Studio Legale Berto

Vitalizio alimentare e risoluzione per inadempimento

E’ ammessa la risoluzione per inadempimento del contratto in quanto il vitalizio alimentare è un negozio atipico distinto dalla rendita vitalizia. Perciò, Non è applicabile l’art. 1878 c.c. che esclude la risolvibilità nel caso di rendita vitalizia

Sommario:
  • Definizione;
  • Forma;
  • Risoluzione per inadempimento;
  • Colpa dell’inadempiente

Il vitalizio alimentare è un contratto consensuale per mezzo del quale un soggetto (vitaliziante) si obbliga ad effettuare a favore di un altro (vitaliziato) prestazioni alimentari o assistenziali per tutta la durata della vita, come corrispettivo del trasferimento di un bene immobile o della attribuzione di altri beni od utilità (Cass. Civ. Sez. III sent. del 01/04/2004 n. 6395).
Nella nozione di assistenza può plausibilmente rientrare anche la previsione di prestazioni in forma di “collaborazione professionale” e il trasferimento può consistere nella “concessione di un semplice diritto di uso del bene” (Cass., Sez. 2, Sent. n. 20645 del 2018).
E’ un contratto aleatorio per cui l’entità delle prestazioni è collegata a elementi privi di certezza. Manca tra le stesse un rapporto di corrispettività economica continuata, in questo modo il rischio contrattuale assume rilevanza causale. La mancanza dell’alea determinerebbe la nullità del contratto.
L’aleatorietà, che costituisce elemento essenziale del negozio, va accertata con riguardo al momento della conclusione del contratto (Cass. Ordinanza n. 6729 del 2018; Cass. Sent. n. 19214/2016). La sua individuazione richiede “la comparazione delle prestazioni sulla base di dati omogenei – quali la capitalizzazione della rendita reale del bene-capitale trasferito e la capitalizzazione delle rendite e delle utilità periodiche dovute nel complesso dal vitaliziante – secondo un giudizio di presumibile equivalenza o di palese sproporzione da impostarsi con riferimento al momento di conclusione del contratto ed al grado ed ai limiti di obiettiva incertezza, sussistenti a detta epoca, in ordine alla durata della vita ed alle esigenze assistenziali del vitaliziato (Cass. Sez. Un. 11-7-1994 n. 6532).” (Cass. n. 15848/2011).
Se le prestazioni non sono proporzionate al valore, nella cessione di un immobile in cambio di un vitalizio può ravvisarsi un contratto simulato per celare una donazione (Corte di Cass. n. 7179 del 2018).
E’ l’elemento dell’aleatorietà che lo differenzia dalla donazione, eventualmente gravata da “modus”(Cass. Ordinanza n. 1467 del 2018).
Pertanto, deve essere fatta un’oggettiva valutazione del bene con riferimento all’epoca di conclusione del contratto.
Infatti, lo spirito di liberalità, quale elemento essenziale della donazione, può essere provato in via presuntiva proprio tramite l’accertamento della sproporzione tra le rispettive prestazioni dei contraenti (Cass. n. 7479/2013).
Con riferimento all’età e allo stato di salute, l’alea è esclusa soltanto se, al momento della conclusione, il beneficiario era affetto da malattia che, per natura e gravità, rendeva estremamente probabile un rapido esito letale, e che ne abbia in effetti provocato la morte dopo breve tempo, ovvero se il beneficiario abbia un’età talmente avanzata da non poter certamente sopravvivere, anche secondo le previsioni più ottimistiche, oltre un arco di tempo determinabile (Cass., Sez. 2, 24- 6-2009 n. 14796).
Il codice civile disciplina due forme di rendita, la rendita perpetua (art. 1861 e ss.) e la rendita vitalizia (art. 1872 e ss.).
Invece, il vitalizio alimentare è una figura contrattuale nata dalla prassi. La sua disciplina può essere tratta in via analogica da quella codicistica riguardante la rendita vitalizia.
Con la rendita vitalizia, attraverso la cessione di un bene mobile o immobile o di un capitale, una parte assicura a sé o ad altri una prestazione, di denaro o di altri beni, che, però, si presenta determinata e periodica.
Il vitalizio alimentare si distingue da tale negozio sotto diversi profili.
L’oggetto dell’attività non consiste in una prestazione di dare, ma di fare oppure in una attività mista di dare e fare. Inoltre, la prestazione di assistenza non ha solo contenuto materiale, né può essere periodica e predeterminata, poiché deve essere collegata alla condizione del vitaliziato e alle sue esigenze.
Le prestazioni che si sostanziano in obblighi di fare, quali quelle relative all’assistenza, si basano sulla fiducia e su peculiarità proprie dei rapporti e delle qualità personali.
Per l’accentuata spiritualità le prestazioni assistenziali che ne costituiscono il contenuto sono eseguibili solo da un vitaliziante specificamente individuato alla luce delle proprie qualità personali (Corte di Cass., Sez. 2, Ord. n. 27914 del 2017).  Per questo, sono naturalmente infungibili e contraddistinte dall’intuitus personaePer cui non può avere rilievo la circostanza che altri soggetti siano in grado di assicurare quanto previsto nel contratto di vitalizio. La naturale infungibilità della persona del vitaliziante può essere convenzionalmente derogata ed è ammessa la possibilità che l’assistenza venga prestata anche da terzi se emerge dal contratto (Cass. Ordin. n. 1080 del 2020).
Il grado di alea è più accentuato rispetto al contratto di rendita, dal momento che l’incertezza riguarda sia la durata che l’entità delle prestazioni (Cass. Sent. del 22/04/2016 n. 8209). Difatti, l’obbligo a carico del vitaliziante è conformato non solo alla durata del rapporto, connesso alla vita del beneficiario, ma anche all’obiettiva entità delle prestazioni dedotte nel negozio, suscettibili di modificarsi nel tempo in ragione di fattori molteplici e non predeterminabili (Cass. Sent. n. 24939 del 2018).
Secondo la S. C., deve sussistere necessariamente una relazione anche con lo stato di bisogno del vitaliziato oppure a sue determinate necessità. Senza una correlazione alla condizione del beneficiario, non si potrebbe configurare un tale contratto (Cass., Ord. n. 11290/2017).
Può essere costituita a favore di un terzo che assume la qualità di beneficiario (art. 1875 c.c.). A seguito della conclusione del contratto, questi acquisisce un diritto proprio ed indipendente alla percezione delle rendite.
Il contratto può essere stipulato anche prevedendo che, a fronte dell’obbligo di prestare assistenza morale e materiale, il vitaliziato, a titolo di corrispettivo, trasferisca la proprietà dei beni favore di un terzo, tramite il meccanismo negoziale degli artt. 1411 c.c. e ss.

