Le mere pretese anche se azionate in giudizio ed i diritti incerti o illiquidi di regola esulano dal fenomeno di tipo successorio derivante dalla cancellazione di una società. Diversa valutazione deve essere fatta per i rapporti che non siano stati definiti nella fase della liquidazione o perché trascurati o perché solo in seguito resi noti.
Sommario: – Aggiornato Dic. 2020 –
– Cancellazione Registro Imprese;
– Trasferimento dei rapporti giuridici;
– Rapporti non definiti;
– Volontà di rinunciare al diritto
Cancellazione Registro Imprese
Nel regime anteriore alla riforma del diritto societario, introdotta dal d.lgs. 17/1/2003 n. 6, non vi era estinzione delle società fino a quando vi fossero stati rapporti giuridici pendenti.
L’atto formale di cancellazione di una società dal registro delle imprese aveva mera funzione di pubblicità e non valeva a modificarne il regime.
L’estinzione della società richiedeva l’esaurimento di tutti i rapporti giuridici, attivi e passivi, facenti capo alla stessa.
Perciò, gli eventuali creditori insoddisfatti potevano agire nei confronti della società anche a distanza di molto tempo dalla cancellazione.
Inoltre, fino al momento dell’esaurimento dei rapporti pendenti, la legittimazione processuale permaneva esclusivamente in capo alla società (Cass. n. 15691 del 2003).
Effetto della continuità dell’autonomia patrimoniale della società era che i singoli soci non potevano agire in proprio per far valere presunti crediti vantati dalla società, potendo agire, quali organi della società tuttora in vita, solo qualora ne avessero la rappresentanza (Cass. n. 22690 del 2015).
Il legislatore del 2003 ha stabilito che, a seguito della cancellazione, la società non rappresenta più un autonomo centro di imputazione giuridica e, di conseguenza, che le eventuali richieste dei creditori insoddisfatti nei suoi confronti sarebbero indirizzate ad un soggetto inesistente e che dal momento in cui si verifica l’estinzione la società non può più ammissibilmente agire o essere convenuta in giudizio (Cass. Ordin. n. 24853 del 2018).
Le Sezioni Unite (Cass. n. 4060 del 2010) hanno anche chiarito che la cancellazione dal registro delle imprese determina l’immediata estinzione della società, indipendentemente dall’esaurimento dei rapporti giuridici ad essa facenti capo.
Ciò avviene soltanto nel caso in cui tale adempimento abbia avuto luogo in data successiva all’entrata in vigore dell’art. 4 del d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, che, modificando l’art. 2495, secondo comma, cod. civ., ha attribuito efficacia costitutiva alla cancellazione.
La medesima conseguenza deve essere tratta anche per una società di persone, quantunque la disposizione dell’art. 2495 cod. civ. non si rivolga direttamente a tali società (Cass., Sez. 2, Ordin. n. 23551 del 2018).
Infatti, per le società di persone è rimasto in vigore l’art. 2312 cod. civ., integrato dall’art. 2324 cod. civ. per le società in accomandita semplice.
Va precisato che la condizione delle società di persone si differenzia da quella delle società di capitali in quanto l’iscrizione nel registro delle imprese dell’atto che le cancella ha valore di pubblicità meramente dichiarativa, superabile con prova contraria.
Non potendo attribuirsi natura interpretativa alla disposizione e non avendo efficacia retroattiva, per le società cancellate in epoca anteriore al l °gennaio 2004 l’estinzione opera solo a partire da tale data.
Trasferimento dei rapporti giuridici
La sentenza a Sezioni Unite della S. C. del 12 marzo 2013 n. 6070 ha spiegato che a seguito della cancellazione insorge un fenomeno successorio (v. anche Cass., Sez. L, Ordin. n. 1392 del 2020; Cass. Ordin. n. 8291 del 2020).
Nella sentenza è stato enunciato il seguente principio di diritto: dopo la riforma del diritto societario, attuata dal d.lgs. n. 6 del 2003, qualora all’estinzione della società, di persone o di capitali, conseguente alla cancellazione dal registro delle imprese, non corrisponda il venir meno di ogni rapporto giuridico facente capo alla società estinta, si determina un fenomeno di tipo successorio, in virtù del quale: a) l’obbligazione della società non si estingue, ciò che sacrificherebbe ingiustamente il diritto del creditore sociale, ma si trasferisce ai soci, i quali ne rispondono, nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione o illimitatamente, a seconda che, “pendente societate” fossero limitatamente o illimitatamente responsabili per i debiti sociali; b) i diritti e i beni non compresi nel bilancio di liquidazione della società estinta si trasferiscono ai soci, in regime di contitolarità o comunione indivisa.
