La dichiarazione giudiziale della paternità naturale

Il procedimento di ammissibilità dell’azione per la dichiarazione giudiziale della paternità, la legittimazione attiva e passiva, il giudice competente, il rito da seguire e la prova

Sommario:

  • ammissibilità dell’azione
  • legittimazione attiva
  • legittimazione passiva
  • giudice competente e rito applicabile
  • sulla prova
  • prescrizione diritto al mantenimento e rimborso

Ammissibilità dell’azione

L’art 274 c.c. prevedeva che l’azione per la dichiarazione giudiziale di paternità o di maternità naturale fosse ammessa solo quando occorrono “specifiche circostanze tali da farla apparire giustificata.”
Il Tribunale era competente a decidere sulla ammissibilità stessa in camera di consiglio con decreto motivato, su ricorso di chi intendeva promuovere l’azione, sentiti il pubblico ministero e le parti e assunte le informazioni del caso. Contro il decreto si poteva proporre reclamo con ricorso alla Corte d’appello, che pronunciava anche essa in camera di consiglio.
L’inchiesta che veniva svolta era di carattere sommario e compiuta dal tribunale senza alcuna pubblicità e doveva essere mantenuta segreta. Al termine gli atti e i documenti venivano depositati in cancelleria ed il cancelliere doveva darne avviso alle parti, le quali, entro quindici giorni dalla comunicazione di detto avviso, avevano facoltà di esaminarli e di depositare memorie illustrative.
Il tribunale, anche prima di ammettere l’azione, se trattasi di minore o d’altra persona incapace, poteva nominare un curatore speciale che la rappresentasse in giudizio.
La decisione sull’ammissibilità dell’azione non costituiva un’anticipazione del giudizio di merito sulla dichiarazione giudiziale di paternità o di maternità, ma una semplice delibazione della non avventatezza e non manifesta infondatezza della domanda, senza acquistare valore di giudicato in ordine alla legittimazione passiva del convenuto rispetto al quale il giudice del merito era comunque l’unico competente a giudicare anche su ogni questione pregiudiziale e preliminare strumentale alla decisione.
Tale giudizio, nella sua struttura iniziale, aveva lo scopo di evitare possibili azioni definite dalla stessa Corte “temerarie e ricattatorie” a danno del preteso padre, e terminava con un decreto, non reclamabile, con cui si pronunciava l’inammissibilità o l’ammissibilità dell’azione stessa.
Tuttavia, diversi interventi della Corte Costituzionale hanno modificato questo giudizio di ammissibilità fino ad escluderlo dall’attuale sistema.
Con la sentenza n. 70 del 1965, la stessa Corte aveva già dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 274, secondo comma, cod. civ. nella parte in cui prevedeva che la decisione fosse presa con decreto non motivato e non reclamabile, e nella parte in cui escludeva la necessità del contraddittorio e dell’assistenza dei difensori, per violazione dell’art. 24, secondo comma, Cost., relativo al diritto inviolabile della difesa, nonché, sempre in riferimento allo stesso principio, la illegittimità costituzionale del terzo comma dell’art. 274, per la parte in cui disponeva la segretezza dell’inchiesta anche nei confronti delle parti.
Successivamente la Corte Costituzionale con la sentenza n. 50 del 2006 ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 274 c.c. per violazione degli artt. 3, 24 e 111 Cost. così da eliminare definitivamente la struttura e la funzione stessa del procedimento di cui all’art. 274 c.c..
La Corte Costituzionale, infatti, ha ritenuto che “l’intrinseca manifesta irragionevolezza della norma (art 3 Cost.) fa sì che il giudizio di ammissibilità ex art. 274 cod. civ. si risolva in un grave ostacolo all’esercizio del diritto d’azione garantito dall’art. 24 della Cost., e ciò per giunta in relazione ad azione volta alla tutela di diritti fondamentali, attinenti allo status ed alla identità biologica; così come da tale manifesta irragionevolezza discende la violazione del precetto (art. 111, secondo comma, Cost.) sulla ragionevole durata del processo, gravato di una autonoma fase, articolata in più gradi di giudizio, prodromica al giudizio di merito, e tuttavia priva di qualsiasi funzione. (…) La circostanza che lo stesso (il procedimento in questione) abbia anche lo scopo di accertare l’interesse del minore non fa venire meno l’incostituzionalità stessa, né giustifica la permanenza nell’ordinamento del giudizio di ammissibilità con questo solo scopo. L’esigenza (…) che l’azione di dichiarazione giudiziale della paternità o maternità naturale risponda all’interesse del minore non viene certamente meno con la soppressione del giudizio di cui all’art. 274 del codice civile, ma potrà essere eventualmente delibata prima dell’accertamento della fondatezza dell’azione di merito”.
Anteriormente alla pronuncia di incostituzionalità, resa da Corte Cost. 10 febbraio 2006, n. 50, si riteneva che tra i motivi di improponibilità della domanda che potevano, da soli, risolvere immediatamente la controversia, portando a una declaratoria di inammissibilità, fosse ricompresa la richiesta di riconoscimento in contrasto con lo stato di figlio legittimo o legittimato (Cass. 19 agosto 1998, n. 8190). La pronuncia della Corte di Cass., Ord. n. 17392 del 2018, ha chiarito che il giudizio di disconoscimento della paternità costituisce un antecedente logico giuridico dell’accertamento della paternità naturale, cosicché è dato di ravvisare un nesso di pregiudizialità in senso tecnico-giuridico che giustifica la sospensione del giudizio a norma dell’art. 295 c.p.c.

