Aggiornato settembre 2021
Dalla verifica tra lo stato di fatto, che emerge durante il sopralluogo, con quello di progetto che è attestato dagli atti comunali, può risultare che un immobile sia stato modificato o realizzato senza conformità rispetto al titolo edilizio. Il T. U. DPR 380/2001 stabilisce delle tolleranze (articolo 34 bis) e in quali casi è possibile sanare l’intervento per conseguire un regolare titolo abilitativo
Sommario:
– Stato di fatto e titolo edilizio;
– Soglia del 2% e art. 34 bis TUE;
– Tolleranza di cantiere;
– Art. 33, comma 2, TUE;
– Art. 34, comma 2, TUE;
– Art. 36 TUE – Accertamento di conformità;
– Art. 36 TUE – Disapplicazione
– Art. 36 TUE e pluralità di opere
– Art. 36 TUE e variante in corso d’opera
– Sanatoria giurisprudenziale;
– Art. 36 TUE e D. Lgs. 42/2004 – autorizzazione paesaggistica;
– Art. 36 TUE e Piano casa;
– Art.. 37 TUE – Interventi in assenza o difformità dalla segnalazione certificata di inizio attività e accertamento di conformità
Stato di fatto e titolo edilizio
Lo stato di fatto di un immobile rappresenta la realtà che si rileva al momento di un sopralluogo e può corrispondere oppure differire da quello che risulta dal progetto o dai progetti edilizi depositati presso il Comune. In materia urbanistica-edilizia vi é la necessità che lo stato del progetto rappresenti in modo assolutamente fedele la reale consistenza dell’immobile (riguardo alla verifica della regolarità urbanistica, non è significativo il certificato di agibilità che è finalizzato esclusivamente alla tutela dell’igienicità, salubrità e sicurezza dell’edificio e non è diretto anche a garantire la conformità urbanistico-edilizia del manufatto (Cons. St. n. 2216 del 2019).
Può accadere che siano state realizzate delle modifiche o degli interventi, piccoli o grandi, mai portati a conoscenza degli Uffici Comunali.
Le differenze tra stato di fatto e di progetto rappresentano possibili abusi rispetto alle leggi che disciplinano gli interventi edilizi, che incidono sulla loro legittimità.
L’art. 10 del d.l. n. 76 del 2020, convertito con modifiche in legge n. 120/2020 (G.Uff. 14.09.2020), ha aggiunto il comma 1 bis all’art. 9-bis d.p.r. 380/01 e ha introdotto una particolareggiata definizione normativa di stato legittimo dell’immobile.
Tale disposizione va intesa nel senso che lo «stato legittimo dell’immobile» è quello riveniente dal «titolo abilitativo che ne ha previsto la costruzione o che ne ha legittimato la stessa», nonché, se a questo siano susseguiti ulteriori titoli abilitativi, dal titolo «che ha disciplinato l’ultimo intervento edilizio che ha interessato l’intero immobile o unità immobiliare, integrati con gli eventuali titoli successivi che hanno abilitato interventi parziali». Pertanto, con l’innovazione apportata dall’art. 10, comma 1, lett. d, n. 2, del d.l. n. 76/2020 (c.d. decreto semplificazioni), conv. in l. n. 120/2020, il legislatore ha inteso semplicemente chiarire che lo «stato legittimo dell’immobile» è quello corrispondente ai contenuti del sottesi titoli abilitativi, relativi non solo alla sua originaria edificazione, ma anche alle sue successive vicende trasformative (T.A.R. della Campania, Sez. St. di Salerno n. 1358 del 2021).
Una volta accertata la presenza di una situazione di abuso, l’A.C. preposta può adottare in qualunque momento gli atti diretti al ripristino delle stato dei luoghi.
Il lungo periodo di tempo eventualmente intercorso dalla sua realizzazione ed il protrarsi dell’inerzia dell’amministrazione non rilevano ai fini della legittimità ed efficacia di un eventuale provvedimento di demolizione (Cons. St. Sent. n. 254 del 2020; Cons. St. Sent. 02/10/2014, n. 4892). Al riguardo occorre rilevare che il trascorrere del tempo di per sé non legittima situazioni che, essendo ab origine contra ius, non possono fondare alcun affidamento incolpevole (Cons. St. Sent. n. 3904 del 2021), Rafforza piuttosto il carattere abusivo dell’intervento, anche perché non ci si può fondatamente dolere del ritardo con cui l’Amministrazione ripristina la legalità, non potendo la tolleranza essere confusa con qualsivoglia anomala forma di sanatoria (C. di Stato, Sent. n. 6181del 2021).
Per queste ragioni, l’Ad. Plenaria del Cons. St., con Sent. n. 9 del 17.10.2017, ha escluso l’obbligo di motivazione dell’ordinanza di demolizione, anche se emessa a distanza di anni dall’abuso e nei confronti del proprietario attuale che non lo ha compiuto (Cons. di Stato n. 5466 del 2018).
Nel caso di interventi edilizi abusivi, di regola, vi è l’obbligo della demolizione e della rimessa in ripristino dei luoghi. Ricorrendone le condizioni, il d.p.r. 380 del 2001 prevede degli strumenti che consentono di evitare queste gravose conseguenze.
Soglia del 2% e art. 34 bis TUE
I. – Il Decreto Legge n. 76 del 2020 – Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale, all’art. 10 “Semplificazioni e altre misure in materia edilizia” lett. o) e p), ha abrogato il comma 2-ter dell’art. 34, che fissava il limite di tolleranza per le difformità dal titolo edilizio (2%), e ha introdotto il nuovo articolo 34 bis TUE.
L’assenza di una compiuta definizione della categoria dei lavori ed interventi eseguiti in parziale difformità ha indotto il legislatore a fissare una soglia di rilevanza minima delle variazioni non costituenti illecito edilizio: si tratta di quegli scostamenti dai parametri autorizzati di misura talmente contenuta da non potere essere considerati un illecito edilizio.
Secondo l’art. 34 bis, comma 1, il mancato rispetto dell’altezza, dei distacchi, della cubatura, della superficie coperta e di ogni altro parametro delle singole unità immobiliari non costituisce violazione edilizia se contenuto entro il limite del 2 per cento delle misure previste nel titolo abilitativo.
La disposizione conferma che la discordanza tra quanto realizzato e quanto evidenziato dal titolo abilitativo, se contenuta nella misura del 2%, come già precedentemente ammesso, non comporta abuso. Contiene altresì un elemento di novità, in quanto, la tolleranza può riguardare oltre alle altezze, distanze, volumetrie, superfici anche ‘ogni altro parametro’, riferimento che deve intendersi rivolto ad ogni altra prescrizione cui devono attenersi le ‘singole unità immobiliari’.