Rapporti non definiti
Nella motivazione sono state poi illustrate ulteriori regole che riguardano i rapporti giuridici non definiti e non evidenziati nel bilancio sociale.
La S. C. ha così precisato che devono essere esclusi dal fenomeno successorio rapporti che abbiano ad oggetto “mere pretese”, ancorché azionate o azionabili in giudizio, e altresì i crediti ancora incerti o illiquidi, la cui inclusione in bilancio avrebbe richiesto un’attività ulteriore (giudiziale o extragiudiziale), poiché il mancato espletamento da parte del liquidatore deve far ritenere che la società vi abbia rinunciato, a favore di una più rapida conclusione del procedimento estintivo.
Secondo la S. C., la scelta della società di cancellarsi dal registro senza tener conto di una pendenza non ancora definita, ma della quale il liquidatore aveva (o si può ragionevolmente presumere che avesse) contezza rappresenta una tacita manifestazione di volontà di rinunciare alla relativa pretesa.
Pertanto, la cancellazione risulta incompatibile con la volontà di pervenire al concreto accertamento ed alla liquidazione del credito stesso, per poter poi provvedere all’eventuale ripartizione del ricavato tra i soci. I quali, perciò, non possono qualificarsi come successori della società nella titolarità di un credito cui la società medesima ha rinunciato.
In particolar modo, ciò può intendersi quando si tratti di mere pretese, ancorché azionate o azionabili in giudizio, cui ancora non corrisponda la possibilità d’individuare con sicurezza nel patrimonio sociale un titolo, un diritto o un bene definito.
Ad analoghe conclusioni si deve pervenire nel caso in cui un diritto di credito, oltre che più o meno controverso, non sia neppure liquido, e che solo un’attività ulteriore da parte del liquidatore avrebbe potuto condurre a renderlo liquido.
In questo caso, la scelta del liquidatore di procedere alla cancellazione della società senza svolgere alcuna attività per accertare il credito o farlo liquidare, può essere interpretata come una manifestazione di volontà di rinunciare al credito, decidendo per la estinzione della società.
Invece, una diversa valutazione deve essere fatta quando si tratta di un bene o di un diritto che, se fossero stati conosciuti o comunque non trascurati al tempo della liquidazione, avrebbero dovuto senz’altro figurare nel bilancio e che sarebbero stati perciò suscettibili di ripartizione tra i soci, detratti i debiti.
Il fatto che sia mancata la liquidazione di quei beni o di quei diritti, il cui valore economico sarebbe stato altrimenti ripartito tra i soci, comporta soltanto che, estinta la società, s’instauri tra i soci medesimi un regime di contitolarità o di comunione indivisa, e la relativa gestione seguirà il regime proprio della contitolarità o della comunione. Con sentenze n. 6071 e n. 6072 del 12 marzo 2013, la S.C. ha ribadito detti principi, così da ritenersi definitivamente consolidati.
In applicazione di tali regole, con sentenza n. 25974 del 24 dicembre 2015, la S. C. ha ha ritenuto che non si fosse verificato alcun fenomeno successorio in capo al socio che rivendicava il diritto di subentrare nei rapporti sociali, poiché nella fattispecie si trattava di una richiesta di risarcimento del danno relativa non già a diritti e beni compresi nel bilancio di liquidazione bensì a mere pretese, quantunque azionate in giudizio, ovvero a diritti ancora illiquidi ed incerti che necessitavano di un accertamento giudiziale che non era stato concluso. Ha così confermato la decisione della Corte d’appello che aveva valutato il fatto che il liquidatore della società avesse provveduto alla cancellazione della stessa in pendenza del giudizio come rinuncia ai diritti fatti valere in giudizio. Sul tema di “pretese” da intendersi abbandonate si sono pronunciate altresì: Cass. Ordin. n. 16322 del 2018 e Cass. Ordin. n. 24400 del 2018).