Legittimazione attiva

La norma e precisamente l’art. 270 c.c. prevede che l’azione per ottenere che sia dichiarata giudizialmente la paternità o la maternità naturale è imprescrittibile riguardo al figlio. Se il figlio muore prima di avere iniziato l’azione, questa può essere promossa dai discendenti (legittimi, legittimati o naturali riconosciuti) purché sia avviata entro due anni dalla morte. L’azione promossa dal figlio, se egli muore, può essere proseguita dai discendenti (legittimi, legittimati o naturali riconosciuti). La diversità della disciplina dettata dall’art. 270, primi due commi, trova giustificazione nella disomogeneità delle situazioni, giacché l’imprescrittibilità dell’azione riguardo al figlio tutela l’interesse del medesimo al riconoscimento della propria filiazione, interesse che resta integro anche nell’ipotesi di decesso del presunto genitore, mentre il termine decadenziale previsto per l’azione promossa dai discendenti del presunto figlio è giustificato dal fatto che essi sono portatori di un interesse non diretto, ma solo riflesso al riconoscimento della filiazione del loro ascendente; inoltre, a differenza di quanto accade per i discendenti, il diritto al riconoscimento di uno status filiale corrispondente alla verità biologica costituisce per il figlio una componente essenziale del diritto all’identità personale, riconducibile all’art. 2 Cost. ed all’art. 8 della CEDU, che accompagna la vita individuale e relazionale, e l’incertezza su tale status può determinare una condizione di disagio ed un vulnus allo sviluppo adeguato ed alla formazione della personalità (Cass. Ordin. n. 1667 del 2020).
L’art. 271 c.c. che prevedeva che l’azione potesse essere promossa dal figlio entro i due anni dal raggiungimento della maggiore età o, nel caso indicato nel secondo comma dell’articolo 252 c.c., dalla data dello scioglimento del matrimonio per effetto della morte del coniuge, se lo scioglimento fosse avvenuto successivamente al raggiungimento della maggiore età, è stato invece abrogato dall’art. 115 della L. 19 maggio 1975 n. 151. L’azione per ottenere che sia giudizialmente dichiarata la paternità o la maternità può essere promossa, nell’interesse del minore, anche dal genitore che esercita la responsabilità genitoriale prevista dall’art. 316 c.c. o dal tutore. Il tutore però deve chiedere l’autorizzazione del giudice, il quale può anche nominare un curatore speciale. Occorre il consenso del figlio per promuovere o per proseguire l’azione se egli ha compiuto l’età di quattordici anni. Per l’interdetto l’azione può essere promossa dal tutore previa autorizzazione del giudice.
Il figlio sedicenne deve acconsentire al riconoscimento quanto meno prima della decisione e, divenuto maggiorenne nel corso dell’azione per la dichiarazione della paternità naturale, può ricorrere personalmente per cassazione avverso la sentenza d’appello (Cass.  14.05.2005, n. 10131).
L’interesse umano e affettivo del minore alla dichiarazione giudiziale di paternità o maternità non va più valutato dal Tribunale qualora il minore abbia raggiunto i sedici anni, essendo in tale caso la valutazione di detto interesse rimessa allo stesso minore, attraverso la diretta manifestazione di consenso all’azione. A maggior ragione, nel caso in cui l’interessato abbia raggiunto la maggior età nel corso del giudizio e intervenga personalmente nel processo, deve ritenersi superata la necessità del consenso (Cass. n. 3935/2012). Per comprendere dette sentenze bisogna ricordare che la legge 219 del 2012 ha previsto, ai fini del riconoscimento, un abbassamento da 16 a 14 anni, dell’età richiesta per esprimere il consenso.
Si segnala, inoltre, che con detta norma il riconoscimento produce effetti non solo verso i genitori ma anche verso i parenti: l’innovazione non è di poco conto se si pensa che la prole venuta alla luce da genitori non coniugati può vantare legami giuridici con il genitore che ne abbia effettuato il riconoscimento.