Con il secondo comma dell’art. 34 bis è stato inserito il concetto di tolleranza esecutiva per irregolarità geometriche, collocazione di impianti e opere interne, modifiche di finiture di minima entità. Infatti, la norma dispone che, fuori dei casi di cui al comma, con riguardo agli immobili non sottoposti a tutela ai sensi del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, sono da considerare tolleranze esecutive le irregolarità geometriche (dimensioni finestre, balconi, sporti di gronda, fuori squadro, etc.; v. anche Circ. prot. PG/2018/0410371 del 5 giugno 2018 Emilia Romagna, “pag 9 di 20” – https://territorio.regione.emilia-romagna.it) e le modifiche alle finiture degli edifici (infissi in metallo anziché legno, cornici, decorazioni quando non prescrittivi) di minima entità, nonché la diversa collocazione di impianti e opere interne, eseguite durante i lavori per l’attuazione di titoli abilitativi edilizi, a condizione che non comportino violazione della disciplina urbanistica ed edilizia e non pregiudichino l’agibilità dell’immobile. In linea generale, essa riguarda il caso in cui dallo stato di fatto emergano difformità che non incidono sull’aspetto esteriore dell’edificio, sulle strutture e non siano eseguite in violazione di alcuna normativa tecnica, sempre che non contrastino con prescrizioni, la normativa edilizia e urbanistica, non compromettano l’agibilità e non riguardino immobili vincolati ai sensi del Codice dei beni culturali e del paesaggio.
Infine, il comma 3 ha stabilito che le tolleranze esecutive fissate dall’art. 34 bis eventualmente realizzate nel corso di precedenti interventi edilizi, non costituendo violazioni edilizie, possono essere dichiarate da un tecnico abilitato, ai fini dell’attestazione dello stato legittimo degli immobili, nella modulistica relativa a nuove istanze, comunicazioni e segnalazioni edilizie ovvero, con apposita dichiarazione asseverata allegata agli atti aventi per oggetto trasferimento o costituzione, ovvero scioglimento della comunione, di diritti reali. Vale a dire che anche le preesistenti deviazioni rispetto al titolo edilizio sono tollerabili e non compromettono la “legittimità” del titolo abilitativo se ricadono nei limiti del nuovo articolo 34-bis.
Pertanto, tutto ciò rientra nel novero del nuovo regime di tolleranza non rappresenta una violazione e non deve essere regolarizzato.
II. – Si richiama in sintesi il precedente regime. Prima dell’attuale normativa di cui all’art. 10, comma 1, lettere o) e p) del D.L. 16 luglio 2020, n. 76, convertito nella Legge n. 120/2020, la legge 106 del 2011 era intervenuta sull’articolo 34 del TU dell’Edilizia ed aveva istituito il comma 2 ter (ora abrogato), fissando un limite di tolleranza per le difformità. Già in precedenza, anche la giurisprudenza del C. di S. aveva ammesso che lievi scostamenti nei confronti delle misurazioni previste in progetto “plausibili nell’ambito della tecnica costruttiva” di cantiere potevano non essere considerati come difformità rispetto al titolo edilizio ( Cons. St. Sent . n. 2253 del 2007). Per effetto del comma 2 ter, erano sono stati esclusi dal novero degli interventi in parziale difformità dal titolo abilitativo le violazioni di altezza, distacchi, cubatura o superficie coperta che non eccedano per singola unità immobiliare il 2 per cento delle misure di progetto. La misura di tolleranza rispetto al progetto non valeva nel caso di interventi su immobili assoggettati a vincolo storico, artistico o paesaggistico in difformità dalle autorizzazioni rilasciate ai sensi del D.Lgs. 42/2004 (Codice dei beni culturali e del paesaggio). La disposizione operava unicamente nei rapporti con l’amministrazione, non potendo legittimare alcuna lesione dei diritti dei terzi, specie in materia di distacchi tra costruzioni.
III. – In materia paesaggistica, il D.P.R. 13 febbraio 2017, n. 31 ha instaurato il nuovo regolamento che individua tra gli interventi esclusi dall’autorizzazione: “A.31. opere ed interventi edilizi eseguiti in variante a progetti autorizzati ai fini paesaggistici che non eccedano il due per cento delle misure progettuali quanto ad altezza, distacchi, cubatura, superficie coperta o traslazioni dell’area di sedime” (v. allegato A di cui all’art. 2, comma 1).
Il nuovo regime di semplificazione paesaggistica riguarda i vincoli di cui agli articoli 140, 141, 142 e 143 del Codice dei Beni culturali e del paesaggio – D. Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 (Art. 1 D.P.R. 31/2017 – Definizioni, lett. f).
L’Ufficio Legislativo del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo (acronimo MiBACT) ha fornito una informativa 11/04/2017 n. 0011688 di carattere generale sulle nuove disposizioni relative all’individuazione degli interventi esclusi dall’autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata.
tolleranza di cantiere
In tema di tolleranza di cantiere, la percentuale su cui misurare lo scostamento o, se si vuole, lo stato di abusività dell’intervento, va posta in relazione con la porzione di immobile cui esso accede, e non con la superficie dell’intero fabbricato (C. di Stato n. 230 del 2021); esemplificativamente, quanto alle opere che possono aver comportato incremento di volumetria e superficie utile il computo dell’ampliamento di un magazzino va riferito al locale-magazzino medesimo, e non all’intero plesso, ovvero anche solo al piano ove lo stesso insiste (C. di St. n. 405 del 2018).
Aggiunge T.A.R. Lazio n. 4413 del 2021 che la suddetta interpretazione appare quella più corrispondente al dettato letterale dell’art. 34 bis del DPR n. 380/2001 (che ha sostituito l’ultimo comma dell’art. 34 previgente, all’interno del medesimo decreto) riferito, appunto, alle “singole unità abitative” e, soprattutto, all’esigenza sostanziale di garantire quanto più possibile la corretta esecuzione dei progetti costruttivi autorizzati, con conseguente irrilevanza soltanto degli scostamenti di lieve entità (2% della superficie del singolo appartamento), inquadrabili nelle “tolleranze di cantiere”, e non di sensibili modifiche al progetto approvato, che altrimenti potrebbero essere tanto più estese quanto più grande risulti l’edificio complessivo; detta interpretazione non risulta efficacemente smentita né dal riferimento della norma dell’art. 34 bis cit. al “titolo abilitativo” (che pur riguardando, se del caso, tutta la costruzione, non può che contenere un preciso riferimento anche alle singole unità immobiliari), né dalle argomentazioni contenute nelle più risalenti decisioni giurisprudenziali, favorevoli ad una più estesa liberalizzazione delle difformità da progetto, particolarmente rischiosa, però, per il possibile pregiudizio arrecato all’interesse pubblico urbanistico ed edilizio, in caso di fabbricati di grandi dimensioni.
In materia di tolleranze costruttive, l’Associazione Nazionale Costruttori Edili (ANCE) ha pubblicato un significativo dossier con data 14 maggio 2021 sulla condizioni di applicabilità e rapporto fra normativa statale e regionale (https://www.anceaies.it/wp-content/uploads/2021/05/Dossier-Ance-tolleranze-costruttive-1.pdf).
Art. 33, comma 2, TUE
La norma si rivolge agli interventi e alle opere di ristrutturazione edilizia eseguiti in assenza di permesso (sulla nozione di ristrutturazione: Cons. Stato Sent. n. 1433/2017 e Cons. Stato Sent. 12-10-2017, n. 4728).
