dell’informazione e della comunicazione […]”; art. 40 comma 1: “Le pubbliche amministrazioni formano gli originali dei propri documenti, inclusi quelli inerenti ad albi, elenchi e pubblici registri, con mezzi informatici secondo le disposizioni di cui al presente codice e le Linee guida”), il quale soddisfa il requisito della forma scritta (art. 20 comma 1-bis) ed è ordinariamente sottoscritto attraverso firma digitale (art. 21 comma 2-ter), apposta secondo le modalità indicate dagli artt. 24 e ss..

L’invocata limitazione della firma digitale ai soli atti di carattere vincolato e seriale non trova dunque riscontri normativi attualmente vigenti.

Coerentemente con quanto precede, non risultano ratione temporis attinenti al caso di specie i riferimenti giurisprudenziali addotti da parte ricorrente a sostegno della propria tesi. La Corte di Cassazione, nella pronuncia 28 dicembre 2000 n. 16204 riportata in ricorso (la quale sanciva l’invocata limitazione dell’uso del documento informatico ai soli atti seriali e automatici adottati dalla p.a.), si riferiva infatti a un tessuto normativo (art. 3 D. Lgs. 39/1993 e L. 421/1992) oggi superato e radicalmente innovato.

Il quadro attuale si è infatti arricchito di ulteriori fonti normative, nazionali ed europee, che vanno nella direzione di estendere il più possibile l’ambito di digitalizzazione e informatizzazione della p.a.. Tale è l’intento dichiarato della Direttiva Comunitaria 2001/115/CE, attuata con la delega contenuta nell’art. 10 L. 229/2003, esercitata dal Governo mediante il sopra descritto D. Lgs. 82/2005.

Nel senso dell’infondatezza della censura qui in esame si esprime del resto, in modo condiviso dal Collegio, la giurisprudenza amministrativa in sede di applicazione delle disposizioni attualmente in essere: “In generale, rileva il Collegio che l’autografia della sottoscrizione non è configurabile come requisito di esistenza o di validità degli atti amministrativi quando i dati espressi nel contesto documentativo dell’atto permettano di accertarne la sicura attribuibilità a chi deve esserne l’autore; in questi casi, infatti, secondo le disposizioni di cui al d.lgs. 12 febbraio 1993, n. 39 e da ultimo dal d.lgs.7 marzo 2005, n. 82 – Codice dell’amministrazione digitale – e succ. mod., nel caso di emanazione di atti amministrativi mediante sistemi informatici e telematici, la firma autografa è sostituita dall’indicazione a stampa (firma digitale), sul documento prodotto dal sistema automatizzato, del nominativo del soggetto responsabile che ne attesta con certezza l’integrità e l’autenticità della firma.” (T.A.R. Lazio, Roma, Sez. II, 11 maggio 2015 n. 6771).

Il Collegio ritiene pertanto che il provvedimento impugnato sia stato correttamente emesso nella forma del documento informatico e sottoscritto con firma digitale. Quanto al primo motivo, il ricorso deve dunque essere respinto.

2. Parimenti infondato risulta il secondo motivo di ricorso, con il quale si adduceva la violazione, da parte della p.a., dell’art. 3 L. 241/1990 poiché, essendo l’ordinanza di demolizione motivata sulla base delle risultanze del sopralluogo, il verbale del sopralluogo medesimo avrebbe dovuto essere allegato all’ordinanza de qua. Ciò, secondo la prospettazione del ricorrente, sarebbe imposto dall’art. 3 della Legge sul procedimento amministrativo il quale, nel disciplinare la motivazione per relationem, al comma 3 stabilisce: “Se le ragioni della decisione risultano da altro atto dell’amministrazione richiamato dalla decisione stessa, insieme alla comunicazione di quest’ultima deve essere indicato e reso disponibile, a norma della presente legge, anche l’atto cui essa si richiama.”.

