Il diverso regime che il legislatore ha riservato all’amministrazione della società semplice e in nome collettivo rispetto alla società in accomandita semplice incide nel fenomeno del trasferimento agli eredi della partecipazione sociale
Le società commerciali a base personale (società semplice, società in nome collettivo e società in accomandita semplice) si caratterizzano per il rapporto di fiducia e conoscenza reciproca che deve sussistere tra i soci e che sta alla base del contratto sociale.
Poiché il vincolo sociale è fondato sulla rilevanza dell’elemento personale (intuitus personae) e ha come elemento essenziale la considerazione personale e soggettiva del singolo contraente, la variazione della compagine sociale comporta una modifica anche dell’atto costitutivo.
Tuttavia, per intervenire nel contratto di società è obbligatorio il consenso da parte dei soci o almeno delle maggioranze stabilite nei patti sociali (art. 2252 c.c.).
Ne deriva che, di regola, la morte di un socio non determina la trasmissione della qualità di socio agli eredi, bensì la trasformazione della quota nel corrispondente valore monetario di cui gli eredi diventano creditori e la società debitrice.
Il diritto, riconosciuto agli eredi del socio di una società di persone, alla liquidazione della quota sociale già in titolarità del “de cuius”, ha natura analoga al diritto di credito che sarebbe spettato al socio stesso per l’ipotesi di recesso attuato prima della morte, sicché è soggetto alla prescrizione quinquennale ex art. 2949 cod. civ., applicabile a tutti i diritti derivanti dal rapporto sociale (Corte di Cass. Sent. n. 18963 del 2017).
La domanda non è proponibile nei confronti degli altri soci della società, “uti singuli”, la cui responsabilità è solo sussidiaria come per ogni debito sociale.
Infatti, l’art. 2284 cod. civ., quando prevede il dovere degli “altri soci” di liquidare la quota agli eredi del socio defunto, si riferisce in effetti alla società, ormai costituita soltanto dai soci restanti (Corte di Cass., Sez. U, Sent. n. 291/2000).
Il diritto degli eredi alla liquidazione della quota del loro dante causa è regolato dal combinato disposto degli artt. 2284 e 2289 cod. civ..
Nello specifico, l’art.2289 cod. civ. dispone che gli eredi hanno diritto a una somma di denaro che rappresenti il valore della quota del socio defunto, da liquidarsi in base alla situazione patrimoniale della società nel giorno in cui si verifica lo scioglimento del rapporto sociale, da identificarsi con la data del decesso. Più precisamente il valore va determinato mediante applicazione del metodo c.d. misto, intermedio cioè tra quello reddituale e quello patrimoniale e, dunque, tenendo conto anche della redditività prospettica aziendale e dell’avviamento (Cass., Sez. 6 – 1, Ordin. n. 24769 del 2018). L’onere di provare il valore della quota incombe ai soci superstiti (Cass. Ordin. n. 19305 del 2018).
L’art. 2284 c.c., per il quale, nella società di persone, la morte di un socio dà agli eredi dello stesso il solo diritto alla liquidazione della quota secondo le modalità stabilite dall’art. 2289 c.c., trova applicazione in tutti i casi di morte di un socio. anche quando la società sia composta di due soli soci (Corte di Cass. Ordin. n. 9346 del 2018).
Pertanto, anche nella società di persone composta da due soli soci, ove la morte di un socio determina il venir meno della pluralità dei soci, non può riconoscersi un diritto degli eredi del socio defunto a partecipare alla liquidazione della società ed a pretendere una quota di liquidazione, anziché il controvalore in denaro della quota di partecipazione, in quanto lo scioglimento della società costituisce un momento successivo ed eventuale, rispetto allo scioglimento del rapporto sociale limitatamente al socio, e trova causa non tanto nel venir meno della pluralità dei soci, quanto nel persistere per oltre sei mesi della mancanza della pluralità medesima (Corte di Cass. n. 8670 del 2000).
L’art. 2284 cod. civ. consente delle soluzioni alternative rappresentate dalla facoltà riconosciuta ai soci superstiti di sciogliere anticipatamente la società e dalla opzione della prosecuzione dell’attività sociale con gli eredi.
Nel primo caso, la liquidazione della quota del de cuius viene ricompresa nella liquidazione della stessa società.
Perché si verifichi la continuazione dell’attività sociale con gli eredi occorre, di norma, che la decisione sia adottata all’unanimità degli altri soci nonché il consenso dei primi poiché il subingresso degli eredi implica, come detto, la necessità di rettificare il contratto sociale.
