Abuso edilizio, accertamento, sanzioni e prescrizione

Aggiornato Luglio 2021

L’abuso edilizio comporta responsabilità per le varie figure coinvolte nella sua realizzazione, dal punto di vista amministrativo e anche penale, nonché un preciso obbligo di attivarsi da parte dei soggetti deputati alla vigilanza sull’attività urbanistica

abuso edilizio

Sommario:
  • Definizione abuso;
  • Soggetti responsabili;
  • Direttore dei lavori;
  • Progettista;
  • Proprietario non committente;
  • Vigilanza sull’attività urbanistica;
  • Sanzioni amministrative;
  • Domanda di sanatoria;
  • Sanatoria Giurisprudenziale;
  • Abuso paesaggistico;
  • Sanzioni penali;
  • Abuso d’ufficio;
  • Reato permanente;
  • Particolare tenuità;
  • Particolare tenuità prescrizione ed estinzione reato;
  • Messa alla prova;
  • Prescrizione del reato.
Definizione abuso

L’abuso edilizio consiste nella realizzazione di un intervento urbanistico senza il dovuto titolo abilitativo, ove necessario (Cass. n. 37713 del 2012).
La disciplina sanzionatoria degli abusi nelle costruzioni contempla tre fattispecie ordinate secondo la gravità dell’abuso: l’ipotesi di interventi in assenza di permesso o di totale difformità; l’ipotesi intermedia di variazioni essenziali dal titolo edilizio; l’ipotesi residuale della parziale difformità da esso (Cons. St. Sent. n. 1484 del 2017).  Ai fini della individuazione del regime abilitativo applicabile, la valutazione dell’opera deve riguardare il risultato dell’attività edificatoria nella sua unitarietà, senza che sia consentito considerare separatamente i singoli componenti (Cass. n. 29963 del 2019).
Ha carattere permanente, nel senso che un immobile interessato da un intervento illegittimo conserva nel tempo la sua natura abusiva e la situazione di illiceità posta in essere con la realizzazione di un’opera abusiva viene meno solo con il conseguimento delle prescritte autorizzazioni in sanatoria, paesaggistiche o urbanistico-edilizie, oppure con il ripristino dello stato dei luoghi (Cons. di St. n. 204 del 2022).

Soggetti responsabili

La responsabilità per le violazioni della normativa urbanistica, nel caso di difformità tra stato di fatto  e di progetto di un immobile, coinvolge il committente, il costruttore nonché il direttore dei lavori, che è responsabile per violazioni del titolo edilizio e delle sue modalità esecutive.
Secondo l’art. 29 comma 1 del Dpr 380/2001: “Il titolare del permesso di costruire, il committente e il costruttore sono responsabili, ai fini e per gli effetti delle norme contenute nel presente capo, della conformità delle opere alla normativa urbanistica, alle previsioni di piano nonché, unitamente al direttore dei lavori, a quelle del permesso e alle modalità esecutive stabilite dal medesimo. Essi sono, altresì, tenuti al pagamento delle sanzioni pecuniarie e solidalmente alle spese per l’esecuzione in danno, in caso di demolizione delle opere abusivamente realizzate, salvo che dimostrino di non essere responsabili dell’abuso”.
Tuttavia, la natura di reati “propri” degli illeciti previsti dalla normativa edilizia non esclude che soggetti diversi da quelli individuati dall’art. 29, comma 1, del decreto medesimo, possano concorrere nella loro consumazione, in quanto apportino, nella realizzazione dell’evento, un contributo causale rilevante e consapevole (Nella specie si trattava degli operai, materiali esecutori dell’abuso – Cass. n. 14558 del 2018), anche si limitano a svolgere lavori di completamento dell’immobile, quali la pavimentazione, l’intonacatura, gli infissi, sempre che sia ravvisabile un profilo di colpa collegato alla mancata conoscenza del carattere abusivo dei lavori (Cass. n. 6872 del 2017).

direttore dei lavori

La norma disciplina in maniera specifica le regole di condotta del Direttore dei Lavori.
L’art. 29 comma 2 del Dpr 380/2001 stabilisce che il direttore dei lavori non è responsabile se ha contestato agli altri soggetti la violazione delle prescrizioni del permesso di costruire, con esclusione delle varianti in corso d’opera, fornendo al dirigente o responsabile del competente ufficio comunale contemporanea e motivata comunicazione della violazione.
Nei casi di totale difformità o di variazione essenziale rispetto al permesso di costruire, il direttore dei lavori deve contestualmente rinunziare all’incarico (sulla nozione di variazione essenziale: Cons. St. n. 1484/2017 ; Cass. n. 40541 del 2014).
La giurisprudenza di legittimità è ferma nel ritenere che il Direttore dei Lavori non risponde degli illeciti edilizi solo se presenta denuncia di detti illeciti ai competenti uffici dell’Amministrazione comunale e se rinuncia all’incarico osservando per entrambi gli adempimenti l’obbligo della forma scritta ( Cass. n. 46477 del 2017)Cass. Ordin. n. 51343 del 2014) e che le sole dimissioni non sono sufficienti ad escluderne la responsabilità.
Egli è da ritenersi penalmente responsabile  a prescindere dalla sua concreta presenza in cantiere (Cass. n. 3321 del 2022) , in quanto sussiste a carico del medesimo un onere di vigilanza costante sulla corretta esecuzione dei lavori, collegato al dovere di contestazione delle irregolarità riscontrate poiché il D.L., oltre ad essere il referente del committente per gli aspetti di carattere tecnico, assume anche la funzione di garante nei confronti del Comune dell’osservanza e del rispetto dei contenuti dei titoli abilitativi all’esecuzione dei lavori (Cass. n. 7406 del 2015).  Infatti, all’evidente fine di realizzare una tutela più forte dei beni oggetto di protezione penale, il legislatore ha configurato in capo al direttore dei lavori una posizione di garanzia per il rispetto della normativa urbanistica ed edilizia e lo ha fatto non soltanto addebitandogli le conseguenze penali dell’omesso controllo sulla corretta esecuzione delle opere rispetto al permesso di costruire , ma imponendogli altresì di “dissociarsi” dalla condotta illecita da altri commessa, anche se trattasi del suo stesso committente (Cass. n. 38479 del 2019).
Il giudice, nel disporre la condanna del direttore dei lavori (così come dell’esecutore) per il reato di cui all’art. 44 del d.p.r. n. 380/2001, non può subordinare il beneficio della sospensione condizionale della pena alla effettiva eliminazione delle opere abusive, in quanto solo il proprietario, ai sensi dell’art. 31 del citato d.p.r., può ritenersi soggetto passivamente legittimato rispetto all’ordine di demolizione, non estendendosi quindi il relativo obbligo anche al direttore dei lavori (Cass. n. 6243 del 2019).