Consente di evitare l’ordine di rimessa in pristino dello stato dei luoghi, qualora, sulla base di motivato accertamento dell’ufficio tecnico comunale, sia verificato che il ripristino non sia possibile. In questo caso, il dirigente/ responsabile dell’ufficio irroga una sanzione pecuniaria pari al doppio dell’aumento di valore dell’immobile
Per gli edifici adibiti ad uso diverso da quello di abitazione la sanzione è pari al doppio dell’aumento del valore venale dell’immobile, determinato a cura dell’agenzia del territorio.
Sull’ambito applicativo della disposizione, il Consiglio di Stato ha precisato che:
– quando risulta la realizzazione di abusi edilizi, il Comune deve senza indugio emanare l’ordine di demolizione per il solo fatto di aver riscontrato opere abusive;
– tale principio si fonda sul dato testuale dell’art. 31, co. 2, del testo unico n. 380 del 2001;
– le questioni inerenti alla sussistenza dei presupposti di applicabilità dell’art. 33, comma 2, riguardano una fase procedimentale successiva ed eventuale, dal momento che il destinatario dell’ordine di demolizione può preferire – entro il termine di novanta giorni, decorso il quale si verifica il prospettato acquisto del bene da parte dell’Amministrazione comunale – di adeguare la situazione di fatto a quella di diritto e di non pagare la somma corrispondente al doppio dell’aumento di valore dell’immobile;
– per l’applicabilità dell’art. 33, comma 2, occorre la sussistenza di alcuni presupposti, tra cui proprio la previa emanazione dell’ordine di demolizione, l’istanza tempestiva del destinatario dell’ordine ed un «motivato accertamento dell’ufficio tecnico comunale» sulla impossibilità materiale di ripristinare lo stato dei luoghi, configurabile soltanto quando «la demolizione, per le sue conseguenze materiali, inciderebbe sulla stabilità dell’edificio nel suo complesso» legittimamente realizzato, il che non avviene – in linea di principio – quando si tratta di eliminare opere realizzate in aggiunta a un manufatto preesistente (Cons. di Stato n. 2347 del 2017).
Art. 34, comma 2, TUE
La norma riguarda gli interventi e le opere realizzati in parziale difformità dal permesso di costruire.
Essa dispone che, quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio per la parte eseguita in conformità, il dirigente/responsabile dell’ufficio applica una sanzione pari al doppio del costo di produzione della parte dell’opera realizzata in difformità dal permesso di costruire.
Per le opere adibite ad usi diversi da quello residenziale, la sanzione è pari al doppio del valore venale, determinato a cura della agenzia del territorio.
La parziale difformità presuppone un titolo edilizio abilitativo dell’intervento o della costruzione . Non riguarda i casi di opere realizzate in totale difformità o con variazioni essenziali dallo stesso (Cons. di St. n. 1481/2017). Si configura quando le modificazioni incidono su elementi particolari e non essenziali della costruzione e si concretizzano in divergenze qualitative e quantitative non incidenti sulle strutture essenziali dell’opera.
Per gli interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire, è prevista la demolizione, a meno che, non potendo essa avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, debba essere applicata la sanzione pecuniaria.
Il campo di applicazione dell’art. 34 del TUE è stato modificato dall’articolo 5, comma 2, lettera a), numero 5), del D.L. 13 maggio 2011, n. 70, convertito con modificazioni dalla L. 12 luglio 2011, n. 106.
Proprio l’assenza di una compiuta definizione della categoria dei lavori ed interventi eseguiti in parziale difformità ha indotto il legislatore a fissare una soglia di rilevanza minima delle variazioni non costituenti illecito edilizio. Si tratta di quegli scostamenti dai parametri autorizzati di misura talmente contenuta da non potere essere considerati un illecito edilizio, anche se non in conformità al progetto. Per questo è stata stabilita una soglia minima di rilevanza delle difformità parziali, che è esclusa “in presenza di violazioni di altezza, distacchi, cubatura o superficie coperta che non eccedano per singola unità immobiliare il 2 per cento delle misure progettuali” (comma 2-ter) (Cons. Stato, Sez. VI, Sent., n. 1484/2017). Il mero superamento del margine di tolleranza non può ritenersi sufficiente per integrare gli estremi della variazione essenziale ex art. 32 DPR n. 380/01 (Cons. di St. n. 3666 del 2021). Secondo la pronuncia del Tar Molise 24 maggio 2017, n. 192, ai fini dell’applicazione dell’art. 34, comma 2, d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 – il quale prevede che per l’applicazione della sanzione pecuniaria sostitutiva della demolizione è necessario che le opere oggetto di contestazione siano solo parzialmente difformi dal titolo abilitativo – occorre tener conto del complesso edilizio risultante dalle opere via via realizzate. Pertanto, l’art. 34 si applica anche al caso in cui le opere edilizie sono del tutto prive di abilitazione urbanistica, con conseguente difformità totale, se le stesse sono compenetrate rispetto ad altri manufatti preesistenti i quali, invece, sono stati realizzati in base a regolare titolo abilitativo (Tar Molise 24 maggio 2017, n. 192).
Art. 36 TUE – Accertamento di conformità
I. La regolarizzazione di opere abusive può essere disposta in sede amministrativa solo nei casi previsti dalla legge. Vale a dire o in presenza di condono straordinario (consentito in passato con leggi ad tempus: n. 47/1985; n. 724/1994; n. 326/2003), ovvero nei casi in cui vi siano le condizioni per il c.d. accertamento di conformità ai sensi dell’art. 36 del testo unico sull’edilizia. (Cons. St. 26/05/2015, n. 2605).
L’accertamento di conformità è disciplinato dall’art. 36 cit..
Si tratta di uno strumento di carattere generale, indirizzato a sanare abusi per interventi eseguiti in assenza o in difformità del permesso di costruire, ma conformi alla disciplina edilizia urbanistica e, precisamente, a quella vigente sia al momento della realizzazione del manufatto che al momento della presentazione della domanda di sanatoria (c.d. doppia conformità). Pertanto, si deve sempre escludere la possibilità di una legittimazione postuma di opere originariamente abusive anche se, successivamente, siano divenute conformi alle norme edilizie ovvero agli strumenti di pianificazione urbanistica. La prova circa il tempo dell’ultimazione delle opere edilizie grava in via esclusiva sul privato, atteso che soltanto questi può fornire (in quanto ordinariamente ne dispone) inconfutabili atti, documenti o altri elementi probatori che siano in grado di radicare la ragionevole certezza dell’epoca di realizzazione di quanto è stato costruito (T.A.R. Lazio, Sez. Sec. Quater, n. 8308 del 2021), mentre l’amministrazione comunale non è normalmente in grado di accertare la situazione edilizia di tutto il proprio territorio alla data indicata dalla normativa (Cons. di St. Sent. n. 4063 del 2021). Solo per il condono edilizio, a differenza di quanto previsto per la sanatoria edilizia di cui all’art. 36 d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, non è richiesto che l’opera abusivamente realizzata sia conforme agli strumenti urbanistici vigenti al momento del rilascio del provvedimento ed a quelli vigenti al momento della sua realizzazione ” (Cass., Sent. n. 37659 del 2019).