Secondo la ricostruzione ermeneutica enucletata dalla giurisprudenza maggioritaria e condivisa dal Collegio, l’art. 3 comma 3 L. 241/1990 deve essere interpretato nel senso che, sulla p.a. che motivi per relationem, grava un duplice onere. In primis, essa deve individuare in modo univoco e specifico il provvedimento richiamato; inoltre, deve renderlo disponibile all’interessato che ne richieda l’accesso ai sensi degli artt. 22 e ss. della medesima legge. Non si impone invece alla p.a. di allegare materialmente l’atto richiamato al provvedimento principale: “Ai sensi dell’art. 3 comma 3, L. n. 241 del 1990, se le ragioni della decisione risultano da altro atto dell’Amministrazione richiamato dalla decisione stessa, insieme alla comunicazione di quest’ultima deve essere indicato e reso disponibile anche l’atto cui essa si richiama, con la conseguenza che non ne è necessaria l’allegazione, essendo sufficiente che l’atto sia messo a disposizione del destinatario del provvedimento e che cioè esso possa essere acquisito utilizzando il procedimento di accesso ai documenti amministrativi. In altri termini, la motivazione del provvedimento deve essere portata nella sfera di conoscibilità legale del destinatario, il che comporta, nella motivazione per relationem, che siano espressamente indicati gli estremi dell’atto richiamato, mentre non è necessario che lo stesso sia allegato, dovendo semplicemente essere messo a disposizione e mostrato su istanza di parte.” (TAR Emilia-Romagna, Parma, Sez. I, 1° luglio 2008 n. 341; cfr: TAR Lazio, Roma, Sez. II, 2 settembre 2005 n. 6534; TAR Lombardia, Milano, Sez. III, 26 gennaio 2004 n. 86).

La censura in esame è dunque priva di fondamento.

3. Si procede ora alla disamina del terzo motivo di ricorso, con il quale si adduceva la violazione dell’art. 7 L. 241/1990 per la mancata comunicazione, da parte della pa, dell’avvio del procedimento che sarebbe esitato nell’ingiunzione di demolizione.

Secondo la giurisprudenza maggioritaria, l’ordinanza di demolizione costituisce un provvedimento vincolato, con la conseguenza che l’eventuale omessa comunicazione dell’avvio del procedimento non produce effetti vizianti sull’atto sanzionatorio emanato ex art. 31 D.P.R. 380/2001: “L’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce attività vincolata della PA con la conseguenza che i relativi provvedimenti – tra cui l’ordinanza di demolizione – costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario l’invio della comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell’atto” (ex pluribus: TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 9 giugno 2015 n. 3119). Ciò, ritiene il Collegio, anche per effetto della dequotazione dei vizi formali conseguente all’art. 21 octies comma 2 L. 241/1990: “Per effetto della dequotazione introdotta dall’art. 21 octies L. 241/1990, nei procedimenti preordinati all’emanazione di ordinanze di demolizione di opere edilizie abusive, l’asserita violazione dell’obbligo di comunicazione dell’avvio dell’iter procedimentale non produce l’annullamento del provvedimento, specie quando emerga che il contenuto dell’ordinanza conclusiva del procedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello che è stato in concreto adottato” (Cons. Stato, Sez. VI, 12 agosto 2016 n. 3620).

La censura è dunque priva di fondamento e va disattesa.

4. Anche il quarto motivo di ricorso, volto a censurare, in termini di difetto di motivazione, l’asserita “estrema genericità dell’identificazione delle opere”, è privo di fondamento. Ritiene infatti il Collegio che il provvedimento demolitorio sia tale da rendere pienamente intelligibile il contenuto delle opere ritenute abusive, specificamente elencate e descritte in modo inequivoco dall’amministrazione comunale.

5. Si prende ora in esame il quinto motivo di ricorso, con il quale parte ricorrente deduceva la violazione dell’art. 31 comma 2 D.P.R. 380/2001 con riferimento alla circostanza che il Comune […] non aveva provveduto ad individuare, già in sede di ordinanza di demolizione, l’area che, in caso di inosservanza all’ordinanza medesima nel termine di 90 giorni, sarebbe divenuta oggetto di acquisizione al patrimonio del Comune ai sensi del successivo comma 3.