progettista

Il comma 3 dell’art. 29 cit. dispone che il progettista assume la qualità di persona esercente un servizio di pubblica necessità ai sensi degli articoli 359 e 481 del codice penale per le opere realizzate dietro presentazione di segnalazione certificata di inizio attività. Perciò, può rispondere del reato di falsità ideologica in certificati, il progettista che, nella relazione iniziale di accompagnamento di cui all’art. 23, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001, renda false attestazioni, sempre che le stesse riguardino lo stato dei luoghi e la conformità delle opere realizzande agli strumenti urbanistici e non anche la mera intenzione del committente o la futura eventuale difformità di quest’ultima rispetto a quanto poi in concreto realizzato (Cass. n. 3067 del 2017). Invece, il progettista che si limiti a redigere il progetto dell’opera non è responsabile dell’intervento illecito successivamente posto in essere, sempre che il suo ruolo si esaurisca in tale attività e non diriga successivamente anche i lavori (Cass. n.39317 del 2019).
E’ configurabile la responsabilità del progettista nel caso di realizzazione di interventi edilizi necessitanti il permesso di costruire, ma eseguiti in base ad una denuncia di inizio attività accompagnata da dettagliata relazione a firma del predetto professionista, in quanto l’attestazione del progettista che le opere da realizzare sono conformi agli strumenti urbanistici approvati e non in contrasto con quelli adottati ed ai regolamenti edilizi vigenti comporta l’esistenza in capo al medesimo di un obbligo di vigilanza sulla conforme esecuzione dei lavori (Cass. n. 3321 del 2022).

PROPRIETARIO NON COMMITTENTE

Secondo l’orientamento espresso dalla S.C., Sent. n. 33387 del 2018, la disposizione di cui l’art. 29 Dpr 380 del 2001 non ha il fine di individuare i soggetti attivi di un presunto reato proprio, bensì quello di estendere la responsabilità penale delle figure ivi indicate nel caso di omesso, costante, controllo, anche sulla condotta altrui, circa la conformità delle opere in corso d’esecuzione ai parametri di legalità contenuti nel titolo, negli strumenti urbanistici e nelle disposizioni di legge e, tale forma di responsabilità, non può riguardare il proprietario dell’immobile sul quale si eseguono i lavori abusivi che – non rivestendo alcuna delle altre qualità indicate nella disposizione – resti del tutto inerte rispetto all’altrui condotta illecita.
Il diritto reale sull’immobile costituisce un indizio grave, ma pur sempre un indizio che, a norma dell’art. 192, comma 2, cod. proc. pen., deve essere valutato insieme con altri (Cass. n. 24138 del 2021).
Tuttavia, la conclusione non esclude la possibile responsabilità penale del proprietario che – pur non essendo committente, costruttore o titolare del permesso di costruire, né direttore dei lavori – ponga in essere qualche contributo, materiale o anche soltanto morale, all’attività di illecita trasformazione del territorio posta in essere direttamente da terzi; un consolidato orientamento della S.C. ammette la possibilità di utilizzare elementi di prova indiziaria desunti dal caso concreto per dimostrare la sussistenza della responsabilità concorsuale (Cass.  n. 19225 del 2019Cass. n. 52040 del 11/11/2014).
Dunque, i reati previsti dall’art. 44 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 devono essere qualificati come reati comuni e non come reati a soggettività ristretta, salvo che per i fatti commessi dal direttore dei lavori e per la fattispecie di inottemperanza all’ordine di sospensione dei lavori impartito dall’Autorità amministrativa; ne consegue che anche il proprietario “estraneo” (ovvero privo delle qualifiche soggettive specificate all’art. 29 del richiamato decreto: committente, titolare del permesso di costruire, direttore dei lavori) può essere ritenuto responsabile del reato edilizio, purché risulti un suo contributo soggettivo all’altrui abusiva edificazione da valutarsi secondo le regole generali sul concorso di persone nel reato, non essendo sufficiente la semplice connivenza, attesa l’inapplicabilità dell’art. 40, comma secondo, cod. pen., in quanto non esiste una fonte formale da cui far derivare un obbligo giuridico di controllo sui beni finalizzato ad impedire il reato. Perciò “la responsabilità del proprietario che non abbia la disponibilità dell’immobile interessato dalle opere abusive, non può essere desunta dal mero rapporto di parentela e dal vincolo di convivenza con il committente delle stesse ma necessita di ulteriori elementi sintomatici della sua partecipazione, anche morale, alla realizzazione del manufatto, come la presentazione della domanda di condono edilizio, la presenza sul posto, lo svolgimento di un’attività di vigilanza dei lavori o l’interesse alla realizzazione dell’opera” (Cass. Sent. n. 27199 del 2022).
Una condotta indicativa della partecipazione, quantomeno morale, alla realizzazione delle opere può, ad esempio, consistere nella presentazione della domanda di condono, che implica, ontologicamente, la volontà di avvalersi delle opere abusive, di utilizzarle e farle proprie, richiedendo i titoli abilitativi necessari per poterle mantenere e lecitamente utilizzare (Cass. n. 1044 del 2020).
La prova della responsabilità del proprietario non committente richiede la sussistenza di più indizi e presunzioni che siano gravi, precisi e concordanti; tali indizi sono stati individuati, ad esempio, nella piena disponibilità, giuridica e di fatto, della superficie edificata e dell’interesse specifico ad effettuare la nuova costruzione (principio del “cui prodest”); nei rapporti di parentela o di affinità tra l’esecutore dell’abuso ed il proprietario, nell’eventuale presenza “in loco” del proprietario dell’area durante l’effettuazione dei lavori; nello svolgimento di attività di materiale vigilanza sull’esecuzione dei lavori; nella richiesta di provvedimenti abilitativi; nel particolare regime patrimoniale fra coniugi o comproprietari; nella fruizione dell’opera secondo le norme civilistiche dell’accessione ed in tutte quelle situazioni e quei comportamenti, positivi o negativi, da cui possano trarsi elementi integrativi della colpa e prove circa la compartecipazione, anche morale, all’esecuzione delle opere, tenendo presente pure la destinazione finale della stessa; grava sull’interessato l’onere di allegare circostanze utili a convalidare la tesi che, invece, si tratti di opere realizzate da terzi a sua insaputa e senza la sua volontà (Cass. n. 5820 del 2019).

