Studio Legale Berto

Effetti dello stato di emergenza per il Covid 19 in ordine ai rapporti di locazione

La normativa e i differenti aspetti dello stato di emergenza per la locazione abitativa e per la locazione commerciale, il diritto a percepire il canone da parte del locatore, la rinegoziazione del contratto e la situazione di emergenza come causa di risoluzione del contratto di locazione commerciale.

locazione

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Locazione
In questo periodo, da molte parti è sorta la domanda se nel caso di rapporti di locazione, di uso abitativo o di uso commerciale, la situazione sanitaria di carattere eccezionale venutasi a creare, le speciali disposizioni emanate e i conseguenti effetti sulle attività commerciali, produttive e professionali interferiscano o meno sulla esigibilità dei canoni di locazione e su altre clausole contrattuali.
In particolare, per le attività commerciali e produttive, il decreto-legge 23 febbraio 2020, n. 6, convertito in Legge 5 marzo 2020, n. 13, all’art. 1 ha disposto la “j) chiusura di tutte le attività commerciali, esclusi gli esercizi commerciali per l’acquisto dei beni di prima necessità” nonché la “n) sospensione delle attività lavorative per le imprese, a esclusione di quelle che erogano servizi essenziali e di pubblica utilità e di quelle che possono essere svolte in modalità domiciliare”.
Inoltre, il D.L. n. 18/2020, c.d. Cura Italia, ha previsto:
a) – una specifica disposizione in materia di locazione, l’art. 65, d.l. n. 18/2020 che introduce in favore del conduttore esercente attività d’impresa un credito di imposta pari al 60% dell’ammontare del canone di locazione, relativo al mese di marzo 2020, di immobili rientranti nella categoria catastale C/1 (Negozi e botteghe). L’Agenzia delle Entrate, con circ. 3 aprile 2020, n. 8/E, ha poi chiarito che il credito di imposta per le locazioni commerciali di negozi e botteghe di cui all’art. 65, d.l. n. 18/2020, pari al 60% del canone di locazione del mese di marzo 2020, è riconosciuto solo dopo l’effettivo versamento del canone. Invece, il canone di locazione non pagato non produrrà il credito d’imposta poiché la previsione intende ristorare il conduttore del canone versato a fronte della sospensione dell’attività di impresa in questo periodo. Si deve precisare, peraltro, che il bonus locazioni non è concesso a tutti, in quanto sono esclusi gli esercenti attività di impresa che, sulla base delle disposizioni contenute negli allegati 1 e 2 del dpcm dell’11 marzo scorso, sono rimaste aperte in quanto considerate essenziali. Successivamente è intervenuto in argomento l’art. 28 del D.L. 34 del 2020 – Credito d’imposta per i canoni di locazione degli immobili a uso non abitativo e affitto d’azienda e, con la circolare n. 14/e del 6 giugno 2020, l’A.E. ha spiegato chi può fare richiesta per il bonus sul canone di locazione e quali requisiti deve possedere.
b) – un precetto in tema di adempimento delle obbligazioni, l’art. 91 d.l. n. 18/2020, in conformità della quale “ all’articolo 3 del decreto – legge 23 febbraio 2020, n. 6, convertito con modificazioni dalla legge 5 marzo 2020, n. 13, dopo il comma 6, e’ inserito il seguente: “6-bis. Il rispetto delle misure di contenimento di cui presente decreto e’ sempre valutata ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1218 e 1223 c.c., della responsabilità del debitore, anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti.”
Lo stesso, peraltro, appare rivestire modesta rilevanza sul punto dei contratti di locazione commerciale, in quanto non esclude la responsabilità del conduttore che ometta il versamento del canone ma si limita a rendere obbligatoria la considerazione dei criteri di valutazione del comportamento del debitore, da parte del Giudice, considerando il contesto e le relative limitazioni all’attività produttiva che sono collegate alla situazione emergenziale.
Altra misura disposta in materia locatizia nel D.L. n. 18/2020 riguarda l’articolo 103, comma 6, del decreto legge del 17 marzo 2020, n. 18, il quale dispone che “L’esecuzione dei provvedimenti di rilascio degli immobili, anche ad uso non abitativo, è sospesa fino al 30 giugno 2020».