Vengono in rilievo, nell’articolata censura, i commi 2 e 3 dell’art. 31 D.P.R. 380/2001. In particolare, in virtù del comma 2 la pa: “accertata l’esecuzione di interventi in assenza di permesso, in totale difformità dal medesimo, ovvero con variazioni essenziali, […] ingiunge al proprietario e al responsabile dell’abuso la rimozione o la demolizione, indicando nel provvedimento l’area che viene acquisita di diritto, ai sensi del comma 3”. Ai sensi del successivo comma 3 invece: “Se il responsabile dell’abuso non provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di 90 giorni dall’ingiunzione, il bene e l’area di sedime, nonché quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive sono acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio del comune. L’area acquisita non può comunque essere superiore a dieci volte la complessiva superficie utile abusivamente costruita”. Le due disposizioni riportate prevedono dunque l’acquisizione, in capo alla p.a., della proprietà di due differenti categorie di beni: a) il manufatto che deve essere abbattuto e l’area di sedime di esso; b) l’ulteriore area che si renda necessaria, secondo il PRG vigente, per la realizzazione di opera analoga a quella abusiva.

Per le aree di cui alla precedente lettera b), l’effetto traslativo della proprietà in favore del Comune non può prodursi in assenza di individuazione della superficie e di specifica motivazione in ordine alla necessità dell’area stessa con riferimento al vigente strumento urbanistico (TAR Campania, Napoli, Sez. III, 1° febbraio 2018 n. 709; TAR Lazio, Roma, Sez. II, 4 gennaio 2018 n. 47).

Sulla scorta di quanto precede, il Collegio ritiene di accedere all’interpretazione secondo la quale l’omessa indicazione dell’area oggetto di acquisizione non determina l’illegittimità dell’ordinanza di demolizione, ma produce il solo effetto di impedire la traslazione della proprietà dell’ulteriore superficie indicata all’art. 31 comma 3 cit.: “In base all’art. 31 comma 3, D.P.R. n. 380 del 2001, l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale degli immobili abusivi e della relativa area di sedime è un effetto automatico ex lege conseguente alla mancata ottemperanza all’ordine di demolizione, non occorrendo pertanto alcuna specificazione, la quale piuttosto è richiesta in vista dell’acquisizione, in ampliamento dell’area strettamente di sedime del manufatto abusivo, dell’eventuale ulteriore area necessaria, fino ad un massimo di dieci volte la superficie occupata dalle opere abusive, per realizzare opere analoghe, secondo le prescrizioni della restante parte del comma 3. Difatti, il destinatario dell’ingiunzione può impedire simile effetto, con la demolizione dell’opera contestata e rendendo così impossibile la futura acquisizione, cosicché detta specificazione è adempimento che caratterizza i provvedimenti successivi all’ordinanza demolitoria, senza pregiudicare l’interessato che non abbia inteso ottemperarvi. Nondimeno, la mancata individuazione dell’area ulteriore non incide sulla legittimità dell’ingiunzione di demolizione, ma impedisce semmai che l’effetto acquisitivo si propaghi oltre l’area di sedime, qualora non risultino elementi adeguati per determinare l’esatta estensione dell’area ulteriore soggetta ad acquisizione in caso di inottemperanza all’ordine di demolizione.” (TAR Campania, Napoli, Sez. III, 7.11.2017 n. 5212).

La legittimità dell’ordinanza di demolizione non è dunque revocata in dubbio dall’omissione della descrizione dell’area oggetto di acquisizione. Anche il quinto motivo risulta dunque infondato.

6. Il sesto motivo di ricorso, con il quale il ricorrente lamentava l’invalidità dell’ordinanza di demolizione per difetto dell’atto presupposto di revoca totale o parziale del permesso di costruire, è parimenti infondato.

Nella fattispecie di causa infatti, la p.a. ordinava la demolizione di manufatti realizzati in difetto di permesso di costruire, in quanto le opere materialmente eseguite non erano state assentite nella concessione edilizia del 1990. Non vi era dunque alcuna ragione logica né giuridica che imponesse l’annullamento e/o la revoca di tale risalente atto abilitativo, del quale l’amministrazione procedente mai poneva in dubbio la piena legittimità.

Diversa sarebbe stata l’ipotesi nella quale la p.a. avesse inteso censurare la realizzazione di un’opera eseguita dal privato in ossequio a un permesso di costruire illegittimo, in quanto autorizzativo di trasformazioni in contrasto con le norme urbanistiche vigenti. In tal caso il Comune, avendo emesso il titolo abilitativo (illegittimo ma comunque produttivo di effetti ), non avrebbe potuto procedere attraverso ordinanza di demolizione (provvedimento che presuppone la difformità delle opere rispetto al titolo), ma avrebbe invece dovuto agire in autotutela, adottando un provvedimento di autoannullamento ex art. 21 nonies L. 241/1990 (o di revoca ex art. 21 quinquies) atto a rimuovere preventivamente il titolo legittimante.