In argomento il Cons. di Stato, con parere 13 luglio 2022 n. 1219, ha spiegato che l’illecito edilizio degli interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire si configura, “quando la trasformazione edilizia del territorio viene realizzata senza il previo rilascio del prescritto titolo abilitativo ed assume la connotazione, ai fini della irrogazione della sanzione ripristinatoria, di un illecito formale, risultando in proposito irrilevante la conformità dell’opera realizzata con lo strumento urbanistico ovvero il contrasto con esso.Tale elemento rileva, infatti, ai fini dell’eventuale sanatoria dell’opera attraverso l’istituto dell’accertamento di conformità, disciplinato dall’articolo 36 del Testo Unico Edilizia, utilmente praticabile ai fini del recupero della legalità nel caso in cui l’opera risulti, sia all’atto della sua realizzazione che al momento della richiesta della sanatoria, conforme alla normativa ed agli strumenti urbanistici vigenti.”.
La sanatoria in parola è applicabile ad interventi di nuova costruzione, o lavori di ampliamento e/o di ristrutturazione di edifici esistenti, eseguiti in assenza del titolo abilitativo, oppure in totale difformità o con variazioni essenziali da quello rilasciato.
Per variazioni essenziali devono intendersi gli interventi che incidono su parametri urbanistici e sulle volumetrie, modificano la destinazione d’uso e la categoria edilizia, alterano la sagoma dell’edificio e violano le prescrizioni eventualmente contenute nel permesso di costruire. (T.A.R. Lombardia Milano Sez. I, Sent., n. 1437 del 2017); secondo la Corte di Cassazione, Sez. 3 penale, Sent. n. 34148 del 2018, potrà aversi variazione essenziale quando si verifica una o più delle seguenti condizioni: “a) mutamento della destinazione d’uso che implichi variazione degli standards previsti dal D.M. 2 aprile 1968, n. 1444; b) aumento consistente della cubatura o della superficie di solaio, da valutare in relazione al progetto approvato; c) modifiche sostanziali di parametri urbanistico-edilizi del progetto approvato ovvero della localizzazione dell’edificio sull’area di pertinenza; d) mutamento delle caratteristiche dell’intervento edilizio assentito; e) violazione delle norme vigenti in materia di edilizia antisismica, quando non attenga a fatti procedurali.”
L’art. 36 del d.P.R. n. 380/2001 non consente sanatorie parziali o condizionate di edificazioni strutturalmente unitarie (C.d.S. n. 3410 del 2014), né rilasciate con prescrizioni, con le quali si subordina l’efficacia dell’accertamento alla realizzazione di ulteriori opere (T.A.R. Sardegna n. 746 del 2017), anche se tali interventi sono finalizzati a ricondurre il manufatto nell’alveo della legalità poiché ciò “contrasterebbe ontologicamente con gli elementi essenziali dell’accertamento di conformità, i quali presuppongono la già avvenuta esecuzione delle opere e la loro integrale conformità alla disciplina urbanistica”( Cons. di St. n. 325 del 2019).
A medesime conclusioni si deve pervenire quando le modifiche allo status quo sono apportate preliminarmente su iniziativa dello stesso richiedente il titolo in sanatoria (Con. St. n. 423 del 2021).
Invece, è ammissibile inserire, in via generale ed in mancanza di specifiche disposizioni di legge contrarie, prescrizioni a tutela sia dell’ambiente, sia del tessuto e del decoro abitativo. Il Comune, ove sussistano speciali circostanze, ben può imporre prescrizioni purché esse non contrastino con la natura e la tipicità del provvedimento, non siano tali da snaturare l’atto (negandone la funzione) o impongano sacrifici ingiustificabili, sproporzionati o immotivati. Ciò in quanto tali clausole, che esattamente sono dette «prescrizioni», semplificano la procedura, giacché senza di esse occorrerebbe respingere l’istanza del privato (spiegando i punti del progetto che devono essere rivisti), ripresentare il progetto e, poi, riapprovare il progetto emendato. Attraverso l’apposizione di prescrizioni congruenti col progetto presentato si semplifica l’iter procedimentale. Pertanto, la modalità di rilasciare permessi di costruire con prescrizioni è conforme sia alle esigenze generali di complessiva speditezza ed efficienza dell’azione amministrativa, sia alla necessità di neutralizzare (o, almeno, contenere) l’effetto del passaggio del tempo per i destinatari dell’atto, senza al contempo creare loro soverchi aggravi. Nel caso di rilascio di una concessione in sanatoria, sono particolarmente avvertite le esigenze di contenimento dell’impatto di opere abusive —quindi, incongruenti con la pianificazione urbanistiche— sul tessuto edilizio ed ambientale e sul decoro urbano. Sicché il permesso di costruire in sanatoria può legittimamente introdurre o recepire prescrizioni intese ad imporre correttivi sull’esistente o a mitigare l’impatto paesaggistico del manufatto (sì da renderlo più coerente con il contesto ambientale), “qualora si tratti di integrazioni minime o, comunque, tali da agevolare una sanatoria altrimenti non rilasciabile (cfr., p. es., Cons. St., IV, 8 settembre 2015 n. 4176)” (Cons. di Stato n. 6327 del 2018).
II. Il rilascio del permesso di costruire in sanatoria consegue necessariamente ad un’istanza dell’interessato e il competente ufficio comunale si pronuncia entro sessanta giorni. Decorso il termine si forma il cosiddetto “silenzio rigetto”.
L’inerzia dell’amministrazione protrattasi per il tempo prescritto dalla legge, equivale, inderogabilmente, a un provvedimento tacito di diniego, senza che l’effetto legale tipico possa restare pregiudicato dal fatto che nel corso del procedimento sia intervenuto un preavviso di rigetto in relazione al quale la parte interessata abbia proposto le proprie osservazioni, ferma restando, in ogni caso, la possibilità dell’adozione di un tardivo provvedimento di diniego espresso (Cons. di St. n. 4169 del 2022).
La procedura comporta il versamento di un contributo di costruzione pari al doppio dell’ordinario. Il termine di prescrizione per la somma richiesta in pagamento è di dieci anni “poiché altro non è se non il contributo di costruzione, previsto dall’art. 16 del T.U. edilizia che deve essere versato, nella peculiare fattispecie di cui all’art. 36 del T.U., in misura doppia” (Cons. di St. n. 3282 del 2020).
La sola proposizione dell’istanza di cui all’art. 36 non incide sugli effetti degli eventuali provvedimenti comunali in precedenza emanati. Infatti, ha natura eccezionale ed è insuscettibile di applicazione analogica la disposizione di cui alla L. n. 47 del 1985 (trasfusa nelle leggi del 1994 e del 2003 che la hanno richiamata), secondo cui la presentazione della domanda di condono comportava la sospensione dei procedimenti amministrativi e dei giudizi aventi per oggetto l’immobile per il quale fosse stata presentata la medesima domanda” (Cons. St. n. 5654 del 2017).