Forma

Per il suo perfezionamento, la rendita vitalizia richiede la forma scritta a pena di nullità (art. 1350, n. 10). E’ un contratto formale a prescindere dal fatto che sia stata costituita per mezzo della cessione di un immobile oppure di altri beni od utilità.
Se la rendita è costituita per donazione o per testamento, si osservano le norme stabilite dalla legge per tali atti.
Se a favore di un terzo, quantunque importi per questo una liberalità, non richiede le forme stabilite per la donazione.
Se viene costituita a fronte della cessione di un immobile è necessario procedere alla formalità della trascrizione. Per poter eseguire la trascrizione il titolo dovrà possedere i requisiti di cui all’art. 2657 cod. civ.

Risoluzione per inadempimento

Secondo la regola generale, la parte che ha eseguito la propria prestazione può chiedere la risoluzione del contratto, ai sensi dell’art. 1453 c.c., per inadempimento dell’altra parte.
Chi ha effettuato le proprie obbligazioni, o sia pronto a farlo, di fronte al perdurare dell’inattività dell’altro contraente, può ottenere di sciogliere il vincolo negoziale attraverso la domanda di risoluzione del contratto.
La necessaria premessa è rappresentata da un’alterazione sopravvenuta del rapporto contrattuale, che attiene alla fase di esecuzione e non di formazione. L’inadempimento non deve avere scarsa importanza avuto riguardo all’interesse dell’altra parte (art. 1455 c.c.).
Nel caso di rendita vitalizia, in ipotesi di mancato pagamento delle rate di rendita scadute, il creditore della rendita, anche se è lo stesso stipulante, non può domandare la risoluzione del contratto (art. 1878 c.c.).
Dunque, ove si verifichi il mancato pagamento delle rate scadute, nonostante l’esistenza di un emblematico inadempimento, il legislatore non prevede il rimedio della risoluzione per la rendita vitalizia.
Invece, la S.C. è chiara e univoca nell’affermare che al contratto c.d. “vitalizio alimentare” è senz’altro applicabile il rimedio della risoluzione per inadempimento di cui all’art. 1453 c.c. (C. Cass. n. 24287 del 2015C. Cass., Sez. U, Sent. n. 8432 del 1990 , C. Cass. 04/6395 e C. Cass. 04/18229).
In questo caso, l’inadempimento del vitaliziante dovrà essere valutato alla stregua dell’art. 1455 c.c. sulla rilevanza riguardo all’interesse dell’altra parte.
La S. C., con Sent. n. 10859/2010, ha evidenziato che la pronuncia di risoluzione per inadempimento, ai sensi dell’art. 1458 c.c., ha effetto retroattivo tra le parti.
La restituzione dell’immobile diviene così un effetto automatico della pronuncia di risoluzione del contratto. Anche nel caso di risoluzione per impossibilità sopravvenuta della prestazione, ai sensi dell’art. 1463 c.c., la parte liberata per la sopravvenuta impossibilità deve restituire quanto già ricevuto, secondo le norme relative alla ripetizione dell’indebito.
In mancanza di tempestiva e specifica richiesta non potrà essere adottato alcun provvedimento di restituzione oltre a quello relativo ai beni trasferiti. (Cass, Sez. 3, n. 12746 del 2016).
Alla base di tali decisioni è stato posto il principio secondo il quale il vitalizio alimentare è un negozio atipico distinto dalla rendita vitalizia e a cui non è applicabile l’art. 1878 c.c.
In effetti, mentre nella rendita vitalizia l’inadempimento della obbligazione si presta alla esecuzione coattiva, lo stesso non può dirsi nel caso di vitalizio alimentare.
Inoltre, non adempiere a delle prestazioni di natura assistenziale può determinare situazioni di rischio imponderabile, oltre al venir meno dell’equilibrio contrattuale.
Ne deriva, la necessità di poter risolvere un vincolo contrattuale che non permette di raggiungere le finalità per cui è stato voluto.