Legittimazione passiva

L’azione deve proporsi necessariamente nei confronti di tutti i soggetti la cui sfera giuridica, sotto un profilo personale e patrimoniale, resti sensibile alla formazione di uno status diverso da quello originario, L’art. 276 c.c. dispone che la domanda per la dichiarazione di paternità o di maternità deve essere proposta nei confronti del presunto genitore o, in sua mancanza, nei confronti dei suoi eredi. In loro mancanza, la domanda deve essere proposta nei confronti di un curatore nominato dal giudice davanti al quale il giudizio deve essere promosso. Pertanto, passivamente legittimati sono, in caso di morte dal genitore, esclusivamente i “suoi eredi”, e non anche gli eredi degli eredi di lui od altri soggetti, comunque portatori di un interesse contrario all’accoglimento della domanda, cui è invece riconosciuta la sola facoltà di intervenire in giudizio a tutela dei rispettivi interessi (Cass. S.U. Sent. n. 21287 del 2005).
Nell’ipotesi, in cui il genitore o i suoi eredi diretti manchino, il curatore speciale è parte necessaria dal momento che non può essere accertato il diritto al riconoscimento giudiziale della paternità o maternità quando non vi siano eredi del presunto genitore senza la preventiva nomina e partecipazione al giudizio del predetto curatore, mentre gli eredi degli eredi possono soltanto intervenire in giudizio (Cass. Sent. n. 19790 del 2014).

Giudice competente e rito applicabile

Per quanto riguarda il rito applicabile e l’individuazione del Giudice competente, il Tribunale di Milano sez. IX civ. con ordinanza 29 aprile 2013 nel caso di procedimento relativo a figlio minore di età entra nel merito della questione risolvendo una serie di questioni.
Il Tribunale di Milano stabilisce che in virtù della nuova formulazione dell’art. 38 disp. att. c.c., per effetto della legge 10 dicembre 2012 n. 219, la competenza sull’art. 269 c.c., anche in caso di minori, sia del Tribunale ordinario e conseguentemente il rito applicabile è quello di cognizione ordinaria ex artt. 163 e ss. c.p.c. In tale ordinanza si illustra come la legge 219/2012, infatti, ha rimosso la deroga al rito ordinario che era stata introdotta dall’art. 68 della legge 184-1983 così ripristinando la norma generale di cui all’art. 9, comma II c.p.c. affermando che dove il rito sia stato introdotto erroneamente con ricorso invece che con citazione, il giudice può mutare ex officio il rito ex art. 4 d.lgs. 150/2011 disponendo l’integrazione degli atti : “Con atto depositato in Cancelleria in data 10 aprile 2013, il minore ….. rappresentato dalla propria madre ex art. 273 comma I c.c., propone azione per la dichiarazione giudiziale di paternità, evocando in giudizio il presunto genitore ….. L’atto introduttivo del procedimento rivesta la forma del ricorso. La forma introduttiva del rito non è corretta. In virtù della nuova formulazione dell’art. 38 disp. att. c.c., per effetto della legge 10 dicembre 2012 n. 219, la competenza sull’art. 269 c.c., anche in caso di minori, è del Tribunale ordinario. Quanto al rito da seguire dinanzi al giudice di nuova designazione, secondo Trib. Varese, sez. I, ordinanza 22 marzo 2013 e Trib. Velletri, sez. civ., ordinanza 8 aprile 2013, deve optarsi per il modello processuale di cognizione ordinaria. L’opinione espressa dai primi giudici di merito è confortata anche dai primi commenti di dottrina in cui si è osservato che «la nuova legge, là dove non riproduce nel catalogo delle controversie affidate al giudice specializzato le controversie di cui all’art. 269, comma 1, c.c., restituisce al tribunale ordinario i giudizi dichiarativi della paternità o della maternità naturale di figli minori e il relativo procedimento si svolge ora, anche quando si tratta di figli minori, nelle forme del processo ordinario di cognizione»”.
Anche dopo la modifica introdotta dalla l. 219/12, resta ferma la competenza territoriale del foro di residenza del convenuto. Secondo la sezione (v. Trib. Milano, sez. IX civ., decreto 26 giugno 2013) in materia di azione ex art. 269 c.c., la competenza si radica nel luogo di residenza del convenuto (Cass. Civ. 1373/1992, Sez. Un.; Cass. Civ., 11021/1997: precedenti che si richiamano ex art. 118 disp. att. c.p.c.), non rintracciandosi, peraltro, nel codice di rito, un foro del “concepimento” e nemmeno potendosi ritenere prevalente la tutela del minore, in quanto la causa ha ad oggetto la paternità biologica che, se accertata, legittima le domande nell’interesse della prole, per le quali, sì, opera il foro di residenza del minore (es. 317-bis c.c., 38 disp. att. c.p.c.).