Il principio di riferimento è dettato dall’art. 2252 cod. civ., che è compreso nelle disposizioni riguardanti la società semplice ma è applicabile anche alla società in nome collettivo e alle società in accomandita semplice per effetto dei richiami contenuti nell’art. 2293 cod. civ. e art. 2315 cod. civ.
Esso conferma la natura contrattuale del rapporto sociale che pervade l’intera materia dello scioglimento del singolo rapporto sociale e la sua disciplina può essere modificata rispetto a quella legale da una diversa previsione contenuta nell’atto costitutivo, in conformità con i principi generali operanti in materia contrattuale.
In particolare, l’atto può prevedere la libera trasmissibilità in via successoria della quota sociale o includere altri patti diretti a regolamentare le decisioni dei soci superstiti e degli eredi del socio defunto.
A questo proposito, si parla delle c.d. clausole di continuazione, mediante le quali il contratto sociale regolamenta il caso di morte di uno dei soci.
Esse si definiscono “facoltative” se attribuiscono agli eredi il potere di entrare in società, “obbligatorie” allorché prevedano un’imposizione agli eredi, e non solo ai soci, di continuare la società e, infine, “automatiche” qualora l’accettazione dell’eredità comporti immediatamente l’acquisizione della qualità di socio.
In merito alla validità di una clausola di continuazione e alla possibilità della automatica assunzione della qualità di socio con estensione della conseguente responsabilità illimitata, esiste un favorevole orientamento della S. C.
Con la Sentenza, Sez. I, n. 15395 del 19/06/2013, riguardante la posizione di un socio accomandatario, la S. C. ha compiutamente esaminato la materia.
La pronuncia appare significativa per aver stabilito che è valida la clausola “di continuazione”, con la quale i soci di una società in accomandita semplice avevano stabilito nell’atto costitutivo, in deroga all’art. 2284 cod. civ., l’automatica trasmissibilità all’erede del socio accomandatario defunto della qualità di socio.
Non rileva il fatto che la sentenza attenga il caso di una società in accomandita semplice, con la presenza di due categorie di soci e diverso grado di responsabilità, perché la vicenda era circoscritta al subingresso nella posizione del socio accomandatario illimitatamente responsabile.
L’esame delle motivazioni illustrate dalla S.C. fa comprendere come sia dirimente, riguardo al fenomeno del trasferimento in via successoria della partecipazione sociale di una società di persone, il diverso regime riservato dal legislatore ai soci amministratori della società semplice e in nome collettivo rispetto alla società in accomandita semplice.
Va chiarito che tra il socio di società in nome collettivo ( e di società semplice) e il socio accomandatario di una accomandita semplice vi è una differenza sostanziale.
Essa riguarda non tanto il profilo della responsabilità quanto piuttosto il munus di amministratore.
Infatti, nella società in nome collettivo tutti i soci sono amministratori, solo l’atto costitutivo può disporre diversamente, poiché al riguardo vige la regola generale che l’art. 2257 cod. civ. pone per la società semplice.
Invece, per le S.a.s., l’art. 2318 cod. civ. stabilisce che: “I soci accomandatari hanno i diritti e gli obblighi dei soci della società in nome collettivo. L’amministrazione della società può essere conferita soltanto a soci accomandatari.”
Perciò, i soci accomandatari non sono automaticamente anche amministratori della società.
Infatti, se è vero che amministratori della società in accomandita semplice non possono essere altri che i soci accomandatari, non è tuttavia vero che tutti i soci accomandatari siano necessariamente amministratori (Corte di Cass., Sez. 6 – 1, Ord n. 20671 del 2016).
In coerenza a tali principi, la lettura del testo della Sentenza, Cass. civ. Sez. I, 19/06/2013, n. 15395, fa comprendere che, se il socio che è venuto a mancare riveste anche la qualità di amministratore, la c.d. “clausola di continuazione” non può svolgere alcun effetto.