vigilanza sull’attività urbanistica

La legislazione urbanistica obbliga il Comune ad intervenire al fine di prevenire e di reprimere gli episodi di abusivismo, mediante l’esercizio di un potere-dovere del tutto privo di margini di discrezionalità (T.A.R. Campania, Sez. III, Sent. n. 664 del 2018).
L’art. 27 del Dpr 380/2001 indica il soggetto che esercita la vigilanza sull’attività urbanistico edilizia nel dirigente o nel responsabile del competente ufficio comunale.
Questi ha il compito di svolgere il controllo sull’attività urbanistico-edilizia nel territorio comunale per assicurarne la rispondenza alle norme di legge e di regolamento, alle prescrizioni degli strumenti urbanistici ed alle modalità esecutive fissate nei titoli abilitativi. Sussiste anche la generale competenza del Corpo di Polizia Municipale all’acquisizione dei fatti e di tutti gli altri elementi, la cui conoscenza risulta prodromica e strumentale alla repressione dell’abuso edilizio (Cons. Stato Sent. n. 2781 del 2011).
Al comma 2 dell’art. 27, si prevede che “ il dirigente o il responsabile, quando accerti l’inizio o l’esecuzione di opere eseguite senza titolo su aree assoggettate, da leggi statali, regionali o da altre norme urbanistiche vigenti o adottate, a vincolo di inedificabilità, o destinate ad opere e spazi pubblici ovvero ad interventi di edilizia residenziale pubblica di cui alla legge 18 aprile 1962, n. 167, e successive modificazioni ed integrazioni, nonché in tutti i casi di difformità dalle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici, provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi.”
Il verbale di sopralluogo con cui tecnici comunali o agenti di polizia municipale accertano materialmente degli abusi edilizi fanno fede fino a querela di falso dei fatti accertati (Cons. Stato, sez. V, 3.11.2010, n. 7770, Cons. Stato, sez. I, 08.01 2010, n. 250).
Il comma 3 stabilisce che qualora sia constatata, dai competenti uffici comunali d’ufficio o su denuncia dei cittadini, l’inosservanza delle norme, prescrizioni e modalità di cui al comma 1, il dirigente o il responsabile dell’ufficio, ordina l’immediata sospensione dei lavori, che ha effetto fino all’adozione dei provvedimenti definitivi di cui ai successivi articoli, da adottare e notificare entro quarantacinque giorni dall’ordine di sospensione dei lavori.
Per costante giurisprudenza il termine di 45 giorni, fissato dall’art. 27, comma 3, deve intendersi quale periodo di efficacia dell’ordine di sospensione e non quale termine perentorio entro cui l’Amministrazione è tenuta a emettere l’ordine di demolizione (T.A.R. per il Lazio Sent. n. 8970 del 2018).
Viene, dunque, compiuta un’attività istruttoria ed acquisito eventualmente il parere della Commissione edilizia .
Successivamente sarà emesso il provvedimento conclusivo che potrà consistere nell’ordine di demolizione o nell’irrogazione di una sanzione pecuniaria.
L’ordine di demolizione di opere abusive costituisce attività vincolata del comune non essendovi spazio per una graduazione discrezionale delle sanzioni (C. Stato, sez. V , 8 maggio 2002, n. 2453).
L’illecito sussiste anche quando il potere repressivo si fonda su una legge entrata in vigore successivamente al momento in cui l’abuso viene posto in essere (C.. Stato, Sez. IV,  24-11-2016, n. 4943). Perciò, il regime sanzionatorio applicabile è quello vigente al momento della irrogazione sanzione, non già quello in vigore all’epoca di consumazione dell’abuso.
La mancata adozione da parte del responsabile comunale dei provvedimenti di sua competenza per reprimere l’abuso edilizio o l’aver omesso consapevolmente di svolgere attività di vigilanza sul territorio possono costituire fattispecie rilevanti come abuso d’ufficio.
Nel caso di omessa applicazione delle sanzioni amministrative, potrebbe ravvisarsi altresì una responsabilità per danno erariale.
Tenuto conto che il procedimento penale e l’iter amministrativo corrono su due corsie parallele, l’ autorità amministrativa è titolare, indipendentemente dall’esito del giudizio penale, di pieni ed autonomi poteri di valutazione della fattispecie di abuso edilizio e può adottare, nell’ambito della propria sfera di apprezzamento, i provvedimenti sanzionatori ritenuti necessari, riguardando l’eventuale assoluzione dall’imputazione di costruzione abusiva i soli effetti penali.

Le sanzioni amministrative

Le sanzioni amministrative previste dal Dpr 380/2001 sono determinate in base alla tipologia dell’abuso e si possono così riassumere:
a) demolizione della costruzione irregolare e messa in ripristino dello stato dei luoghi;
b) acquisizione al patrimonio comunale in caso di mancata demolizione, in alternativa alla demolizione, pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria adeguata all’entità dell’abuso o all’incremento del valore venale del bene;
c) per la mancata segnalazione certificata di inizio attività o difformità alla segnalazione, la sanzione pecuniaria è pari al doppio dell’aumento del valore venale dell’immobile derivato alla realizzazione degli interventi e comunque in misura non inferiore a euro 516 (art. 37, co. 1 Dpr 380/2001).
Quanto alla demolizione, va rilevato che trattasi di una sanzione amministrativa che assolve ad un’autonoma funzione ripristinatoria del bene giuridico leso, configura un obbligo di fare, imposto per ragioni di tutela del territorio ed ha carattere reale (Cass. n. 49331 del 2015).
Per giurisprudenza costante, l’esercizio dei poteri amministrativi di carattere ripristinatorio in materia di abuso edilizio non incontra alcun termine di decadenza o di prescrizione (Cass. n. 36387 del 2015).
Ne discende che, una volta che venga accertata l’esistenza dell’opera abusiva, è sempre legittima l’adozione del provvedimento di demolizione (Cass. n. 35052/2016).
Diverso è il caso delle sanzioni pecuniarie connotate da una finalità punitiva. In queste ipotesi, la regola della prescrizione quinquennale propria delle sanzioni amministrative, ex lege n. 689/81, trova applicazione anche per gli illeciti amministrativi puniti con la pena pecuniaria di cui alla normativa in materia urbanistico- edilizia (C. Stato Sez. IV, 19-08-2016, n. 3649).
L’ordine di demolizione dell’opera abusiva, disciplinato dagli articoli 27 e ss. del Dpr 380/2001, si qualifica senza eccezioni in termini di sanzione amministrativa. Pertanto, anche se disposto con sentenza del giudice penale (come prevede l’art. 31, comma 9, d.p.r. 380 del 2001), non può applicarsi analogicamente all’istituto l’art. 173 c.p., che disciplina la prescrizione dell’arresto e dell’ammenda (Cass. n. 55372 del 2018 Cass. n. 41475 del 2016).
In definitiva, non è soggetto alla prescrizione stabilita dall’art. 173 cod. pen. per le sanzioni penali, né alla prescrizione stabilita dall’art. 28 legge n. 689 del 1981 che riguarda unicamente le sanzioni pecuniarie con finalità punitiva (Cass. n. 18910 del 2018Cass. n. 44911 del 2016).
Una volta accertato l’abuso, il provvedimento non ha effetto solo a carico del responsabile, ma anche nei riguardi di coloro che hanno un diritto reale o personale di godimento sull’area di sedime (Cass. n. 2291 del 2020). Ciò prescindendo dal fatto che l’abuso sia ad essi addebitabile come committenti od esecutori materiali, in quanto la natura pubblicistica dell’ordine di rimessione in pristino rende inapplicabile il principio civilistico della res inter alios acta.  Si tratta di orientamento incontroverso della S.C. conseguente alla natura di sanzione amministrativa a carattere ripristinatorio dell’ordine di demolizione, come tale privo di finalità punitive e con effetti che ricadono sul soggetto che è in rapporto col bene, indipendentemente dal fatto che questi sia l’autore dell’abuso (Cass. n. 7943 del 2017;  Cass. n. 53661 del 2018), prescinde dalla sussistenza dell’elemento psicologico del responsabile ed è applicabile anche in caso di violazioni incolpevoli (Corte di Cass. n. 55372 del 2018 cit.).
Va anche ricordato che, se disposto con sentenza del giudice penale, il giudice dell’esecuzione ha l’obbligo di revocare l’ordine di demolizione del manufatto abusivo impartito con la sentenza di condanna o di patteggiamento, ove sopravvengano atti amministrativi con esso del tutto incompatibili. Ha, invece, la facoltà di disporne la sospensione quando sia concretamente prevedibile e probabile l’emissione, entro breve tempo, di atti amministrativi incompatibili. (Cass. n. 24273 del 24/03/2010).
Quando il potere repressivo sia esercitato a distanza di tempo dalla commissione dell’abuso, la disciplina sanzionatoria applicabile è quella vigente al momento dell’esercizio del potere sanzionatorio. Ciò in quanto l’abuso edilizio, rivestendo i caratteri dell’illecito permanente, si pone in perdurante contrasto con le norme tese al governo del territorio sino al momento in cui non venga ripristinata la situazione preesistente; sussistendo l’illecito anche quando il potere repressivo si fondi su di una legge entrata in vigore successivamente al momento in cui l’abuso è stato compiuto. Da ciò discende che, ai fini della repressione dell’illecito edilizio, è comunque applicabile il regime sanzionatorio vigente al momento in cui l’Amministrazione dispone la sanzione, in quanto, attesa la natura permanente dell’illecito stesso, colui che ha realizzato l’abuso mantiene inalterato nel tempo l’obbligo di eliminare l’opera illecita, onde il potere di repressione può essere esercitato retroattivamente, anche per fatti verificatisi prima dell’entrata in vigore della norma che disciplina tale potere; e la natura della sanzione demolitoria, finalizzata a riportare in pristino la situazione esistente e ad eliminare opere abusive in contrasto con l’ordinato assetto del territorio, impedisce di ascrivere la stessa al genus delle pene afflittive, cui propriamente si attaglia il divieto di retroattività (Cons. di St.  n. 6323 del 2020; Cons. di St. n. 204 del 2022 cit.).