Applicando i medesimi principi, con sentenza 1771 del 2017, la S.C. ha affermato che l’effetto della tacita rinuncia della società può correttamente postularsi – nonostante l’obbligo ex lege del curatore di formulare richiesta di cancellazione della società dal registro delle imprese in ipotesi di chiusura del fallimento per ripartizione finale dell’attivo ovvero per mancanza o insufficienza di attivo – anche a motivo della mancata proposizione da parte della società fallita ovvero da parte di -ogni altro interessato” ( è il caso del socio o dell’amministratore) – del reclamo ex art. 36 1.fall. avverso la richiesta di cancellazione.
Volontà di rinunciare al diritto
Considerato quanto sopra, si comprende che sarebbe errato presumere sempre iuris et de iure, in presenza di una cancellazione richiesta dal liquidatore della società, una rinuncia al diritto azionato, pena il ritenere ingiustificatamente sempre estinto il credito in tali evenienze, sulla base di una presunzione assoluta priva dei caratteri ex art. 2729 c.c.
Al fine di individuare la rinuncia in ordine ai diritti di credito ancora non esatti o non liquidati devono essere riscontrati nel comportamento della società nel momento in cui essa si cancella dal registro delle imprese anche i requisiti della univocità e della concludenza, da valutare con particolare rigore e cautela (Cass. n. 9464 del 2020).
Infatti, la cancellazione potrebbe essere stata, ad esempio, decisa dalla società, perché ritenuto in quel momento più conveniente (risparmio di ulteriori costi, difficoltà organizzative, ecc., anche in presenza di eventi radicali, come es. la scadenza del termine di durata, il raggiungimento dell’oggetto sociale o l’impossibilità di conseguirlo, i dissidi insanabili fra i soci o la continuata inattività dell’assemblea ex artt. 2272 e 2484 c.c.), nell’inesistenza di una disposizione che vieti la cancellazione in presenza di crediti in contesa: senza che ciò possa significare, di per sé solo, anche rinuncia al credito.
La S.C., tornata in argomento con Ordinanza n. 28439 del 2020, ha specificato che la Sentenza, Sez. Un., n. 6070 del 12/03/2013 ha affrontato ed esaminato la questione delle sopravvenienze attive e dei crediti non iscritti a bilancio solo obiter dictum, chiarendo che il destino delle sopravvenienze attive e dei crediti non risultanti dal bilancio di liquidazione non può essere stabilito ex ante in base ad una regola generale, uniforme ed “automatica” e poi stabilito che è compito del giudice di merito decidere caso per caso se, in base alle peculiarità della fattispecie, possa presumersi ex art. 2727 c.c. una volontà della società di rinunciare ad un determinato credito. Nella sentenza, è stato osservato in particolare che se il credito era illiquido; se il liquidatore sapeva della sua esistenza e non l’aveva inserito in bilancio; oppure se il credito “non poteva neppure essere iscritto nel bilancio”, in tutti questi casi la mancata appostazione all’attivo può consentire di presumere una volontà della società di rinunciare a quella pretesa: ma pur sempre di presunzione si tratta, senza alcuna indefettibile implicazione unilaterale tra omessa indicazione del bilancio e remissione del debito. Infatti, la remissione del debito è pur sempre un atto negoziale che richiede una manifestazione di volontà, che potrà essere anche tacita, ma tuttavia inequivoca.
Il silenzio, nel nostro ordinamento giuridico, non può mai elevarsi a indice certo d’una volontà abdicativa o rinunciataria d’un diritto, a meno che non sia circostanziato, cioè accompagnato dal compimento di atti o comportamenti di per sé idonei a palesare una volontà inequivocabile. La mancata appostazione d’un credito nel bilancio finale di liquidazione non possiede i suddetti requisiti di inequivocità. Essa potrebbe teoricamente essere ascrivibile alle cause più varie, e diverse da una rinuncia del credito: ad esempio, l’intenzione dei soci di cessare al più presto l’attività sociale; l’arrière-pensée di coltivare in proprio l’esazione del credito sopravvenuto o non appostato; la pendenza delle trattative per una transazione poi non avvenuta, e sinanche, da ultimo, la semplice dimenticanza o trascuratezza del liquidatore.
Secondo l’Ordin. n. 28439 del 2020, va dunque applicato il seguente principio di diritto:
“la remissione del debito, quale causa di estinzione delle obbligazioni, esige che la volontà abdicativa del creditore sia espressa in modo inequivoco; un comportamento tacito, pertanto, può ritenersi indice della volontà del creditore di rinunciare al proprio credito solo quando non possa avere alcun’altra giustificazione razionale, se non quella di rimettere al debitore la sua obbligazione”.