Venuta meno la pluralità dei soci, la prosecuzione della società in forma unipersonale è un evento che non è regolato dal legislatore pur se riscontrabile di fatto nelle vicende societarie.
Il venir meno della pluralità dei soci è un fenomeno che non di rado si verifica nella vita di una società di persone.
In questo caso, il legislatore assegna un termine per poterla ripristinare.
In mancanza, si verifica una causa di scioglimento della società.
Infatti, secondo, l’art. 2272, n. 4, cod. civ., la società si scioglie: “…4) quando viene a mancare la pluralità dei soci, se nel termine di sei mesi questa non è ricostituita”.
La norma è compresa nelle disposizioni riguardanti la società semplice, ma è estensibile anche alla società in nome collettivo e alle società in accomandita semplice per effetto dei richiami contenuti nell’art. 2293 cod. civ. e art. 2315 cod. civ.
La circostanza si verifica quando, in una società di persone, per la morte, l’esclusione o il recesso degli altri, rimanga un solo socio che lasci decorrere il termine di sei mesi senza ricostituire la pluralità dei soci.
Il venir meno della presenza di più soci non è di per sé causa di scioglimento della società, ma è la mancata ricostituzione del numero minimo della compagine sociale entro il termine di sei mesi che lo determina.
Lo scioglimento quindi opera ex nunc e dopo il semestre che segue l’evento (Corte di Cass. Ordin. n. 9346 del 2018) .
Va chiarito che il verificarsi di una causa di scioglimento della società non comporta l’estinzione dell’ente, bensì l’instaurazione del procedimento di liquidazione, al cui esito potrà seguire l’estinzione (Cass. n. 16288/2009).
Di regola, si procederà alla nomina di uno o più liquidatori con il compito di definire i rapporti giuridici con i terzi e assegnare l’eventuale residuo attivo al socio superstite.
Tuttavia, al venir meno della pluralità dei soci può far seguito anche la prosecuzione dell’attività in capo al socio cosiddetto superstite.
Infatti, può verificarsi che l’unico socio rimasto, dopo aver lasciato trascorrere il semestre senza integrare il numero dei soci, continui nell’attività d’impresa utilizzando il complesso dei beni sociali, senza dare inizio alla fase di liquidazione.
Quindi, può accadere che la società continui a tempo indeterminato con unico socio.
Ciò è possibile proprio perché l’unipersonalità della compagine sociale è causa di scioglimento della società ma non della sua estinzione (Cass. Sent. n. 27189 del 2014; Cass., Sez. 2, Ordin. n. 24400 del 2018).
Quest’ultima si verifica soltanto in seguito alla cancellazione della società dal registro delle imprese (con efficacia dichiarativa. Cass., Ordin. n. 24746 del 2018; Cass. Ordin. n. 32304 del 2019).
La prosecuzione della società in forma unipersonale è un evento che non è stato regolato dal legislatore, pur se è possibile riscontrarlo nel concreto delle vicende societarie.
Mentre la società di capitali con socio unico trova un suo regolamento normativo (sia in fase di costituzione che in un momento successivo una società di capitali può risultare composta da un unico socio), ciò non accade nel caso delle società di persone.
La giurisprudenza della Corte di Cassazione si è occupata di dettare delle regole sugli effetti giuridici conseguenti.
Spiega la S.C., con Sentenza n. 496 del 2015, che “lo scioglimento della società, che a norma dell’art. 2272 c.c., n. 4, si determina per la sopravvenuta mancanza della pluralità dei soci, se la società non sia ricostituita nel termine di sei mesi, quando riguarda una società di persone non determina alcuna modificazione soggettiva dei rapporti facenti capo all’ente, la titolarità dei quali si concentra nell’unico socio rimasto […] Una siffatta vicenda non integra una trasformazione nel senso tecnico inteso dall’art. 2498 c.c., riferito alla trasformazione di una società da un tipo ad un altro, bensì un rapporto di successione tra soggetti distinti, distinguendosi, appunto, persona fisica e persona giuridica per natura, e non solo per forma.”.
Gli stessi principi sono affermati nella S.C. con Sent., Sez. 5, n. 3670/2007, secondo la quale in “una società di persone che non abbia più il requisito della pluralità di soci” si determina “non già una modificazione dell’atto costitutivo (come accade nella trasformazione di una società da un tipo ad un altro), bensì “un rapporto di successione tra soggetti distinti, (Cass. n. 1593/2002)”.
La Corte Cass. Sez. 1, Sentenza n. 14449 del 2014, ha ribadito: “Come affermato dalla pronuncia 3670/07, lo scioglimento della società, che a norma dell’art. 2272 c.c., n. 4, si determina per la sopravvenuta mancanza della pluralità dei soci, se la società non sia ricostituita nel termine di sei mesi, quando riguarda una società di persone non determina alcuna modificazione soggettiva dei rapporti facenti capo all’ente, la titolarità dei quali si concentra nell’unico socio rimasto”.