domanda di sanatoria

Nei casi in cui gli interventi edilizi abusivi siano stati realizzati in assenza o in difformità del permesso di costruire, il responsabile dell’abuso, o l’attuale proprietario dell’immobile, possono ottenere il permesso in sanatoria, a condizione che l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione del medesimo, sia alla data di presentazione della domanda (art. 36 Dpr 380/2001).
L’accertamento di conformità, previsto dal citato art.36, è teleologicamente funzionale a sanare le opere che, sebbene eseguite senza concessione o autorizzazione – purché conformi nella sostanza alla disciplina urbanistica applicabile per l’area su cui sorgono (vigente sia al momento della loro realizzazione che al momento della realizzazione che al momento della presentazione della domanda di sanatoria: c.d. doppia conformità – sono solo formalmente abusive.
La domanda di sanatoria segue l’iter dei “progetti” edilizi.
La sanatoria dell’intervento è subordinata al pagamento, a titolo di oblazione, del contributo di costruzione in misura doppia. Ovvero, in caso di gratuità a norma di legge, in misura pari a quella prevista dall’art. 16 Dpr 380/2001.
Con Sent. n. 1386 del 2017 il Consiglio di Stato, Sez. III, ha affermato che “Come ha più volte rilevato questo Consiglio (Sez. V, 2 ottobre 2014, n. 4892, Sez. V, 26 maggio 2015, n. 2605, alla cui giurisprudenza questa Sezione intende dare continuità), la sanatoria di opere edilizie abusive può essere disposta in sede amministrativa solo nei casi previsti espressamente dalla legge, e cioè:
a) nei casi di c.d. “condono” (già disposti in passato con leggi ad tempus, irrilevanti nel presente giudizio, applicabili solamente a manufatti abusivi realizzati entro una data prefissata dal legislatore e solo in presenza di specifiche e fondate domande degli interessati);
b) nei casi in cui vi può essere il c.d. “accertamento di conformità” ai sensi dell’art. 36 del vigente testo unico sull’edilizia.
Ove non sia applicabile questa tipologia di disposizioni e non risulti accoglibile la relativa istanza dell’interessato, le opere realizzate senza titolo vanno demolite, con le conseguenze previste dalla legge”.
Secondo l’art. 45 del Dpr 380/2001, non possono essere irrogate sanzioni penali se non prima dell’esaurimento dell’iter amministrativo di sanatoria di cui all’articolo 36 cit.
L’art. 45, comma 3, stabilisce che il rilascio in sanatoria del permesso di costruire estingue i reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti.
Il conseguimento del permesso di costruire in sanatoria ai sensi dell’art. 36 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, comporta l’estinzione dei reati contravvenzionali stabiliti dalle norme urbanistiche, ma non di quelli previsti dalla normativa antisismica e sulle opere di conglomerato cementizio (Cass. n. 38953 del 2017) né dei reati paesaggistici previsti dal D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 (Cass. n. 29979 del 2019).
La causa di estinzione del reato prevista dall’art. 45 cit., a seguito del rilascio del permesso di costruire in sanatoria, “si estende a tutti i responsabili dell’abuso, e non soltanto ai soggetti che abbiano richiesto ed ottenuto il provvedimento sanante (Sez. 3, n. 26123 del 12/04/2005, … ed altri, Rv. 231940; Sez. 3, n. 9521 del 07/06/2000, …, Rv. 217755)” (Cass.  n. 41182 del 2016).
Va aggiunto che il permesso di costruire in sanatoria può anche essere considerato illegittimo e quindi disapplicato. Infatti, l’esplicazione dell’attività amministrativa si manifesta non semplicemente mediante il nomen iuris adottato, bensì anche attraverso la relativa motivazione che costituisce misura e limite del potere esercitato, il giudice può accertare la sussistenza o meno del requisito della “doppia conformità”: l’eventuale esito negativo consente di escludere qualsivoglia estinzione sopravvenuta del reato edilizio (Cass. n. 37050 del 2019). Al giudice va comunque e sempre riconosciuta la potestà di riscontrare la legittimità dell’atto amministrativo in sanatoria sotto il profilo della sussistenza dei presupposti per la sua emanazione e dei requisiti di forma e di sostanza richiesti dalla legge ( Cass. n. 2284 del 2021).

sanatoria Giurisprudenziale

Oltre alla conformità in sanatoria sulla scorta della doppia corrispondenza alle regole urbanistiche, è oggetto di discussione la c.d. sanatoria giurisprudenziale, che considera sanabili gli interventi in abuso conformi solamente ai precetti urbanistici vigenti al momento di presentazione della domanda di permesso in sanatoria, senza necessità di doppia conformità. Con più decisioni, il Consiglio di Stato e i Tribunali Amministrativi Regionali si sono pronunciati in modo sfavorevole sulla possibilità di applicazione della c. d. sanatoria giurisprudenziale  (. A. R. Umbria Sent. 590-2014; C. d. S. Sent. 2784/2015; C. d. S., Sent. 18 luglio 2016 n. 3194 ; Cons. Stato Sent. n. 43 del 2021).
Anche dalla  giurisprudenza della S.C., la sanatoria giurisprudenziale è stata ritenuta “improduttiva di effetti ” (Cass. n. 45845 del 2019; Cass. n. 50144 del 2018).
Segnatamente è stato affermato che l’espressa previsione, nel D.P.R. n. 380 del 2001, art. 36, del requisito della doppia conformità delle opere da sanare e la deliberata scelta del legislatore di non inserire nel Testo Unico dell’edilizia la sanatoria giurisprudenziale nonostante le indicazioni in tal senso ricevute dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato rendono evidente la volontà di limitare la possibilità di sanatoria ai soli abusi formali (Cass. n. 47402 del 2014).