Inoltre, sempre in merito a disposizioni in tema di locazione l’art. 54, comma 1 del Decreto Cura Italia, prevede, per un periodo di 9 mesi dall’entrata in vigore del decreto legge, in deroga alla ordinaria disciplina del Fondo di solidarietà mutui “prima casa”, che l’ammissione ai benefici del Fondo e’ esteso ai lavoratori autonomi e ai liberi professionisti che autocertifichino ai sensi degli articoli 46 e 47 del decreto del Presidente della Repubblica n. 445/2000 di aver registrato, in un trimestre successivo al 21 febbraio 2020 ovvero nel minor lasso di tempo intercorrente tra la data della domanda e la predetta data, un calo del proprio fatturato, superiore al 33% del fatturato dell’ultimo trimestre 2019 in conseguenza della chiusura o della restrizione della propria attività operata in attuazione delle disposizioni adottate dall’autorità’ competente per l’emergenza coronavirus.
Per quanto riguarda gli immobili ad uso abitativo alcuna questione, di regola, si dovrebbe porre in relazione al godimento del bene che dovrebbe rimanere immutato, ma semmai sull’eventuale inadempimento dell’obbligo di versare il canone, al fine di poter escludere la responsabilità del conduttore e i conseguenti effetti a suo carico secondo le norme espressamente richiamate (artt. 1218 c.c. -Responsabilità del debitore e 1223 c.c. -Risarcimento del danno, decadenze penali), rendendo possibile una proroga della scadenza di pagamento senza incorrere nell’addebito di interessi o penalità.
Per gli immobili ad uso commerciale, invece, è proprio l’utilizzo del bene che risulta messo in discussione a seguito dei provvedimenti normativi adottati per l’emergenza sanitaria, che abbiano interessato direttamente o indirettamente l’attività commerciale o produttiva ivi insediata impedendone o limitandone lo svolgimento.
Questa evenienza, oltre alla norma richiamata, da cui potrebbe derivare la proroga dei termini di pagamento senza addebito di interessi o penalità, appare coinvolgere anche l’art. 1256 c.c. (Impossibilità definitiva e impossibilità temporanea) per il quale non vi è inadempimento se la prestazione (versamento del canone) è divenuta impossibile per una causa non imputabile all’obbligato, precisando che se l’impossibilità è solo temporanea, finché essa perdura, non vi è responsabilità solo nel ritardarla.
Infatti, il conduttore può venirsi a trovare di fronte al blocco della propria attività per la situazione sopravvenuta tanto eccezionale da non poter essere superata con lo sforzo diligente cui l’obbligato è sempre tenuto.
Tuttavia, non ravvisandosi un inadempimento del locatore rispetto alle obbligazioni poste a suo carico (art. 1575 c c.) e considerato l’orientamento costante della S.C. per il quale “ la sospensione, totale o parziale, del pagamento del canone” deve risultare “giustificata dall’oggettiva proporzione dei rispettivi inadempimenti ” (v. es. Cass. n. 6143 del 2020), non può dirsi certo che una tale argomentazione possa superare l’obiezione che al locatore, tenuto a garantire il godimento e a mantenere la cosa idonea a servire all’uso convenuto, non possa negarsi il diritto al riconoscimento del canone e imputare a lui le conseguenze di provvedimenti che riguardano specificamente l’attività del conduttore che continui a mantenere la disponibilità dei locali.
Sotto un diverso punto di vista, si potrebbe anche considerare la situazione di emergenza come vera e propria causa di risoluzione del contratto ai sensi dell’art. 1467 c.c. secondo il quale “nei contratti a esecuzione continuata o periodica, o a esecuzione differita, se la prestazione di una delle parti diventa eccessivamente onerosa per il verificarsi di avvenimenti straordinari e imprevedibili, la parte che deve tale prestazione può domandare la risoluzione del contratto”, ma si tratterebbe di una soluzione radicale che non sempre può corrispondere all’interesse di un conduttore che abbia stabilmente insediato nell’immobile la propria organizzazione aziendale. Inoltre, non operando di diritto, la risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta dovrebbe essere oggetto di un contenzioso e di una pronuncia giudiziale di natura costitutiva.
Questa ipotesi potrebbe però rappresentare una prospettiva particolarmente avversa per il locatore che potrebbe incorrere nel rischio di rimanere con i propri locali sfitti, non più produttivi di reddito effettivo, ma pur sempre assoggetti ad imposta, e plausibilmente con un ridotto valore locativo.
Alla luce di queste considerazioni, è comprensibile che possano esservi ragioni per entrambe le parti che suggeriscono l’opportunità di valutare una trattativa diretta alla rinegoziazione dell’importo del canone di locazione stipulando un accordo che, una volta assoggettato a registrazione, produce i propri effetti anche nei confronti dei terzi (Erario, ecc..).