La differenza tra le due fattispecie è posta in luce dalla giurisprudenza amministrativa, alla quale il Collegio ritiene di aderire: “In presenza di un fabbricato legittimamente realizzato, prima di ordinarne la demolizione con un’ordinanza contingibile e urgente diretta a dichiararne l’inagibilità, occorre la revoca o l’annullamento d’ufficio del titolo abilitativo a suo tempo rilasciato con tutte le connesse garanzie partecipative” (TAR Campania, Salerno, Sez. I, 19 settembre 2016 n. 2182); “Unico rimedio a disposizione del Comune per sanzionare una costruzione non conforme alle prescrizioni urbanistiche, ma pur sempre realizzata in forza di un titolo abilitativo edilizio, ancorché illegittimo, è l’annullamento del titolo medesimo, e non già l’emanazione dell’ordinanza di demolizione, che avrebbe potuto essere adottata soltanto per opere edilizie eseguite in difformità dal permesso di costruire” (TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 8 ottobre 2009 n. 5199); “Qualora le opere risultino conformi alla concessione edilizia, l’unico rimedio giuridico a disposizione del Comune per eliminare una concessione edilizia illegittima è l’annullamento della stessa e non l’emanazione dell’ordinanza di demolizione che, invece, può essere adottata solamente per opere edilizie eseguite in contrasto con la concessione” (TAR Lombardia, Brescia, 13 settembre 2005 n. 836).

7. Con il settimo motivo di impugnazione si denunciava il difetto di motivazione per non avere la p.a. dato conto, in presenza di un notevole lasso di tempo tra la realizzazione delle opere abusive e l’esercizio del potere sanzionatorio, delle ragioni del prevalere dell’interesse pubblico alla rimozione dei manufatti rispetto al ritenuto legittimo affidamento ingeneratosi in capo al privato circa la stabilizzazione dell’abuso.

Le argomentazioni dedotte da parte ricorrente hanno recentemente formato oggetto di attenzione da parte dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (Ad. Plen., 17 ottobre 2017 n. 9). Con detta pronuncia, la Plenaria ha chiarito che, in presenza di un abuso edilizio per il quale il potere sanzionatorio venga esercitato dalla p.a. anche a notevole distanza di tempo rispetto alla realizzazione dell’abuso (anche ove il destinatario dell’ordinanza di demolizione sia soggetto diverso rispetto all’autore dell’abuso e abbia acquistato l’immobile in virtù di una fattispecie che non si pone come elusiva rispetto all’esercizio del potere repressivo da parte dell’amministrazione), non può comunque parlarsi di legittimo affidamento in capo al privato. Il legittimo affidamento, come sancito ulteriormente dalla sentenza, è istituto la cui rilevanza giuridica, nell’ordinamento interno, è recata dal recepimento dei principi fondamentali dell’ordinamento comunitario, espressamente costituenti fonte di disciplina dell’azione delle pubbliche amministrazioni ai sensi dell’art. 1 comma 1 L. 241/1990. Detto istituto, i cui contorni venivano delineati dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, contempla tre elementi costitutivi: a) la sussistenza di un provvedimento ampliativo della sfera giuridica del privato emesso dalla p.a. e successivamente rimosso (elemento oggettivo); b) la buona fede del beneficiario, il quale confida nella validità e stabilità del provvedimento (elemento soggettivo); c) il decorso di un considerevole lasso di tempo (elemento cronologico) che ingenera e rafforza, in capo al privato, l’aspettativa di definitività della situazione giuridica soggettiva di vantaggio conseguita. Nel caso dell’ordinanza di demolizione, difetta il primo elemento: alla base della fattispecie non vi è un provvedimento ampliativo, nella cui stabilità il privato confida, che venga poi rimosso dalla p.a., ma bensì una condotta del privato che si è posta in violazione delle norme che disciplinano la trasformazione del suolo: “Non viene qui in rilievo l’ipotesi in cui l’amministrazione abbia, a distanza di tempo dal rilascio, disposto l’annullamento in autotutela del titolo edilizio illegittimamente adottato […]. Al contrario, il caso che qui rileva si presenta in termini sensibilmente diversi e concerne la diversa ipotesi in cui l’edificazione sia avvenuta nella totale assenza di un titolo legittimante (laddove – tuttavia – l’amministrazione abbia provveduto solo a distanza di un considerevole lasso di tempo all’adozione dell’ingiunzione di demolizione). Si tratta […] dei casi (frequenti nella pratica) di doverosa – se pure tardiva – attivazione dell’ordine di demolizione di fabbricati privi ab origine di un qualunque titolo legittimante e giammai ammessi a sanatoria […]. Non si può applicare a un fatto illecito (abuso edilizio) il complesso di acquisizioni che, in tema di valutazione dell’interesse pubblico, è stato enucleato per la diversa ipotesi dell’autotutela decisoria. […] In questi casi, nemmeno si pone un problema di affidamento, che presuppone una posizione favorevole all’intervento riconosciuta da un atto in tesi illegittimo poi successivamente oggetto di un provvedimento di autotutela”; (Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, n. 9/2017);