Abuso paesaggistico

La disposizione di cui all’art. 36 del DPR 380/01, ai sensi della quale il permesso di costruire rilasciato a seguito di accertamento di conformità estingue i reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti, ma non i reati paesaggistici previsti dal D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, che sono soggetti ad una disciplina difforme e differenziata, legittimamente e costituzionalmente distinta, avente oggettività giuridica diversa, rispetto a quella che riguarda l’assetto del territorio sotto il profilo edilizio. (Cass. n. 29979 del 2019).
Diversamente da quanto disposto con il citato art. 36, il rilascio postumo
dell’autorizzazione paesistica da parte dell’autorità preposta alla tutela del
vincolo, non determina l’estinzione del reato paesaggistico (art. 181, D.Lgs. n. 42 del 2004); ciò in quanto tale effetto non è espressamente previsto da alcuna disposizione legislativa avente carattere generale (Cass. n. 29979 del 2019 cit.).
Per l’abuso paesaggistico, l’art. 181, co. 1 quinquies, d.lgs. n. 42 del 2004 prevede una speciale causa estintiva, che è concepita come una misura di carattere premiale limitatamente alle condotte illecite di turbativa del paesaggio  (esclusivamente quelle di cui al primo comma della disposizione)  per coloro che procedono alla rimessione in pristino delle aree o degli immobili soggetti al vincolo paesaggistico, prima che essa venga disposta d’ufficio dall’autorità amministrativa e comunque prima della condanna, mirando il legislatore ad invogliare le condotte di tempestivo recupero della zona sottoposta al vincolo affinché il paesaggio riacquisti il precedente aspetto esteriore con conseguente recupero del suo pregio estetico che costituisce ad un tempo l’oggetto e la ragione della tutela (Cass. n. 2261 del 2021).

Le sanzioni penali

L’art. 27 comma 4 del Dpr 380/2001 stabilisce che gli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria, in caso  di accertata o presunta violazione urbanistico-edilizia, danno immediata comunicazione all’autorità giudiziaria  e al dirigente del competente ufficio comunale, il quale verifica entro trenta giorni la regolarità delle opere e dispone gli atti conseguenti.
I reati in materia edilizia sono di natura contravvenzionale e sono puniti con arresto e ammenda.
Nelle contravvenzioni, il responsabile risponde della propria azione od omissione cosciente e volontaria sia essa dolosa o colposa.
Non è configurabile il tentativo.
Le contravvenzioni possono essere estinte prima del giudizio mediante oblazione, prevista dagli articoli 162 e 162-bis c.p., invece esclusa per i delitti.
Non trova applicazione l’istituto della recidiva, disciplinato dall’art. 99 c.p..
Il reato si perfeziona con l’inizio dell’attività esecutiva.
La persona offesa dal reato è esclusivamente la pubblica amministrazione, che è titolare degli interessi attinenti alla tutela del territorio protetti dalla norma, mentre il soggetto che assume di avere subito un pregiudizio dalla edificazione in abuso non è persona offesa dal reato, ma solo danneggiata (Cass.n. 18913 del 2018; Cass. n. 34366 del 2017).
Le sanzioni penali sono indicate nell’art. 44 del Dpr n. 380/2001che prevede tre ipotesi di illecito, salvo che il fatto costituisca più grave reato e ferme le sanzioni amministrative.
La prima riguarda l’inosservanza delle norme, prescrizioni e modalità esecutive previste dal titolo IV del Dpr 380/2001 , in quanto applicabili, nonché dai regolamenti edilizi, dagli strumenti urbanistici e dal permesso di costruire. La sanzione prevista in questo caso è esclusivamente pecuniaria e consiste nell’ammenda fino a 10.329 euro.
La seconda ipotesi è data dall’esecuzione dei lavori in totale difformità o assenza di permesso di costruire o di prosecuzione dei lavori nonostante vi sia una ordinanza di sospensione. Essa prevede l’arresto fino a due anni e l’ammenda da 5.164 euro a 51.645 euro”. In realtà, rientra in questo ambito anche la realizzazione di interventi non eseguiti in difformità “totale” o in variazione essenziale rispetto al titolo abilitativo nel caso ricorrano violazione delle norme urbanistiche (Cass. n. 46475 del 2017).
La terza è la lottizzazione abusiva di terreni a scopo edilizio. Per questo caso è previsto l’arresto sino a due anni e l’ammenda da 15.493 euro a 51.645 euro. La stessa pena si applica anche nel caso di interventi edilizi nelle zone sottoposte a vincolo storico, artistico, archeologico, paesistico, ambientale, in variazione essenziale, in totale difformità o in assenza del permesso.
La sentenza definitiva del giudice penale che accerta che vi é stata lottizzazione abusiva, dispone la confisca dei terreni, abusivamente lottizzati e delle opere abusivamente costruite. Per effetto della confisca i terreni sono acquisiti di diritto e gratuitamente al patrimonio del comune nel cui territorio é avvenuta la lottizzazione. La sentenza definitiva é titolo per la immediata trascrizione nei registri immobiliari.
Ai sensi dell’art. 31, comma 9, d.p.r. 380 del 2001, per le opere abusive realizzate in assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali, il giudice dopo la sentenza di condanna di reato deve ordinare la demolizione delle opere stesse qualora non sia stata già eseguita. Può subordinare la sospensione condizionale della pena inflitta alla demolizione delle opere eseguite, avendo tale ordine, alla stregua di quanto previsto dall’articolo 165 del codice penale, la funzione di eliminare le conseguenze dannose del reato (Cass. Ord. n. 11236 del 2018).
Nel caso di violazione edilizia in presenza di rilascio di un permesso di costruire illegittimo, la giurisprudenza della S. C. esclude una responsabilità per il reato edilizio di cui all’art. 44, comma primo, lett. b), Dpr 380/2001, in capo al dirigente o responsabile dell’ufficio urbanistica del Comune, titolare di una posizione di garanzia e dunque dell’obbligo di impedire l’evento (Cass. n. 5439/2017). Secondo la S.C., per potere configurare una responsabilità a tale titolo, deve venire in rilievo una omissione (mancata adozione dei provvedimenti interdittivi e cautelari) mentre si deve ritenere al di fuori della previsione normativa l’ipotesi in cui l’agente abbia posto in essere una condotta commissiva. Infatti, come chiarito dalla S.C. con  Sent. n. 17178 del 2020, il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale sono certamente titolari di una posizione di garanzia, che impone di attivarsi per impedire l’evento dannoso, ma la titolarità della posizione di garanzia, discendente dall’art. 27 del d.P.R. n. 380 del 2001, ne determina la responsabilità ai sensi dell’art. 40, comma secondo, cod. pen. in caso di mancata adozione dei provvedimenti interdittivi e cautelari, ma non in caso di condotta commissiva.