La registrazione dell’accordo è necessaria perché il proprietario possa limitare le imposte ai proventi effettivamente percepiti. Si segnala sul punto che il termine di 30 giorni per la registrazione dalla stipula è stato “congelato” dal Decreto Cura Italia. Se il termine per la registrazione del contratto di locazione e dell’accordo ricade nel periodo compreso tra l’8 marzo e il 31 maggio 2020, allora scatta la sospensione degli adempimenti di cui all’articolo 62, comma 1, di detto Decreto. Il successivo comma 5 dispone che i predetti adempimenti, una volta terminato il periodo di sospensione, potranno essere effettuati, senza l’applicazione delle sanzioni, entro il 30 giugno successivo. La L. 164/2014 prevede che non siano dovute spese per la registrazione né marche da bollo per tale registrazione. La rinegoziazione del contratto, sia in caso di diminuzione che di aumento del canone, può essere comunicata direttamente via web con il Modello RLI.
Peraltro si deve tener conto a sostegno di una eventuale richiesta alla rinegoziazione del contratto di locazione commerciale, che si tratta di un contratto di durata e che in caso di sopravvenienza significativa, quale una situazione emergenziale come una pandemia, il principio di buona fede nell’esecuzione dei contratti previsto dall’art. 1375 c.c prescrive un rispetto del mantenimento della congruità delle prestazioni tra le due parti obbligate. Possiamo, dunque, concludere affermando che gli interventi governativi in materia locatizia durante questa fase emergenziale sono stati limitati e volti principalmente a concedere agevolazioni fiscali in favore degli esercenti la cui attività di impresa è stata sospesa a seguito delle misure restrittive per lo stato emergenziale, nonché a sospendere l’esecuzione dei provvedimenti di rilascio di immobili, non incidendo la restante normativa emergenziale in particolare modo sui rapporti locatizi.

Relazione 56/2020 Massimario Corte di Cassazione
Va richiamato all’attenzione l’orientamento dell’Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione espresso nella relazione 56/2020 sulle “Novità normative sostanziali del diritto ‘emergenziale’ anti-Covid 19 in ambito contrattuale e concorsuale”.
In particolare, nel documento, viene evidenziato che: << 10. Rilievi conclusivi. Qualora il sinallagma contrattuale sia stravolto dalla pandemia e la parte avvantaggiata disattenda gli obblighi di protezione nei confronti dell’altra, limitare la tutela di quest’ultima alla risoluzione e al risarcimento del danno significherebbe demolire il rapporto contrattuale, incanalandolo in quell’imbuto esiziale che la clausola di buona fede e la rinegoziazione dovrebbero valere a scongiurare.
Parrebbe anomalo che il contratto cessi sempre e comunque per effetto del comportamento di una delle parti che, con una scelta di campo incompatibile con la finalità manutentiva del rapporto, ne determini giocoforza la cesura.
Il tema attiene, quindi, alla possibilità di un intervento eteronomo del giudice di integrazione del rapporto divenuto iniquo.
Disagevole sembra rinvenire il fondamento di siffatta opportunità nell’art. 1374 c.c., ove si dispone che il contratto obbliga le parti, non solo a quanto nel medesimo espresso, ma anche a tutte le conseguenze che ne derivano secondo la legge, o, in mancanza, secondo gli usi e l’equità. Di equità si parla sotto il profilo delle fonti di integrazione del contratto, alla stregua di criterio che concorre a determinarne gli effetti giuridici del negozio mediante il giusto contemperamento dei diversi interessi delle parti in relazione allo scopo e alla natura dell’affare. È attraverso l’equità che il giudice è facoltizzato a individuare elementi e aspetti del regolamento contrattuale non definiti dalle parti, né determinati da disposizioni di legge o usi. L’equità non è principio di giustizia morale dacchè il giudice che integra il contratto ne determina il contenuto alla stregua di criteri che gli offre il mercato. Il suo intervento, tuttavia, è suppletivo e residuale, in quanto il magistrato non può correggere la volontà delle parti quand’anche le scelte di queste gli appaiano incongrue, limitandosi, negli eccezionali casi in cui la legge l’ammetta, a colmare le lacune riscontrate, inserendo regole ulteriori e coerenti con il programma concordato dalle parti.