In particolare, la presentazione di una istanza di sanatoria, ex art. 36 D.P.R. 380/2011 non rende inefficace il provvedimento sanzionatorio pregresso. Non vi è una automatica necessità per l’amministrazione di adottare, se del caso, un nuovo provvedimento di demolizione. La domanda di accertamento di conformità determina un arresto dell’efficacia dell’ordine di demolizione, ma tale inefficacia opera in termini di mera sospensione. In caso di rigetto dell’istanza di sanatoria, l’ordine di demolizione riacquista la sua efficacia (Cons. St. n. 2596 del 2022 ; Cons. St. 10.12.2018, n. 6954).
La legittimazione a chiedere l’accertamento e la successiva sanatoria spetta non solo al proprietario dell’area o al titolare di un diritto reale sulla stessa, ma anche a chiunque abbia un qualsiasi altro titolo idoneo a richiederla (C.d.S. n. 4557/2010).
Legittimati all’istanza di condono edilizio sono, oltre coloro che hanno titolo a richiedere la concessione edilizia/permesso di costruire, anche il promissario acquirente e, più in generale, tutti coloro che vi abbiano interesse, senza il necessario consenso ed anche, al limite, contro la volontà del proprietario del bene (Cass. n. 11039 del 2016).
L’art. 36 cit. ammette la proposizione dell’istanza anche da parte del “responsabile dell’abuso”, tale dovendo intendersi lo stesso esecutore materiale, ovvero chi abbia la disponibilità del bene, al momento dell’emissione della misura repressiva (ivi compresi concessionari o conduttori dell’area interessata, fatte salve le eventuali azioni di rivalsa di questi ultimi – oltre che dei proprietari – nei confronti degli esecutori materiali delle opere, sulla base dei rapporti interni intercorsi, Cons. di St. n. 7305 del 2018 ).
La relativamente maggiore ampiezza della legittimazione a chiedere la sanatoria, rispetto al preventivo permesso di costruire, trova giustificazione anche nella volontà di accordare al responsabile – ove coincidente con l’esecutore materiale delle opere abusive – uno strumento giudiziario utile al fine di evitare le conseguenze penali dell’illecito commesso, fermo restando che non tutti, indifferenziatamente, possono richiedere, senza il consenso dell’effettivo titolare del bene sul quale insistono le opere (il quale potrebbe essere completamente estraneo all’abuso ed avere anzi un interesse contrario alla sua sanatoria), una concessione che potrebbe risolversi in danno dello stesso (Cons. di St. n. 4638 del 2018).
Il rilascio del provvedimento consegue ad un’attività vincolata della P.A., consistente nell’applicazione alla fattispecie concreta di previsioni legislative ed urbanistiche a formulazione compiuta e non elastica, che non lasciano all’Amministrazione spazi per valutazioni di ordine discrezionale.
La pronuncia negativa sulla domanda d’accertamento di conformità – che ha natura vincolata e non è rimessa a valutazioni discrezionali dell’Amministrazione – non necessita di comunicazione di avvio del procedimento, perché atto finale di una procedura attivata dalla stessa parte interessata (Cons. di St. n. 573 del 2020).
Nel caso di reiterazione di una stessa istanza non sussiste per il comune un obbligo a esaminarla per il principio pacifico, ribadito da costante giurisprudenza, per cui non vi è obbligo di provvedere sull’istanza del privato che sia meramente reiterativa di una precedente, sulla quale si sia già provveduto (Cons. St. Sent. n. 3269 del 2019).
Se ricorrono le condizioni espressamente indicate dall’art. 36, il rilascio del permesso in sanatoria estingue il reato di cui all’art. 44 del Testo unico dell’edilizia (Cass. n. 26425 del 2016; Cass. n. 35872 del 2016).
Invece, non determina l’estinzione dei reati previsti dalla normativa antisismica e sulle opere di conglomerato cementizio (Cass. n. 38953 del 2017).
Inoltre, non estingue i reati paesaggistici di cui al D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, che sono soggetti ad una disciplina difforme e differenziata, legittimamente e costituzionalmente distinta, avente oggettività giuridica diversa, rispetto a quella che riguarda l’assetto del territorio sotto il profilo edilizio (Cass. n. 29979 del 2019).
Art. 36 TUE – Disapplicazione
Poiché l’esplicazione dell’attività amministrativa si manifesta non semplicemente mediante il nomen iuris adottato, bensì anche attraverso la relativa motivazione che costituisce misura e limite del potere esercitato, il giudice può accertare la sussistenza o meno del requisito della “doppia conformità”: l’eventuale esito negativo consente di escludere qualsivoglia estinzione sopravvenuta del reato edilizio (Cass. n. 37050 del 2019). Al giudice va comunque e sempre riconosciuta la potestà di riscontrare la legittimità dell’atto amministrativo in sanatoria sotto il profilo della sussistenza dei presupposti per la sua emanazione e dei requisiti di forma e di sostanza richiesti dalla legge ( Cass. n. 2284 del 2021).
Perciò, il permesso di costruire in sanatoria può sempre essere considerato illegittimo e quindi disapplicato con la conferma dell’ingiunzione di demolizione .
In particolare “E’ compito del giudice, in sede esecutiva, accertare la legittimità della sanatoria e nell’ipotesi di illegittimità di disapplicare l’atto amministrativo con conferma dell’ingiunzione di demolizione dell’immobile abusivo. Infatti, «In tema di reati edilizi, l’ordine di demolizione impartito dal giudice con la sentenza di condanna è suscettibile di revoca quando risulti assolutamente incompatibile con atti amministrativi della competente autorità, che abbiano conferito all’immobile una diversa destinazione o ne abbiano sanato l’abusività, fermo restando il potere-dovere del giudice dell’esecuzione di verificare la legittimità dell’atto concessorio sotto il duplice profilo della sussistenza dei presupposti per la sua emanazione e dei requisiti di forma e di sostanza richiesti dalla legge per il corretto esercizio del potere di rilascio»” (Cass. n. 35495 del 2021). Precisa la S.C. che l’accertamento attiene al fatto e perciò è insindacabili in sede di legittimità se adeguatamente motivato.
Dunque, il giudice è tenuto a verificare la legittimità del permesso di costruire in sanatoria sotto il profilo del rispetto dei presupposti e dei requisiti di forma e di sostanza richiesti dalla legge e, ove lo ritenga illegittimo – in quanto emesso in assenza delle condizioni formali e sostanziali previste dalla legge per la sua esistenza – ne deve escludere l’efficacia (Cass. n. 37397 del 2021).
In quest’ultima decisione, la S.C. ha riaffermato il principio secondo il quale, sebbene la legittimazione a richiedere la sanatoria ex art. 36 del D.P.R. n. 380/2001, siccome estesa, ai sensi di tale disposizione, non solo al proprietario dell’immobile ma anche al responsabile dell’abuso, è più ampia rispetto a quella a richiedere il preventivo permesso di costruire ex art. 11 D.P.R. n. 380/2001, limitata al solo proprietario, tale legittimazione non è incondizionata. Infatti, la disposizione di cui all’art. 31, comma 3, del D.P.R. n. 380/2001 pone dei limiti temporali all’esercizio della predetta facoltà, ossia nel momento della acquisizione dell’abuso al patrimonio comunale decorsi 90 giorni dalla notifica all’interessato dell’ordine di demolizione comunale e comunque in quello dell’irrogazione delle sanzioni amministrative. La sussistenza di quest’ultimo dato e il suo riflesso sulla legittimazione a richiedere la concessione ex art. 36 del DPR 380/01 devono essere compiutamente valutati dal giudice.