Abuso d’ufficio

Per il responsabile dell’Ufficio tecnico, il rilascio di permessi edilizi illegittimi in violazione degli strumenti urbanistici può configurare, nei congrui casi, il reato di abuso di ufficio di cui all’art. 323 cod. pen..
Pronunciandosi in due vicende riguardanti permessi di costruire rilasciati in violazione di legge, la Corte di Cassazione, con Sent. n. 31873 del 2020 e Sent. n. 26834 del 2020, si è soffermata su tale ipotesi di responsabilità e anche sulla rilevanza, in caso di siffatta violazione, della nuova formulazione dell’art. 323 cod. pen., a seguito della modifica introdotta per effetto dell’art. 23 del d.l. 16 luglio 2020, n. 76, conv. dalla I. 11 settembre 2020, n. 120, che ha sostituito le parole «di norme di legge o di regolamento,» con quelle «di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità».
Secondo la S.C., il permesso di costruire, per essere legittimo, deve conformarsi – ai sensi dell’art. 12, comma 1, d.P.R. n. 380 del 2001 – “alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente” e dall’espresso rinvio della norma agli strumenti urbanistici discende che il titolo abilitativo edilizio rilasciato senza rispetto del piano regolatore e degli altri strumenti urbanistici integra, una “violazione di legge”, rilevante ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 323 cod. pen. Ha così affermato che i piani urbanistici non rientrano nella categoria dei regolamenti, come ritenuto da risalente e superato orientamento giurisprudenziale, che nel mutato quadro normativo escluderebbe la fattispecie di abuso in atti di ufficio, ma in quella degli atti amministrativi generali la cui violazione, in conformità dell’indirizzo ermeneutico consolidato, rappresenta solo il presupposto di fatto della violazione della normativa legale in materia urbanistica (art. 12 e 13 del d.P.R. n. 380 del 2001) (tra tante, Sez. 6, n. 11620 del 25/01/2007, Pellegrino, Rv. 236147), normativa a cui deve farsi riferimento, per ritenere concretata la “violazione di legge”, quale dato strutturale della fattispecie delittuosa ex art. 323 cod. pen. anche a seguito della modifica normativa.
Ha poi precisato che la normativa in questione integra anche l’ulteriore requisito richiesto dalla modifica normativa, in quanto si tratta di norme specifiche e per le quali non residuano margini di discrezionalità: l’art. 12 cit. detta i requisiti di legittimità del permesso a costruire e il successivo art 13 cit. detta la disciplina urbanistica che il dirigente del settore è tenuto a rispettare nel rilascio del permesso a costruire.
Ha quindi concluso che deve escludersi che nel caso in esame assuma rilievo la modifica normativa.

Reato permanente

E’ pacifico nella giurisprudenza della S.C. che il reato di costruzione in assenza del necessario preventivo titolo abilitativo, previsto dall’art. 44 d.p.r. n. 380 del 2001 (come già il previgente art. 20 legge 28 febbraio 1985 n. 47), ha natura permanente e la relativa consumazione perdura fino alla cessazione dell’attività che ha dato luogo all’abuso (Cass.n. 19683 del 2018).
Ne deriva che uno stesso abuso edilizio può dar luogo anche a più procedimenti. Infatti, nel caso in cui uno stesso reato permanente sia contestato in relazione a periodi diversi, ancorché parzialmente sovrapposti, in linea generale, non vi è “identità del fatto”, rilevante ai fini dell’operatività del principio del ne bis in idem (divieto del doppio grado di giudizio), poiché in tal caso il fatto, pur essendo naturalisticamente unico, risulta giuridicamente scomponibile in due fatti diversi in considerazione delle diverse circostanze di tempo. Per ciò che riguarda, in particolare, l’operatività del principio con riferimento al reato urbanistico, si è affermato che il divieto di un secondo giudizio opera soltanto con riferimento alla condotta posta in essere nel periodo oggetto di contestazione nei capi di imputazione e non riguarda, invece, l’eventuale protrazione o ripresa della condotta in un periodo successivo, rispetto alla quale rimane impregiudicata l’azione penale e la qualificazione conseguente del fatto (Cass. n. 10486 del 2016).  Qualsiasi intervento effettuato su una costruzione realizzata abusivamente, ancorché l’abuso non sia stato represso, costituisce ripresa dell’attività criminosa originaria, integrante un nuovo reato edilizio; ne consegue che, allorché l’opera abusiva perisca in tutto o in parte, o necessiti di attività manutentive, o di completamento o trasformazione, il proprietario non acquista il diritto di ricostruirla, completarla, trasformarla, ristrutturarla, mantenerla, senza titolo abilitativo, giacché anche gli interventi di trasformazione o manutenzione ordinaria presuppongono che l’edificio sul quale si interviene sia stato costruito legittimamente, in quanti gli interventi ulteriori su immobili abusivi ripetono le caratteristiche di illegittimità dall’opera principale, alla quale ineriscono strutturalmente (Cass., Sez. 3, Sent. n. 12718 del 2019).
La cessazione della permanenza nella contravvenzione di costruzione abusiva può derivare dall’intervento di un provvedimento autoritativo, amministrativo, civile o penale riguardante l’abuso, dalla cd. desistenza volontaria da dimostrare con elementi concreti (es.: risalenza nel tempo dell’ultimo atto edificatorio, volontà di interrompere la costruzione in modo definitivo), ovvero dalla ultimazione dell’opera, ivi comprese le rifiniture esterne ed interne (Cass.n. 31285 del 2019).
In proposito, deve ritenersi “ultimato” solo l’edificio concretamente funzionale che possegga tutti i requisiti di agibilità o abitabilità, di modo che anche il suo utilizzo effettivo, ancorché accompagnato dall’attivazione delle utenze e dalla presenza di persone al suo interno, non è sufficiente per ritenere sussistente l’ultimazione dell’immobile abusivamente realizzato, coincidente generalmente con la conclusione dei lavori di rifinitura interni ed esterni (Cass. n. 48002 del 2014).
Secondo la S.C., la continuazione dei lavori anche di rifinitura, su immobile non ultimato non può che sostanziarsi in altro se non nella prosecuzione di un’attività vietata. La condotta successiva in vista dell’ultimazione dei lavori configura di per sé illecito penale a prescindere dall’entità dell’intervento realizzato e della natura dei lavori.  Non rileva, infatti, la tipologia di lavori né la loro necessità di essere assistiti da titoli autorizzativi e anche l’attività edilizia c.d. libera in prosecuzione di un immobile abusivo, perché senza titolo, integra il reato di costruzione abusiva. (Cass.. n. 25331 del 2019).