Dunque, l’effetto centrale della “concentrazione della titolarità dei rapporti – facenti capo alla società – nel socio residuo” per l’avvenuto decorso del termine di cui all’art. 2272, n. 4, è stato più volte ribadito dalla giurisprudenza di legittimità.
Al termine “titolarità” reiteratamente utilizzato dalla S.C. non può però corrispondere una relazione di appartenenza dei rapporti di diritto.
Infatti, la mancata ricostituzione della pluralità dei soci nel termine di sei mesi, da parte dell’unico socio superstite, è causa dello scioglimento della società e non della sua estinzione e la massa dei rapporti attivi e passivi che facevano capo alla compagine sociale prima dello scioglimento conserva il proprio originario centro di imputazione ( Cass., Sez. 2, Ordin. n. 24400 del 2018 cit.).
I due principi possono trovare conciliazione se si considera che la titolarità delle situazioni giuridiche soggettive in cui si articola il rapporto possono essere attive o passive, secondo che comportino un vantaggio o una responsabilità e che la S. C. ha posto l’attenzione su quest’ultimo aspetto.
In definitiva, per effetto dello scioglimento della società e per l’inerte comportamento del socio/amministratore superstite, si verifica “la concentrazione della titolarità dei rapporti – già facenti capo alla società – nel socio residuo” in forza di “un rapporto di successione tra soggetti distinti” sotto il profilo della responsabilità.
Ne deriva la legittimazione personale a titolo passivo del socio rimasto “titolare” di tutti i rapporti già facenti capo alla società.
Tracciando questa impostazione, la S.C., con Sent. n. 2226 del 1996, ha espressamente affermato che, con il venir meno della pluralità dei soci, nella società semplice, composta da due soci, si determina “la concentrazione della titolarità dei rapporti – già facenti capo alla società – nel socio residuo” che “risponde personalmente delle obbligazioni già sociali”.
Perciò, il socio superstite che prosegue nella gestione unipersonale “succede” nei rapporti della società da lato passivo, si sostituisce come persona fisica nei rapporti cui era parte la società e, di conseguenza, nei suoi obblighi.
Sotto il profilo della responsabilità, va fatto presente che la continuazione dell’attività sociale, nonostante la causa di scioglimento, si pone altresì in violazione del divieto di compiere nuove operazioni da parte dei soci amministratori di cui all’art. 2274 c.c. Mentre nella società in nome collettivo il socio è comunque illimitatamente e solidalmente responsabile per le obbligazioni contratte dalla società, nel caso di società in accomandita semplice (s.a.s.), qualora il socio superstite sia un accomandante, la prosecuzione dell’attività va soppesata alla luce di quanto disposto dall’art. 2320 cod. civ. La regola prevede che i soci accomandanti non possono compiere atti di amministrazione, né trattare o concludere affari in nome della società, se non in forza di procura speciale per singoli affari. Il socio accomandante che contravviene a questo divieto finisce per assumere una responsabilità personale verso i terzi.
Decorsi i sei mesi fissati dall’art. 2272, n. 4, cod. civ., senza ricostituzione della pluralità dei soci, il socio superstite ha l’onere di avviare il procedimento di liquidazione. Nell’ambito di tale fase, si procederà alla cessione del patrimonio mobiliare e immobiliare della società; alla riscossione dei crediti ed alla definizione dei rapporti pendenti; all’eliminazione del passivo mediante la puntuale ricognizione dei debiti ed il loro pagamento con il ricavato del realizzo dell’attivo; alla redazione del bilancio finale di liquidazione.
Approvato il bilancio finale, il liquidatore deve chiedere, ai sensi dell’art. 2495, co. 1, cod. civ., la cancellazione della società dal Registro delle imprese, provocandone così l’estinzione.
Solo a seguito della cancellazione, la società non rappresenterà più il centro di imputazione giuridica dei rapporti attivi e passivi che facevano capo alla compagine sociale e non potrà più ammissibilmente agire o essere convenuta in giudizio (Cass. Ordin. n. 24853 del 2018).
Oltre che dalla conclusione del procedimento di liquidazione, l’estinzione può conseguire anche per effetto dell’art. 3 del d.p.r. 23 luglio 2004, n. 247, secondo il quale il procedimento per la cancellazione della società semplice, della società in nome collettivo e della società in accomandita semplice viene avviato quando l’Ufficio del Registro delle imprese rileva la mancata ricostituzione della pluralità dei soci nel termine dei sei mesi, anche a seguito di segnalazione da parte di altro pubblico ufficio .