Stante tale fondamentale differenza, non può ritenersi intervenuta né l’estinzione del potere sanzionatorio per decorso del tempo (“Non sarebbe in alcun modo concepibile l’idea stessa di connettere al decorso del tempo e all’inerzia dell’amministrazione la sostanziale perdita del potere di contrastare il grave fenomeno dell’abusivismo edilizio, ovvero di legittimare in qualche misura l’edificazione avvenuta senza titolo, non emergendo oltretutto alcuna possibile giustificazione normativa a una siffatta – e inammissibile – forma di sanatoria automatica o praeter legem” – Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, Sent. n. 9/2017), né la sussistenza di uno specifico aggravamento dell’onere motivazionale in capo alla p.a. procedente: “L’ordine di demolizione presenta un carattere rigidamente vincolato e non richiede né una specifica motivazione in ordine alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla demolizione, né una comparazione fra l’interesse pubblico e l’interesse privato al mantenimento in loco dell’immobile. Ciò, in quanto non può ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può in alcun modo legittimare. […] Da un lato […] il rilevato carattere sanzionatorio e doveroso del provvedimento esclude la pertinenza del richiamo alla motivazione dell’interesse pubblico; dall’altro, la selezione e ponderazione dei sottesi interessi risulta compiuta […] “a monte” dallo stesso legislatore (il quale ha sancito in via indefettibile l’onere di demolizione al comma 2 dell’art. 31 del D.P.R. 380/2001), in tal modo esentando l’amministrazione dall’onere di svolgere, in modo esplicito o implicito – una siffatta ponderazione di interessi in sede di adozione dei propri provvedimenti” (Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, n. 9/2017).

L’Adunanza Plenaria, nella sentenza n. 9/2017 conclude dunque nei seguenti termini l’annosa vicenda afferente al potere sanzionatorio esercitato a notevole distacco temporale dall’abuso edilizio: “Il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso. Il principio in questione non ammette deroghe neppure nell’ipotesi in cui l’ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell’abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell’onere di ripristino” (Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, n. 9/2017);

L’ordinanza oggetto della presente causa non può dunque ritenersi affetta da vizio di motivazione in relazione al notevole lasso di tempo intercorso tra l’abuso e la sanzione.

Si ritiene, per quanto precede, che anche il settimo motivo sia infondato e vada respinto.

8. L’ottavo motivo di ricorso si articolava in una pluralità di doglianze.

8.1. Le censure proposte riguardavano, in primis, il mutamento di destinazione d’uso dell’immobile, considerato dal ricorrente non rilevante ai sensi dell’art. 23-ter D.P.R. 380/2001. La censura è infondata.

Il mutamento di destinazione d’uso impresso dal […] all’immobile assentito con la Concessione di costruzione del 1990, contrariamente a quanto sostenuto in ricorso, è rilevante ai sensi dell’art. 23-ter D.P.R. 380/2001. La citata disposizione stabilisce infatti, al comma 1, che: “[…] costituisce mutamento rilevante della destinazione d’uso ogni forma di utilizzo dell’immobile […] diversa da quella originaria […] purché tale da comportare l’assegnazione dell’immobile o dell’unità immobiliare considerati ad una diversa categoria funzionale tra quelle sotto elencate: a) residenziale; a-bis) turistico-ricettiva; b) produttiva e direzionale; c) commerciale; d) rurale.”. Nella fattispecie oggetto di causa il fabbricato, invece che alla destinazione “rurale” assentita dal Comune […] nel 1990 e censita alla lettera “d” del citato art. 23-ter comma 1, veniva adibito alla diversa destinazione relativa all’attività […], di tipo artigianale e qualificabile come “produttiva” ai sensi della lettera “c” della medesima norma.