Particolare tenuità

L’eliminazione dell’opera abusiva, attraverso la sua demolizione o la rimessione in pristino dello stato dei luoghi determina la cessazione della permanenza dell’illecito penale. In tal caso, è possibile l’applicazione della causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto prevista dall’art. 131 bis c.p., introdotto dal d.lgs. 16 marzo 2015, n. 28 (Cass. n. 50215 del 2015). Con la sentenza la Suprema Corte ha spiegato che anche nel caso dei reati permanenti (come quello di abuso edilizio) è possibile una valutazione della tenuità del fatto. Ha confermato che interventi quali l’eliminazione dell’opera abusiva (ad es. attraverso la sua demolizione), o anche il ripristino dei luoghi, comportano la cessazione della permanenza, e di conseguenza permette la valutazione della causa di non punibilità per tenuità del fatto. Tuttavia, la tenuità dell’offesa è tanto più difficilmente rilevabile quanto più a lungo si sia protratta la permanenza del reato (Cass. n. 16979 del 2022).
Per il principio di retroattività della nuova norma più favorevole rispetto a quella previgente, ne possono beneficiare anche gli illeciti risalenti ad un periodo anteriore.
Ai fini dell’applicazione dell’art. 131-bis cod. pen., la consistenza dell’intervento abusivo (tipologia di intervento, dimensioni e caratteristiche costruttive) costituisce solo uno dei parametri di valutazione (Cass. n. 2893 del 2021).
Riguardo agli aspetti urbanistici, in particolare, assumono rilievo anche altri elementi, quali, ad esempio, la destinazione dell’immobile, l’incidenza sul carico urbanistico, l’eventuale contrasto con gli strumenti urbanistici e l’impossibilità di sanatoria, il mancato rispetto di vincoli (idrogeologici, paesaggistici, ambientali, etc.), l’eventuale collegamento dell’abuso con interventi preesistenti, il rispetto o meno di provvedimenti autoritativi emessi dall’amministrazione competente (ad es. l’ordinanza di demolizione), la totale assenza di titolo abilitativo o il grado di difformità dallo stesso, le modalità di
esecuzione dell’intervento (Cass. n. 5821 del 2019 ; Cass. n. 24396 del 2022).
Secondo la S. C., un indice sintomatico della non particolare tenuità del fatto è dato dalla contestuale violazione di più disposizioni quale conseguenza dell’intervento abusivo, come nel caso in cui siano violate, mediante la realizzazione dell’opera, anche altre disposizioni finalizzate alla tutela di interessi diversi (si pensi alle norme in materia di costruzioni in zone sismiche, di opere in cemento armato, di tutela del paesaggio e dell’ambiente, a quelle relative alla fruizione delle aree demaniali) (Cass. n. 47039 del 2015) (in arg. : Cass. n. 35872 del 2016).
Nel caso di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, va comunque applicata la sanzione amministrativa accessoria dell’ordine di demolizione da parte dell’Autorità amministrativa competente.
Infatti, quando manca una pronunzia di condanna o di patteggiamento, la sanzione amministrativa della demolizione riprende la sua autonomia ed entra nella sfera di competenza dell’Amministrazione Pubblica. “Tale regola è espressa testualmente con riferimento all’istituto della prescrizione, ma ha impronta per cosi dire residuale: è cioè dedicata alle situazioni in cui condanna o proscioglimento nel merito manchino. Essa, dunque, trova razionale applicazione anche nel contesto in esame in cui, appunto, il fatto non è punibile per la sua tenuità e non si fa quindi luogo ad una pronunzia di condanna” (Cass. n. 57118 del 2017). Questi principi sono stati confermati  da Cass. n. 48248 del 2018, secondo la quale gli ordini di rimessione in pristino, stabilito dall’’art. 181, comma 2, d. Lgs. 42/2004, e di demolizione dell’opera, previsto dall’art. 31, comma 9, d.P.R. 380/2001, sono del tutto incompatibili con la pronuncia ai sensi dell’art. 131-bis cod. pen., fermo restando l’autonomo potere-dovere dell’autorità amministrativa ad irrogare le predette sanzioni.
La speciale esimente, in presenza dei relativi presupposti sostanziali, deve ritenersi oggetto di un vaglio obbligatorio ed indefettibile, che prescinde anche da una esplicita richiesta di parte, e può essere rilevata nel giudizio di appello, anche ove non sia stata dedotta come motivo specifico dell’impugnazione, purché non si tratti di appello inammissibile (Cass. Sent. n. 13219 del 2019).

Particolare tenuità prescrizione ed estinzione del reato

La Corte di Cass., Sent. n. 27982 del 2021 ha rimarcato che l’estinzione del reato per prescrizione o per rilascio di sanatoria edilizia deve prevalere sulla causa di non punibilità ex art. 131-bis c.p.
Va considerato che la sentenza resa ai sensi dell’art. 131-bis, c.p., oltre a presupporre un giudizio di colpevolezza, è ostativa al futuro riconoscimento del beneficio e deve essere annotata nel casellario giudiziario, ed è quindi meno favorevole ad una sentenza di proscioglimento per prescrizione.
Ha altresì precisato la S.C. che, conformemente a quanto avviene per la causa omologa dell’estinzione del reato per prescrizione (Sez. 6, n. 11040 del 27/01/2016, Rv. 266505 – 01), anche la causa di estinzione del reato per intervenuto rilascio della sanatoria edilizia è destinata a prevalere, in quanto più favorevole, sulla causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis, cod. pen., in quanto la prima, estinguendo il reato, rappresenta un esito più favorevole per l’imputato, mentre la seconda lascia inalterato l’illecito penale nella sua materialità storica e giuridica.

Messa alla prova

Nei procedimenti penali riguardanti un abuso edilizio è possibile accedere, entro i limiti previsti dalla normativa (articoli 168 bis, ter e quater c.p.), alla c.d. messa alla prova degli imputati adulti. L’istituto,  introdotto con la legge 28 aprile 2014, n. 67, consente all’imputato di sottrarsi alla condanna attraverso condotte volte all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato, il risarcimento del danno ove possibile e la prestazione di lavori di pubblica utilità, di attività di volontariato di rilievo sociale e dell’affidamento al servizio sociale.
L’esito positivo della messa alla prova determina l’estinzione del reato.
Inoltre, l’esito favorevole della messa alla prova incide sull’ordine di demolizione dell’opera edilizia abusiva.
Infatti, l’ingiunzione di demolizione, prevista dall’art. 31, comma 9, d.P.R. n. 380 del 2001, presuppone la pronuncia di una sentenza di condanna. Ad essa non può essere equiparata la declaratoria di estinzione del reato per esito positivo della messa alla prova, ai sensi dell’art. 168-ter cod. pen., che prescinde da un accertamento di penale responsabilità (Cass. n. 39455 del 2017).
Ciò non comporta che l’ordine di demolizione rimanga per sempre precluso dall’intervenuta estinzione del reato, perché esso potrà e dovrà essere irrogato, ricorrendone i presupposti di legge, dalla autorità amministrativa competente.
Va altresì considerato che la messa alla prova comporta la prestazione di condotte volte alla eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato, e, ove possibile, il risarcimento del danno cagionato.
Tenuto conto che la concessione del beneficio è rimessa al potere discrezionale del giudice, la praticabilità della sospensione con messa alla prova nei reati edilizi soggiace ad un controllo, da parte del Giudice, del “puntuale e integrale raggiungimento dell’obiettivo della eliminazione delle conseguenze del reato edilizio, non potendosi ammettere […] che venga dichiarata l’estinzione del reato, per compiuto e positivo esito, in presenza di un abuso non completamente demolito o non integralmente sanato (ricorrendone le condizioni) sul piano urbanistico” (Cass. n. 40451 del 2018). In questo modo, di regola, è implicitamente superata la questione del potere/dovere del giudice di ordinare la demolizione anche a seguito di sentenza ex art. 168-ter cod. pen,