 Colpa

Il codice civile, all’art. 1453 c.c., prevede, come condizione preliminare della risoluzione, che il debitore di una prestazione non abbia assolto al comportamento da lui dovuto.
E’ altresì necessario che l’inadempimento sia a lui imputabile a titolo di dolo o colpa. La S.C. ha precisato che, ove ricorrano circostanze obiettivamente apprezzabili, idonee a far escludere l’elemento psicologico, l’inadempimento deve essere ritenuto incolpevole e non può pronunziarsi la risoluzione del contratto” (C. Cass. 19.11.2002, n. 16291).
Ne deriva che la risoluzione è indissolubilmente legata a un inadempimento colpevole. Di conseguenza, in mancanza di colpa del debitore, non sarà possibile agire per la risoluzione del contratto (né ottenere il risarcimento del danno).
Alla stregua di pacifici principi in materia contrattuale ex art. 1218 c.c., la colpa dell’inadempiente è presunta fino a prova contraria (Cass. civ. n. 2853/2005).
La nozione di causa non imputabile ex art. 1218 c. c. si specifica come evento esterno alla cerchia di attività del debitore, imprevedibile ed inevitabile (Cass. 4372/2012).
Per liberare il debitore, la giurisprudenza esige l’esistenza di una specifica causa dell’impossibilità.
Ciò comporta farsi carico del rischio per cause ignote (Cass, sez. III, Sent. N°17143 del 9.10.2012). Così come avviene nel campo extracontrattuale con l’applicazione delle presunzioni di imputabilità del danno e una visione oggettiva del caso fortuito.
La colpa può essere esclusa a fronte di risultanze di fatto relative all’inadempimento contestato e positivamente apprezzabili, dedotte e provate dal debitore (Cass., Sez. 6 – 3, Ord. n. 17540 del 20189).
Non potrà essere riscontrato l’elemento della colpa allorché sia dimostrato che l’obbligato, nonostante l’uso della normale diligenza, non sia stato in grado di eseguire le prestazioni dovute per cause a lui non imputabili.
La prova contraria può consistere anche nella dimostrazione del rifiuto ingiustificato della controparte di ricevere la prestazione.
Quindi, se è il vitaliziato a non accettare o a rendere oltre modo difficoltosa la prestazione dovuta, l’obbligato non può essere qualificato inadempiente.
In una tale evenienza, non sarà rilevante che lo stesso sia stato diffidato o meno ad adempiere, ex art. 1454 c.c., mediante richiesta fatta per iscritto dal creditore.
In tema, la S.C. ha affermato “che non può essere pronunciata la risoluzione del contratto in danno della parte inadempiente, ove questa superi la presunzione di colpevolezza dell’inadempimento, dimostrandone la non imputabilità a causa dell’ingiustificato rifiuto della controparte di ricevere la prestazione”.
Anche se il vitalizio alimentare prevede la forma scritta per la sua esistenza, la prova di eventi concernenti la vita e l’esecuzione del contratto può essere fornita per testimoni. In una tale evenienza, non sarà rilevante nemmeno che lo stesso sia stato diffidato ad adempiere, ex art. 1454 c.c., mediante richiesta fatta per iscritto dal creditore.
L’esclusione della colpa dell’inadempimento non è condizionata ad un‘offerta reale della prestazione, secondo la procedura prevista dagli artt. 1209 e segg. c.c.. Infatti, questa offerta costituisce una facoltà della quale il debitore può avvalersi al diverso fine di determinare gli effetti della mora credendi e di conseguire la propria liberazione. ( C. Cass. 11.02.2005, n. 2853 ; Cass. n. 12760 del 1999Cass. n. 522 del 1995).
Pertanto, pare corretto affermare e concludere che il ripetuto rifiuto del vitaliaziato-creditore può determinare il venir meno del requisito della colpevolezza nella condotta dell’obbligato.

Exit mobile version