Nel caso esaminato, la S.C. giunge alla decisione di favore verso la clausola di continuazione mediante le seguenti argomentazioni:
“ 5.1. In primo luogo va rammentato che questa Corte ha già avuto modo di affermare (cfr. Sez. 1 n. 2632/1993) come la c.d. clausola di continuazione, contenuta nel contratto sociale, che preveda la trasmissibilità a favore dell’erede dell’accomandatario della sola partecipazione sociale, e non anche del munus di amministratore rivestito dal defunto (la cui attribuzione ad una determinata persona designata dai soci costituisce elemento essenziale del contratto sociale della società in accomandita), non sia priva di validità, integrando – in tali limiti – quella legittima facoltà dispositiva in deroga alla regola generale (la liquidazione della quota) prevista dall’art. 2284 cod. civ., che la stessa norma (applicabile alla s.a.s. in base al doppio rinvio previsto dagli artt. 2315 e 2293 cod. civ.) riconosce ai soci in sede di conclusione del contratto sociale (cfr. anche, sotto quest’ultimo profilo: Sez. 1 n. 2815/1976). Tale orientamento, cui il Collegio aderisce, implica che l’erede del socio accomandatario può, in base ad una clausola che preveda la trasmissibilità a causa di morte della quota del de cuius, subentrare in tale qualità di socio accomandatario, pur non subentrando automaticamente nella funzione di amministratore della società che nella accomandita semplice – a differenza di quanto previsto dall’art. 2455 cod. civ. nella accomandita per azioni – non è attribuita di diritto a tutti i soci accomandatari (cfr. Sez. 1 n. 21803/06; n. 5790/1997).” 5.2. Tali principi normativi non risultano violati dalla sentenza impugnata, che, da un lato, ha accertato (senza ricevere censure sul punto) che la clausola del contratto sociale della […] s.a.s. prevedente genericamente la trasmissibilità delle quote sociali a causa di morte integra la clausola derogativa della regola generale posta dall’art. 2284 cod. civ.; dall’altro, ha dichiarato che, in forza di tale clausola, […] è subentrata nella sola qualità di socia rivestita dalla defunta genitrice”.
In tal modo, la S. C. ha confermato che:
– la c.d. clausola di continuazione deve comportare il trasferimento a favore dell’erede dell’accomandatario della sola partecipazione sociale, e non anche della funzione di amministratore;
– nella S.a.s. ciò è possibile poiché la carica di amministratore ad una determinata persona è attribuita dai soci e non per effetto delle norme codicistiche come nel caso della s.n.c..
Quindi, la clausola che prevede “la continuazione della società” con gli eredi non può avere effetto se il socio dante causa ricopriva l’ufficio di amministratore della medesima.
Con la Sentenza Cass. Civ. Sez. I, 2632/93 è stato preso in esame proprio il caso di “successione dell’erede nella stessa posizione del socio accomandatario, con l’assunzione della qualità di accomandatario e del munus di amministratore già spettanti al defunto”.
La S. C. ha spiegato che “ La funzione amministrativa integra il momento gestorio dell’attività sociale, è strettamente strumentale al perseguimento del fine sociale ed attiene alla qualificazione della società come impresa. Ma tale funzione, proprio perché essenziale, non potrebbe essere realizzata da un soggetto che, al momento in cui è posto in essere il negozio societario, resti indeterminabile ovvero sia individuabile con criteri di indifferenza rispetto alle sorti della società e allo scopo che i soci intendono perseguire. Una designazione in incertam personam coinvolgente la stessa struttura societaria, lederebbe, perciò, necessariamente, un elemento essenziale del contratto della società in accomandita. Egualmente, sarebbe illegittima una clausola di continuazione che, con indifferenza rispetto ai soci accomandatari o accomandanti, prevedesse genericamente il subentro degli eredi del socio defunto anche nella qualifica di amministratore da lui rivestita nella società. E non potrebbe impedire una diversa determinazione negoziale da parte dell’erede dell’accomandatario e dell’accomandante superstite. Ciò, indipendentemente dal problema (che qui non è necessario affrontare) della trasmissibilità iure ereditario di una situazione personale del de cuius, qual è la qualifica di amministratore “.
Con sentenza n. 12361 del 2002, la S.C. ha poi affermato la intrasmissibilità “iure ereditario” di una situazione personale del “de cuius” quale, nella fattispecie esaminata, la qualifica di socio e liquidatore di una società di persone.
In conclusione, nel caso della società semplice e in nome collettivo, deve affermarsi che in via generale è da considerare inefficace la clausola “di continuazione”, con la quale sia stabilita, in deroga all’art. 2284 cod. civ., l’automatica trasmissibilità della qualità di socio all’erede del socio defunto.
In effetti, l’ingresso nella società non può comportare il conseguimento della veste di amministratore, dal momento che la funzione amministrativa, intrinsecamente connessa al perseguimento del fine sociale e attribuita di diritto ai soci, non può essere affidata ad un soggetto che, al momento in cui è posto in essere il negozio societario, sia rimasto indefinibile.