8.2. Per altro profilo, le censure si appuntavano sull’asserita ammissibilità dell’implementazione di un laboratorio artigianale di lavorazione del marmo in zona agricola E2.

Anche tale censura è priva di fondamento.

L’attività artigianale di marmeria deve ritenersi estranea alle destinazioni che le vigenti NTA comunali consentono per le zone E2, alle quali appartiene il terreno su cui sorgono le opere oggetto del provvedimento demolitorio impugnato. Le NTA prevedono infatti, per dette zone E2, esclusivamente i seguenti interventi edificatori: “[…]”. A nessuno dei casi sopra elencati è riconducibile l’attività artigianale di lavorazione del marmo.

8.3. La parte ricorrente invoca inoltre la sussumibilità di parte degli abusi accertati dal Comune (vasca e ampliamento della veranda) nell’alveo di operatività dell’art. 34 comma 2 D.P.R. 380/2001, siccome caratterizzati da difformità parziale rispetto alla concessione. Dalle ridette considerazioni scaturirebbe, secondo la prospettazione di parte ricorrente, l’assoggettamento dell’abuso alla sanzione sostitutiva di tipo pecuniario indicata dalla disposizione citata, con conseguente illegittimità dell’irrogata sanzione demolitoria.

La doglianza risulta priva di fondamento in quanto, nella fattispecie oggetto del giudizio, non può rinvenirsi una difformità parziale dal titolo edilizio ex art. 34 D.P.R. 380/2001, essendo invece presente una totale difformità ex art. 31 comma 1 dello stesso D.P.R. 380/2001, e comunque una variazione essenziale ex art. 32 del citato Testo Unico dell’Edilizia.

Le opere realizzate, ivi compresi la vasca di raccolta delle acque e l’ampliamento della veranda, unite all’utilizzo artigianale/produttivo dei manufatti, integrano infatti la “realizzazione di un organismo edilizio integralmente diverso per caratteristiche tipologiche, […] o di utilizzazione da quello oggetto del permesso stesso”, idonea a configurare la totale difformità ai sensi del citato art. 31 comma 1 del Testo Unico dell’Edilizia.

Peraltro, gli abusi rilevati dal Comune, considerati nel loro complesso, integrano comunque variazione essenziale al titolo edificatorio ex art. 32 D.P.R. 380/2001. L’intervento realizzato, infatti, consistendo nell’edificazione di un laboratorio artigianale in luogo di un deposito agricolo e di un’abitazione rurale, costituisce una modifica di carattere essenziale in quanto, come statuito dalla giurisprudenza amministrativa: “incompatibile con il disegno globale ispiratore dell’originario progetto edificatorio” (TAR Campania, Napoli, VIII, 8 ottobre 2015 n. 4717; cfr: TAR Calabria, Reggio Calabria, I, 5 agosto 2015 n. 834). Tale modifica, in particolare, risulta rilevante ai sensi dell’art. 32 comma 1 lettera “a: mutamento della destinazione d’uso che implichi variazione degli standards previsti dal decreto ministeriale 2 aprile 1968 […]”, in quanto l’intervento realizzato, di tipo artigianale anziché rurale, anche in relazione a quanto precisato al precedente punto 8.2 (non ammissibilità della marmeria in zona E2), ha determinato un aggravio del carico urbanistico e un’alterazione degli standards.

Per quanto precede, l’intervento non può che essere sanzionato con la demolizione ex art. 31 D.P.R. 380/2001, prevista tanto per le opere realizzate in totale difformità dal titolo, che per quelle che ne costituiscono variazione essenziale.

Non risulta dunque applicabile al caso di specie l’art. 34 del Testo Unico, volto a disciplinare la difformità parziale.