Un intervento sostitutivo del giudice sembrerebbe ammissibile al più ogni volta che dal regolamento negoziale dovessero emergere i termini in cui le parti hanno inteso ripartire il rischio derivante dal contratto, fornendo al giudice (anche in chiave ermeneutica) i criteri atti a ristabilire l’equilibrio negoziale. In questo caso, il magistrato, più che intervenire dall’esterno, opererebbe all’interno del contratto e in forza di esso, servendosi di tutti gli strumenti di interpretazione forniti dal legislatore (artt. 1362-1371 c.c.), precipuamente quello disciplinato dall’art. 1366 c.c. sulla buona fede nell’interpretazione del contratto. Al di fuori di questo angusto contorno, la determinazione del contenuto del contratto appartiene alla sfera decisionale riservata ai contraenti, rispetto alla quale ogni intervento spetta solo al legislatore, che fissa l’eventuale disciplina cogente non modificabile né dalle parti, né dal giudice. Quest’ultimo si trova a svolgere una funzione di valutazione di conformità, senza alcuna prerogativa di intervento ulteriore.
Qualora si ravvisi in capo alle parti l’obbligo di rinegoziare il rapporto squilibrato, si potrebbe ipotizzare che il mancato adempimento di esso non comporti solo il ristoro del danno, ma si esponga all’esecuzione specifica ex art. 2932 c.c..
Al giudice potrebbe essere ascritto il potere di sostituirsi alle parti pronunciando una sentenza che tenga luogo dell’accordo di rinegoziazione non concluso, determinando in tal modo la modifica del contratto originario 79 . L’obbligo di rinegoziare è un obbligo di contrarre le modifiche del contratto primigenio suggerite da ragionevolezza e buona fede; la parte che per inadempimento dell’altra non ottiene il contratto modificativo, cui ha diritto, può chiedere al giudice che lo costituisca con sua sentenza. La rinegoziazione implica l’obbligo di contrarre secondo le condizioni che risultano “giuste” avuto riguardo ai parametri risultanti dal testo originario del contratto, riconsiderati alla luce dei nuovi eventi imprevedibili e sopravvenuti. Qualora le due parti siano disponibili, s’incontrano e concludono; qualora una delle due si neghi, è il giudice a decidere.
Ora, la norma dell’art. 2932 c.c. viene solitamente adoperata allorchè l’oggetto del contratto da concludere sia già determinato prima dell’intervento del magistrato, la cui pronuncia si limita a tenere il posto di una volontà già definita nel suo oggetto o di una previsione di legge80. Nel caso della rinegoziazione, viceversa, l’intervento in parola assume una doppia valenza: tiene luogo della volontà delle parti; nel contempo ne determina in maniera più larga e considerevole il contenuto, non mutuando un regolamento dettagliatamente precostituito.
Con ogni evidenza, la decisione del giudice non può avvenire sulla scorta di un metro casuale, soggettivo o arbitrario, dovendo calibrarsi su elementi rigorosamente espressi dal medesimo regolamento negoziale. Ed è chiaro che questa impostazione presuppone che sia possibile, nel caso di specie, predeterminare l’esito puntuale cui sono finalizzate le trattative. Emerge, quindi, l’urgenza di individuare un parametro cui adeguare il contratto, il che non costituisce operazione semplice.
I contraenti sono tenuti a trattare in buona fede e a condurre a termine la trattativa pervenendo al risultato: l’accordo per la prosecuzione del rapporto ovvero per il suo scioglimento, ove ciò risulti ad entrambi più conveniente. Se il criterio maggiormente univoco e solido è la preservazione dell’originario equilibrio contrattuale, plurime sono le modalità di adeguamento del rapporto. Esemplificativamente, se le variate circostanze attengono ai costi indispensabili ad eseguire la prestazione, l’adattamento del contratto può condursi attraverso una rimodulazione delle modalità attuative della prestazione o mediante una revisione al rialzo dei costi con incremento del prezzo finale. Centrale risulta, in ogni caso, la valutazione, da parte del giudice, dell’attività di contrattazione svolta dalle parti prima che il processo rinegoziativo si interrompa, potendo residuare da esso spiccati elementi per decidere.
In questa prospettiva, la parte oberata dalla sopravvenienza viene dotata di quel potere d’invocare la riduzione a equità del contratto squilibrato che già le è attribuito in relazione ai contratti gratuiti e che nei contratti onerosi spetta a controparte. Nessun rimedio eccentrico al sistema, dunque, ma la rimodulazione estensiva di un mezzo già previsto. Il ricorso all’art. 2932 c.c. non assicura che la parte che subisce la sentenza adempia le nuove condizioni da essa stabilite. Eppure esso consente, per il caso in cui si rifiuti di rispettarle, una commisurazione agevole e maggiormente attendibile del danno risarcibile >>.

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