Art. 36 TUE e pluralità di opere
L’art. 36 D.P.R. n. 380/01 regola la sanatoria avuto riguardo all’intervento abusivo e non alla singola opera abusiva; perciò la sanatoria dell’intervento non può che avere ad oggetto il complesso delle opere in cui lo stesso si sostanzia (Cons. St. n. 515 del 2021).
In presenza di opere connesse, funzionali alla realizzazione di uno scopo unitario, qualora la parte istante chieda il rilascio di un permesso di costruire in sanatoria limitatamente a taluna delle opere in difformità, l’Amministrazione procedente è tenuta a svolgere un esame complessivo della fattispecie concreta, al fine di accertarne la conformità alla pertinente disciplina edilizia e urbanistica, e ove riscontri l’esistenza di altre opere abusive, non scomponibili in progetti scindibili, ma funzionalmente connesse al perseguimento di uno scopo unitario, non può accogliere una domanda riguardante singole opere, dovendo aversi riguardo al complessivo intervento realizzato (Cons. di Stato Sent. 1848 del 2020). La doppia conformità urbanistica delle opere oggetto di sanatoria presuppone, quindi, la regolarità edilizia e urbanistica dell’intero immobile, altrimenti l’Amministrazione andrebbe a sanare la realizzazione di opere di modifica di un immobile abusivo, in contrasto con la previsione dell’art. 36 cit. e con i generali poteri di vigilanza in materia edilizia.
Pertanto, se “a fronte di plurime opere abusive, ciascuna suscettibile di formare oggetto di un progetto scindibile, l’istante ha la possibilità di chiedere l’accertamento di conformità della singola opera, idonea ad integrare un autonomo intervento, decidendo di provvedere per le rimanenti opere abusive alla demolizione, in ottemperanza all’ordinanza ingiuntiva già emessa; qualora le opere abusive siano tra loro connesse, dando luogo ad un intervento unitario, l’istante è tenuto a scegliere tra l’integrale ripristino dello stato dei luoghi, mediante la demolizione e rimozione di tutte le opere accertate come abusive dall’Amministrazione, ovvero la presentazione dell’istanza di accertamento di conformità riferita al complessivo intervento abuso, unitariamente considerato, sempre che lo stesso sia conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della sua realizzazione e al momento di presentazione della domanda (Cons. di Stato Sent. n. 1848 del 2020 cit.). Non è dato, infatti, scomporre l’abuso in più parti, al fine di negarne l’assoggettabilità alla sanzione demolitoria, in quanto il pregiudizio arrecato al regolare assetto del territorio deriva non da ciascun intervento a sé stante bensì dall’insieme delle opere nel loro contestuale impatto edilizio e nelle reciproche interazioni. L’opera edilizia abusiva va identificata con riferimento all’immobile o al complesso immobiliare, essendo irrilevante il frazionamento dei singoli interventi avulsi dalla loro incidenza sul contesto immobiliare unitariamente considerato (Cons. St. Sent. n. 5267 del 2021).
Art. 36 TUE e variante in corso d’opera
È consentita la presentazione di un’istanza contenente contestualmente la richiesta di permesso di costruire in sanatoria congiuntamente a una variante in corso d’opera. Infatti, l’ordinamento contempla pacificamente la categoria degli atti a contenuto plurimo, caratterizzati da un’unitarietà solo formale, ma non anche sostanziale, in quanto scindibili in molteplici atti di diverso contenuto, indipendenti l’uno dall’altro. E’ necessario però che ciascun atto esplichi la sua finalità propria, senza attingerla ai contenuti dell’altro, tenendo conto, da una parte, che la variante presuppone un progetto assentito e dall’altra che la sanabilità dell’intervento richiede che non sia stata commessa alcuna violazione di tipo sostanziale, in presenza della quale, invece, non potrà non scattare la potestà sanzionatorio – repressiva degli abusi edilizi prevista dagli artt. 27 e ss. del d.P.R. n. 380 del 2001 (Cons. di Stato n. 5288 del 2020).
Sanatoria giurisprudenziale
Oltre alla conformità in sanatoria “tipica” sulla scorta della doppia corrispondenza alle regole urbanistiche, è stata oggetto di discussione l’ammissibilità della c.d. sanatoria giurisprudenziale o impropria.
Andando oltre all’interpretazione letterale delle norme, l’istituto considera sanabili gli interventi abusivi che rispondono solamente ai precetti urbanistici vigenti al momento di presentazione della domanda di permesso in sanatoria, senza necessità di doppia conformità. Risponde ad una esigenza di economicità e buon andamento dell’azione amministrativa, in quanto sarebbe illogico demolire manufatti non più in contrasto con la disciplina edilizia, per poi doverne assentire la ricostruzione nella stessa forma e consistenza.
Con più decisioni, il Consiglio di Stato e i Tribunali Amministrativi Regionali si sono pronunciati in modo sfavorevole sulla efficacia della sanatoria giurisprudenziale (T. A. R. Umbria Sent. 590-2014; Cons. di St. Sent. 1087 del 2018; Cons. di St. Sent. 2784/2015).
In particolare, con Sent. n. 3194 del 2016, il Consiglio di Stato ha affermato che la sanatoria giurisprudenziale è un “atto atipico con effetti provvedimentali che si colloca al di fuori di qualsiasi previsione normativa e che pertanto non può ritenersi ammesso nel nostro ordinamento, contrassegnato dal principio di legalità dell’azione amministrativa e dal carattere tipico dei poteri esercitati dall’Amministrazione, alla stregua del principio di nominatività, poteri che non possono essere surrogati dal giudice, pena la violazione del principio di separazione dei poteri e l’invasione di sfere di attribuzioni riservate all’Amministrazione“.
E’ stato altresì puntualizzato che la verifica della “doppia conformità” deve considerarsi principio fondamentale nella materia del governo del territorio, in quanto adempimento “finalizzato a garantire l’assoluto rispetto della disciplina urbanistica ed edilizia durante tutto l’arco temporale compreso tra la realizzazione dell’opera e la presentazione dell’istanza volta ad ottenere l’accertamento di conformità” (Cons. Stato n. 43 del 2021).
Anche in sede penale è stato confermato che si deve escludere la possibilità che l’estinzione del reato di cui all’art. 44 d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 possa essere attribuita alla cd. “sanatoria giurisprudenziale” o “impropria”, che consiste nel riconoscimento della legittimità di opere originariamente abusive che, solo dopo la loro realizzazione, siano divenute conformi alle norme edilizie ovvero agli strumenti di pianificazione urbanistica (Cass. n. 45845 del 2019).