In ordine alla prova

La Corte di Cassazione, fin dalla sentenza n. 4175 del 22.2.2007, ha chiarito il rilievo preminente della prova ematologica, in ragione del notevole grado di affidabilità, da utilizzarsi anche nei giudizi di disconoscimento della paternità, giungendo ad affermare che non solo il giudice di merito deve disporre gli accertamenti genetici, anche in mancanza di prova dell’adulterio, ma che deve, altresì, trarre elementi di prova ex art. 116 c.p.c., dall’eventuale rifiuto di sottoporsi al prelievo.
La S.C. ha precisato che l’ordine del giudice alla parte di sottoporsi agli esami immuno-ematologici è assimilabile all’ordine di ispezione corporale e rimane perciò regolato dalla disciplina prevista dall’art. 118 cod. proc. civ. e che la riconduzione della fattispecie nel novero della disciplina di cui all’art. 118 cod. proc. civ. comporta, a mente del secondo comma di tale norma, la legittima applicazione dell’art. 116, comma 2, cod. proc. civ . al rifiuto di sottoporsi ad indagini ematologiche (Cass. Ordin. n. 23958 del 2018).
La giurisprudenza di legittimità ha confermato più volte che il rifiuto ingiustificato di sottoporsi agli esami ematologici costituisce un comportamento valutabile da parte del giudice ai sensi dell’art. 116 cod. proc. civ., anche in assenza di prove di rapporti sessuali tra le parti, non derivando da ciò né una restrizione della libertà personale del preteso padre, che conserva piena facoltà di determinazione in merito all’assoggettamento o meno ai prelievi, né una violazione del diritto alla riservatezza, essendo rivolto l’uso dei dati nell’ambito del giudizio solo a fini di giustizia.  Proprio la mancanza di riscontri oggettivi assolutamente certi e difficilmente acquisibili circa la natura dei rapporti intercorsi e circa l’effettivo concepimento determina l’esigenza di desumere argomenti di prova dal comportamento processuale dei soggetti coinvolti e, nel caso di rifiuto, il valore indiziario è così elevato da potere, anche da solo, consentire la dimostrazione della fondatezza della domanda (Cass. sent. n. 25675/2105 ; sent. n. 13885/2015 ; Cass. Ordin. n. 28886 del 2019).
Inoltre, non vi è alcuna gerarchia tra i mezzi di prova della filiazione, pertanto, non è necessario dar corso preliminarmente all’istruttoria orale, potendosi esperire subito la prova ematologica (Cass. Sent. n. 24361/2013).
Nel giudizio per la dichiarazione della paternità naturale, il CTU incaricato può utilizzare anche campioni biologici conservati presso gli ospedali in cui è stato precedentemente ricoverato il genitore; infatti, pur se l’’interessato è titolare di un diritto personalissimo che gli potrebbe consentire di opporsi al trattamento dei dati per motivi legittimi e di chiederne la eliminazione definitiva, è la stessa legge conformativa del diritto che attribuisce prevalenza – rispetto al “jus arcendi” dell’interessato – al trattamento dei dati personali qualora “effettuato per ragioni di giustizia“, per tali intendendosi “i trattamenti di dati personali direttamente correlati alla trattazione giudiziaria di affari e di controversie” (Cass. Sent. n. 8459 del 2020).
In tema di dichiarazione giudiziale di paternità, l’art. 269, quarto comma, cod. civ. – secondo il quale la sola dichiarazione della madre e la sola esistenza di rapporti tra questa ed il preteso padre all’epoca del concepimento non costituiscono prova della paternità naturale – non esclude che tali circostanze, nel concorso di altri elementi, anche presuntivi, possano essere utilizzate a sostegno del proprio convincimento dal giudice del merito (Cass. Sez. 1, Sent. n. 12646/2011).
Per quanto riguarda le dichiarazioni della madre naturale, la S.C. ha specificato che la disciplina normativa della legittimazione ad agire nell’azione giudiziale di paternità naturale, contenuta nell’art. 276 c.c., correlata all’interpretazione dell’art. 269 c.c., comma 2 e 4, pone in evidenza che le stesse assumono un rilievo probatorio integrativo, ai sensi dell’art. 116 cod. proc. civ., indipendentemente dalla qualità di parte o dalla formale posizione di terzietà della dichiarante; ne consegue l’inapplicabilità, ai fini della valutazione di tali dichiarazioni, del parametro dell’incapacità a testimoniare contenuto nell’art. 246 c.p.c., costituendo esse, per espressa previsione normativa e nei limiti dell’art. 269 c.c., u.c., uno degli elementi di fatto di cui non si può omettere l’apprezzamento ai fini della decisione (Cass. Sent. n. 12198 del 2012).