8.3. Stanti le considerazioni che precedono, e ferma restando la non applicabilità, nel caso di specie, dell’art. 34 D.P.R. 380/2001, si precisa comunque, incidentalmente, che anche ove la disposizione de qua fosse invocabile nella fattispecie, essa non condurrebbe in ogni caso agli esiti auspicati dal ricorrente e consistenti nell’automatica e immediata sostituzione della sanzione demolitoria con quella pecuniaria. La conseguenza dell’accertamento della parziale difformità è infatti costituita, in ogni caso, dall’ingiunzione di demolizione, ai sensi dell’art. 34 comma 1 D.P.R. 380/2001. L’eventuale adozione della sanzione pecuniaria in luogo di quella demolitoria, prevista dall’art. 34 comma 2, richiede l’accertamento dei presupposti applicativi indicati dal citato secondo comma, ovvero la circostanza che la demolizione della parte difforme non possa avvenire “senza pregiudizio per la parte eseguita in conformità” (art. 34 comma 2 D.P.R. 380/2001).

Tale valutazione, tuttavia, non viene posta in essere dalla p.a. d’ufficio ed ex ante rispetto all’emissione dell’ordinanza di demolizione. Secondo l’orientamento giurisprudenziale maggioritario, infatti: “La giurisprudenza ritiene che l’applicazione della sanzione pecuniaria abbia comunque carattere residuale (Cons. Stato, sez. VI, n. 1793 del 2012; n. 4577 del 2013), e possa essere irrogata non in base ad una verifica tecnica a carico della parte pubblica, ma a seguito di un’istanza presentata a tal fine dalla parte privata ad essa interessata. In altri termini, ai fini della legittimità dell’ordine di demolizione, che essendo finalizzato a ripristinare la legalità violata, costituisce il contenuto che, in via ordinaria, è tenuto ad assumere l’atto repressivo dell’illecito, l’amministrazione è tenuta al solo accertamento che l’opera sia abusiva, posto che ulteriori adempimenti, relativi all’eseguibilità dell’ordine “senza pregiudizio per la parte conforme” richiederebbero sopralluoghi ed accertamenti incompatibili con lo stesso principio di buon andamento dell’azione amministrativa, entro il quale la giurisprudenza costituzionale colloca l’esigenza che essa sia strutturata normativamente in termini tali, da assicurare il soddisfacimento degli interessi pubblici cui è preposta (Corte Cost. n. 188 del 2012). Ne consegue che la parte pubblica non può essere onerata di verifiche tecniche, anche complesse, da effettuarsi d’ufficio in una fase anteriore all’emissione dell’ordine di demolizione. Si deve perciò ritenere che l’ordine di demolizione vada adottato anche in assenza di una verifica di tale profilo, la cui rilevanza va invece segnalata, e comprovata, dalla parte che vi abbia interesse durante la fase esecutiva (Tar Lazio I quater n. 316 del 2014, 5277 del 2013; n. 762 del 2013). L’ingiunzione di demolizione costituisce la prima ed obbligatoria fase del procedimento repressivo, in quanto ha natura di diffida e presuppone solo un giudizio di tipo analitico- ricognitivo dell’abuso commesso, mentre il giudizio sintetico-valutativo, di natura discrezionale, circa la rilevanza dell’abuso e la possibilità di sostituire la demolizione con la sanzione pecuniaria (disciplinato dall’art. 33 comma 2, e 34 comma 2, D.P.R. n. 380 del 2001 ) può essere effettuato soltanto in un secondo momento, cioè quando il soggetto privato non ha ottemperato spontaneamente alla demolizione e l’organo competente emana l’ordine (questa volta non indirizzato all’autore dell’abuso, ma agli uffici e relativi dipendenti dell’Amministrazione competenti e/o preposti in materia di sanzioni edilizie) di esecuzione in danno….; … soltanto nella predetta seconda fase non può ritenersi legittima l’ingiunzione a demolire sprovvista di qualsiasi valutazione intorno all’entità degli abusi commessi e alla possibile sostituzione della demolizione con la sanzione pecuniaria, così come previsto dagli artt. 33 comma 2, e 34 comma 2, D.P.R. n. 380 del 2001 ( Tar Lazio I quater n. 3105 del 2012)” (T.A.R. Lazio, Roma, Sezione Seconda quater, 14 ottobre 2015, n. 11671; cfr: T.A.R. Puglia, Lecce, Sezione III, 25 giugno 2018, n. 1062).

Ne consegue, anche sotto tale ulteriore profilo, l’inconferenza delle censure azionate con il ricorso.

Anche le doglianze articolate con l’ottavo e ultimo motivo risultano dunque destituite di fondamento […]