Il permesso in sanatoria è quindi ottenibile soltanto ex art. 36, d.p.r. 6 giugno 2001, n. 380, a condizione che l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento sia della realizzazione del manufatto, sia della presentazione della domanda (C. Stato Sent. n. 2496 del 2018).
Il Cons. di Stato, con Sent. n. 5274 del 2018, ha respinto perché inconsistenti i possibili profili di illegittimità costituzionale dell’art. 36 cit., nella parte in cui non è prevista la possibilità di rilasciare il permesso in sanatoria anche in relazione a opere che sono conformi (soltanto) alla normativa vigente al momento della presentazione della domanda, e ha puntualizzato che alla sanabilità degli abusi sostanziali va dedicato “non già l’istituto dell’accertamento di conformità ma quello, diverso, del condono edilizio“.
Ha anche chiarito che la “regola giurisprudenziale ha l’effetto di accogliere una concezione antinomica tra principio di efficienza e principio di legalità, dando prevalenza al primo rispetto al secondo. Tuttavia, secondo il Collegio, l’agire della pubblica amministrazione deve essere in ogni sua fase retto dal principio di legalità, inteso quale regola fondamentale cui è informata l’attività amministrativa e che trova un fondamento positivo in varie disposizioni costituzionali (artt. 23, 97, 24, 101 e 113 Cost.). Pertanto, non è ipotizzabile un’antinomia tra efficienza e legalità atteso che non può esservi rispetto del buon andamento della pubblica amministrazione, ex art. 97 Cost., se non vi è nel contempo rispetto del principio di legalità” (Cons. di St. Sent. n. 5274 del 2018).
Art. 36 TUE – D. Lgs. 42/2004
L’autorizzazione paesaggistica costituisce atto autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti l’intervento urbanistico-edilizio.
I due atti di assenso, quello paesaggistico e quello edilizio, operano su piani distinti, essendo posti a tutela di interessi pubblici diversi, seppur parzialmente coincidenti; Il fatto che siano stati rilasciati i titoli edilizi, pur in assenza dell’autorizzazione paesaggistica, non può in alcun modo legittimare anche sotto il profilo paesaggistico il fabbricato (Cons. di St. Sent. n. 3446 del 2022). Il titolo edilizio sta e cade con l’autorizzazione paesaggistica e, a seguito dell’annullamento della autorizzazione, che ha effetto caducante e non meramente viziante, anche l’eventuale titolo rilasciato prima che l’autorizzazione diventasse incontestabile deve ritenersi venuto meno (Cons. di St. Ord. n. 422 del 2018).
Dunque, anche in presenza di un permesso di costruire, l’inizio dei lavori in zona paesaggisticamente vincolata richiede il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, trattandosi di titoli che hanno contenuti differenti, seppure ambedue relazionati al territorio, sicché il permesso di costruire, in assenza del nulla osta paesaggistico, è inefficace (Cons. Stato n. 6912 del 2021).
Ai sensi dell’art. 167, comma 4, lett. a), del D.Lgs. n. 42/2004 l’accertamento postumo della compatibilità paesaggistica, è consentito esclusivamente in relazione a quei lavori che non abbiano determinato “creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati”. In presenza di incrementi di superficie o cubatura, anche di modesta entità, la norma impedisce tassativamente il rilascio della sanatoria paesaggistica ed essa deve essere intesa nel senso che la relativa valutazione va compiuta con riguardo a ciascun singolo manufatto oggetto d’intervento, il che preclude anche la possibilità di “compensare” tra loro volumi relativi a fabbricati differenti, tranne il caso in cui questi ultimi siano immediatamente adiacenti, così da formare, in sostanza, un unico corpo di fabbrica (Cons. di St. n. 6300 del 2020).
Il divieto di incremento dei volumi esistenti, imposto ai fini di tutela del paesaggio, si riferisce a qualsiasi nuova edificazione comportante creazione di volume. Pertanto, la natura o meno di vano tecnico dei manufatti realizzati è irrilevante. Infatti la regola che in materia urbanistica porta ad escludere i “volumi tecnici” dal calcolo della volumetria edificabile – che trova fondamento nel bilanciamento rinvenuto tra i vari e confliggenti interessi connessi all’uso del territorio – non può essere invocata al fine di ampliare le eccezioni al divieto di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica in sanatoria, il quale tutela l’interesse alla percezione visiva dei volumi, del tutto a prescindere dalla loro destinazione d’uso (Cons. Stato Sent. n. 650 del 2020).
La doppia conformità richiesta dall’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001 impone che anche un intervento edilizio originariamente lecito dal punto di vista della normativa del codice dei beni culturali e del paesaggio – dovendo essere concorde anche alla disciplina urbanistica ed edilizia, nonché paesaggistica vigenti al momento della presentazione della domanda di sanatoria – debba essere sottoposto all’esame di compatibilità ai sensi del d. lgs. n. 42 del 2004. La verifica di conformità dovrà avvenire secondo le modalità e con la disciplina dell’art. 146 del d. lgs. n. 42 del 2004.
Qualora l’opera a suo tempo realizzata non richiedesse la previa autorizzazione, per mancanza del vincolo, e non sia perciò ab origine paesaggisticamente abusiva, la valutazione di compatibilità si configura come un’autorizzazione paesaggistica postuma, sul modello dell’art. 146 del codice di settore, non rientrante nel divieto di autorizzazione ex post in sanatoria (riferito alle sole opere realizzate senza autorizzazione in presenza del vincolo).
Al riguardo è del tutto pacifico, in dottrina e giurisprudenza, l’ammissibilità delle autorizzazioni postume, così dette “ora per allora”, in tutti i settori dell’ordinamento amministrativo, anche in mancanza di espressa previsione di legge, principio rispetto al quale il divieto dell’art. 146, comma 4, si pone come regola eccezionale, e pertanto di stretta interpretazione (v. art. 167 d. lgs. 42/2004) (Pareri MIBACT – Ufficio Legislativo del 05/05/16 e del 20.04.17).
Il Consiglio di Stato, con Sent. 14.10.2015, n. 4759, ha annullato un parere della Soprintendenza che aveva negato la sanatoria paesaggistica facendo leva sulla circostanza che il procedimento autorizzatorio per la realizzazione dell’intervento non necessitava, all’epoca di presentazione dell’istanza, del parere della competente Soprintendenza.
Anche ai fini del rilascio del “condono” edilizio per immobili che ricadono in aree vincolate, è richiesto il parere favorevole delle amministrazioni preposte alla tutela del vincolo (art. 32 legge n. 47 del 1985).
Secondo giurisprudenza del C. di S., L’autorizzazione è necessaria anche se l’imposizione del vincolo è successiva alla realizzazione delle opere. (Cons. Stato Sent., 13/05/2016, n. 1941). (Cons. Stato, Ad. Pl., Sent. 22 Luglio 1999, n. 20).