Prescrizione diritto al mantenimento e rimborso 

L’obbligo del genitore naturale di concorrere nel mantenimento del figlio insorge con la nascita dello stesso, ancorché la procreazione sia stata successivamente accertata con sentenza.
Infatti, la sentenza dichiarativa della filiazione naturale produce gli effetti del riconoscimento e quindi implica per il genitore tutti i doveri propri della procreazione legittima, incluso quello del mantenimento, ricollegandosi tale obbligazione allo status genitoriale e assumendo, di conseguenza, efficacia retroattiva (Cass. Ordin. n. 16356 del 2018Cass. n. 5652 del 2012).
Perciò, l’obbligo dei genitori di mantenere i figli (artt. 147 e 148 c.c.) sussiste per il solo fatto di averli generati e prescinde da qualsivoglia domanda, sicché nell’ipotesi in cui al momento della nascita il figlio sia riconosciuto da uno solo dei genitori, tenuto perciò a provvedere per intero al suo mantenimento, non viene meno l’obbligo dell’altro genitore per il periodo anteriore alla pronuncia della dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale, essendo sorto sin dalla nascita il diritto del figlio naturale ad essere mantenuto, istruito ed educato nei confronti di entrambi i genitori.
Secondo la S.C. quello dei due che ritarda il riconoscimento ovvero obbliga l’altro, in rappresentanza del figlio a chiedere la dichiarazione giudiziale, non può allegare a proprio vantaggio il ritardo stesso e trarne benefici.
Per queste ragioni, la prescrizione per il diritto al mantenimento del figlio ma anche per quello del genitore al rimborso delle spese effettuate per il mantenimento stesso, non opera dalla nascita ma dal riconoscimento da parte del genitore obbligato ovvero dalla dichiarazione giudiziale di paternità o maternità (Cass. n. 9059 del 2017).
Il rimborso delle spese sostenute per il mantenimento l’educazione e l’istruzione del figlio, a favore del genitore che ha assunto l’obbligo del mantenimento anche per la porzione di pertinenza del genitore giudizialmente dichiarato, non ha carattere alimentare e la prescrizione del diritto è decennale (Cass. n. 7986 del 2014).
Poiché l’obbligazione di mantenimento ex art. 148 c.c. si collega allo status genitoriale ed assume, di conseguenza, pari decorrenza, dalla nascita del figlio, nel caso di successiva cessazione della convivenza fra i genitori, l’obbligo del genitore non affidatario o collocatario decorre non già dalla proposizione della domanda giudiziale, bensì dalla effettiva cessazione della coabitazione. Il principio è stato affermato nel caso in cui la domanda sia stata presentata prima della cessazione della coabitazione; nell’ipotesi inversa il limite alla retroattività della statuizione è costituito dall’espressa domanda della parte, attenendo tale pronuncia alla definizione dei rapporti pregressi tra debitori solidali (i genitori nei riguardi del figlio), ossia a diritti disponibili, e, quindi, non incidendo sull’interesse superiore del minore ( Cass. Ordin. n. 8816 del 2020).