Si possono richiamare i seguenti principi resi fermi dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato: ” – ai sensi dell’art. 32, comma 27, lett. d), d.l. 269/2003, le opere abusivamente realizzate in aree sottoposte a specifici vincoli, tra cui quello ambientale e paesistico, sono sanabili se ricorrano congiuntamente le seguenti condizioni: a) le opere siano state realizzate prima dell’imposizione del vincolo; b) seppure realizzate in assenza o in difformità del titolo edilizio, siano conformi alle prescrizioni urbanistiche; c) siano opere minori senza aumento di superficie (restauro, risanamento conservativo, manutenzione straordinaria); d) vi sia il previo parere dell’Autorità preposta alla tutela del vincolo stesso (cfr., per tutti, Cons. Stato, Sez. VI, 17 gennaio 2020 n. 425, 11 dicembre 2018 n. 6991, 16 agosto 2017 n. 4007 e 18 maggio 2015 n. 2518); – parimenti fermo è il principio per cui non possono essere comunque sanate le opere che hanno comportato la realizzazione di nuove superfici e nuova volumetria in zona assoggettata a vincolo paesaggistico, sia esso di natura relativa o assoluta, o comunque d’inedificabilità, anche relativa” (Cons. Stato n. 4933 del 2020).
Art. 36 TUE – Piano casa
L’art. 36 DPR n. 380/01 è stato esaminato anche in relazione al c. d. Piano-Casa, legislazione adottata da tutte le Regioni pur se con regole diverse per ogni territorio.
La finalità era di stabilire se può essere ravvisabile la c.d. doppia conformità nel caso di opere abusive realizzate dopo l’entrata in vigore del piano casa e che potevano essere eseguite in forza dello stesso.
La Corte Costituzionale con Sentenza n. 107/2017 si è pronunciata sulla possibilità di sanare gli abusi compiuti dopo l’entrata in vigore del Piano Casa e conformi allo stesso.
La Sentenza riguarda una norma del Piano casa della Campania, l’art. 12, comma 4 bis della legge regionale n. 19 del 2009, ma contiene elementi che possono suscitare anche interesse generale.
Secondo l’art. 12, comma 4 bis cit. “Le disposizioni di cui all’art. 36 del d.P.R. n. 380/2001 si applicano anche agli interventi previsti dalla presente legge e realizzati dopo la sua entrata in vigore, privi di titolo abilitativo o in difformità da esso, ma che risultano conformi alla stessa legge sia al momento della realizzazione degli stessi interventi, sia al momento della presentazione della domanda”.
La Corte Costituzionale ha dichiarato parzialmente illegittima la norma poiché
“la formulazione letterale può prestarsi a dubbi interpretativi in ordine al rispetto del requisito della «doppia conformità» imposto dalla disciplina statale di riferimento”.
Ha poi precisato che la disposizione è “potenzialmente in grado di indurre l’interprete a ritenere che siano sanabili opere conformi alla disciplina regionale nella sua attuale formulazione, frutto di successivi interventi di modifica, e non a quella vigente all’epoca della loro esecuzione”.
Dunque, la parziale illegittimità dell’art. 12, comma 4 bis non deriva dal fatto che ha permesso la sanatoria ma perché la consente senza precisare che deve farsi rifermento «alla disciplina edilizia ed urbanistica vigente» alla data di realizzazione dell’intervento. (In materia v. anche Sentenza TAR Puglia (LE) Sez. III n. 1949 del 29 novembre 2012).
Art. 37 TUE – Interventi in assenza o difformità dalla segnalazione certificata di inizio attività e accertamento di conformità
La disposizione regola un procedimento per la denuncia di inizio attività (Scia) analogo a quello contenuto nell’art. 36.
Ai sensi del comma 1 dell’art. 37, la realizzazione di interventi edilizi di cui all’articolo 22, commi 1 e 2, in assenza o in difformità dalla denuncia di inizio attività comporta la sanzione pecuniaria pari al doppio dell’aumento del valore venale dell’immobile conseguente alla realizzazione degli interventi stessi e comunque in misura non inferiore a 516 euro.
Secondo il comma 4, ove l’intervento realizzato risulti in conformità alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dell’intervento, sia al momento della presentazione della domanda, è possibile ottenere la sanatoria dell’intervento.
La Scia in sanatoria viene presentata allo sportello unico dell’edilizia, che dovrà dare una risposta entro i prescritti termini di legge. Successivamente, la Scia si considera accettata per effetto del c.d. silenzio-assenso.
La Scia (Segnalazione certificata di inizio attività) non è un provvedimento amministrativo a formazione tacita e non dà luogo in ogni caso ad un titolo costitutivo, ma costituisce un atto privato volto a comunicare l’intenzione di intraprendere un’attività direttamente ammessa dalla legge (Cons. di St. Sent. 5115 del 2018; Cons. di St. Ad. Pl., 29 luglio 2011, n. 15).
Rimane tale (atto privato) anche dopo il decorso del periodo per il suo consolidamento, alcun atto di annullamento è configurabile nei suoi riguardi e l’atto che inibisce o conforma l’attività oggetto di segnalazione va correttamente qualificato quale declaratoria di inefficacia della Scia (T.A.R. Campania, Sez. III,. n. 3321/2018).
Trascorso il termine, l’amministrazione potrà, comunque, esercitare i poteri di autotutela se sussiste pericolo di danno per il patrimonio artistico, culturale, per l’ambiente, la sicurezza pubblica o la difesa nazionale (T.A.R. Piemonte, Sez. II, 1114/2015).
Infatti, l’attività amministrativa che viene espletata a seguito della presentazione della Scia, non deve essere confusa con il potere di vigilanza che, nella materia dell’attività urbanistico-edilizia, è volto «ad assicurarne la rispondenza alle norme di legge e di regolamento, alle prescrizioni degli strumenti urbanistici ed alle modalità esecutive fissate nei titoli abilitativi», e che è affidato dalla legge al dirigente o al responsabile del competente ufficio comunale (art. 27, comma 1, del d.P.R. n. 380/2001) (Cons. Stato, Sez. IV, Sent. n. 1988 del 2018).
Se la P.A. non esperisce gli accertamenti necessari, il terzo titolare di un interesse qualificato leso da un intervento realizzato o iniziato a seguito di Scia può ricorrere al Giudice per imporre l’adozione di provvedimenti inibitori (Cons. di Stato, Ad. Pl., 29 luglio 2011, n. 15 cit).
Per la sanatoria, è necessario il versamento di una somma, non superiore a 5.164 euro e non inferiore a 516 euro, stabilita dal responsabile del procedimento in relazione all’aumento di valore dell’immobile valutato dall’Agenzia del Territorio.
La S.C. ha chiarito che l’esecuzione in assenza o in difformità degli interventi subordinati a SCIA comporta l’applicazione della sanzione penale prevista dall’art. 44, lett. a) d.P.R. 380/01 se gli stessi non sono conformi alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia in vigore, mentre soltanto in caso di interventi eseguiti in assenza o difformità dalla SCIA, ma conformi alla citata disciplina, è applicabile la sanzione amministrativa prevista dall’art. 37 d.P.R.
380\01 (Cass. Sent. n. 50144 del 2018).
In presenza di vincoli o di pareri necessari da parte di Enti terzi, occorre rispettare le specifiche prescrizioni per poter accedere alle procedura in esame.
L’accertamento non è finalizzato a conseguire un titolo abilitativo, ma a sanare l’intervento.