La prescrizione del reato

La prescrizione è una modalità di estinzione definitiva di un reato per effetto del trascorrere di un determinato periodo di tempo.
Trattandosi di contravvenzione il reato si prescrive in 4 anni dall’avvenuta ultimazione dell’intervento o dall’esecuzione di un provvedimento amministrativo, civile, penale che la interrompe, ovvero da una condotta inequivoca che possa considerarsi “desistenza volontaria” (Cass. n. 15138 del 2018;  Cass. n. 32969 del 2005).
La desistenza volontaria sussiste ove sia ravvisabile un comportamento inequivoco dell’agente di cessazione definitiva della condotta illecita (Cass.  n. 49990/2015).
Il termine diventa di 5 anni dal compimento dell’illecito in presenza di un atto interruttivo (es. sequestro del cantiere; v. art. 160 c.pe.).
Al fine di stabilire il giorno a partire dal quale si computa la prescrizione “la valutazione di un’opera edilizia abusiva va effettuata con riferimento al suo complesso, non potendosi considerare separatamente i suoi singoli componenti, così che, in virtù del concetto unitario di costruzione, la stessa può dirsi completata solo ove siano stati terminati i lavori relativi a tutte le parti dell’edificio; conseguentemente la permanenza del reato di costruzione in difetto di concessione cessa con la realizzazione totale dell’opera in ogni sua parte” (Cass. 6.11.2002-29.01.2003 n. 4048).  L’ultimazione dei lavori che segna il dies a quo coincide con la conclusione dei lavori di rifinitura interni ed esterni[ (Cass. n. 44510 del 2019).
Per il principio del “favor rei” nel dubbio sulla data di decorrenza del termine di prescrizione, il momento iniziale va fissato in modo che risulti più favorevole all’imputato (Cass.  n. 7065, 23.02.2012).
Ove non ricorrano i precitati eventi, trattandosi di reato permanente (Cass. SS. UU. n. 17178, 8.05.2002), la prescrizione si verifica decorsi cinque anni dalla sentenza di primo grado.
Grava sull’imputato che voglia giovarsi della causa estintiva della prescrizione, in contrasto o in aggiunta a quanto già risulta in proposito dagli atti di causa, l’onere di allegare gli elementi in suo possesso, dei quali è il solo a potere concretamente disporre, per determinare la data di inizio del decorso del termine di prescrizione ed in particolare, trattandosi di reato edilizio, la data di esecuzione dell’opera incriminata (Cass. n. 12531 del 2020).
Ai fini del computo della prescrizione rileva il momento della lettura del dispositivo della sentenza di condanna e non quello successivo del deposito della stessa; in applicazione del principio, va escluso che il reato possa prescriversi nelle more tra la lettura del dispositivo e il deposito della sentenza (Cass. n. 30673 del 2021).
La decorrenza della prescrizione può essere soggetta a sospensione. Infatti, l’art.45 comma 1 del T.U. dell’edilizia Dpr 380/01 stabilisce che “L’azione penale relativa alle violazioni edilizie rimane sospesa finché non siano stati esauriti i procedimenti amministrativi di sanatoria di cui all’articolo 36”.
Il venir meno del motivo di sospensione comporta la prosecuzione della decorrenza residuale del termine.
In tema di prescrizione un intervento chiarificatore si è avuto con la Sent. n. 15427 del 2016 S.U. della Corte di Cassazione.
Le questioni di diritto sulle quali si sono pronunciate le Sezioni Unite della S. C. sono le seguenti:
– “se la sospensione del processo, prevista nel caso di presentazione della istanza di ‘accertamento di conformità’, ex art. 36 d.P.R. n. 380 del 2001 (già art. 13 legge n. 47 del 1985), debba essere considerata ai fini del computo dei termini di prescrizione del reato edilizio”;
– “se, in caso di sospensione del processo disposta su richiesta dell’imputato o del suo difensore oltre il termine previsto per la formazione del silenzio-rifiuto ex art. 36 d.P.R. cit., operi la sospensione del corso della prescrizione a norma dell’art. 159, primo comma, n. 3, cod. pen.“.
La S. C. ha deciso che ai quesiti deve rispondersi  affermativamente.
Ha precisato che le ipotesi della sospensione ai sensi del combinato disposto degli artt. 36 e 45 d.P.R. n. 380/01 e quella della sospensione conseguente al rinvio su istanza di parte devono tenersi distinte.
L’art. 45 d.P.R. n. 380/01 stabilisce che l’azione penale relativa alle violazioni edilizie rimane sospesa finché non siano stati esauriti i procedimenti amministrativi di sanatoria di cui all’art. 36 e tale articolo, all’ultimo comma, dispone che sulla richiesta di sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale deve pronunciarsi entro sessanta giorni dalla presentazione della domanda, poiché, decorso tale termine, la domanda si intende rifiutata.
Nel primo caso, vanno applicati i principi che presuppongono, ai fini della legittimità della sospensione, la previa verifica, da parte del giudice, della oggettiva sussistenza dei presupposti di legge.
A fronte di una situazione che evidenzi, pacificamente e senza necessità di specifici accertamenti, l’assenza dei requisiti per l’accoglimento della domanda, come, ad esempio, in caso di plateale contrasto delle opere con le previsioni degli strumenti urbanistici, la sospensione, per il periodo di sessanta giorni indicato dalla legge per la definizione del procedimento amministrativo (o per quello, superiore, eventualmente indicato nel provvedimento che la dispone), non potrà operare e, se disposta comunque dal giudice, autonomamente e senza richiesta di parte, non potrà produrre effetti di sospensione dei termini di prescrizione.
Avranno in ogni caso effetti sospensivi del corso della sospensione i rinvii disposti in accoglimento di una richiesta dell’imputato o del suo difensore.
In caso di rinvio su richiesta dell’imputato o del suo difensore, ai fini della sospensione dei termini di prescrizione operano i principi generali, i quali, a differenza di quanto avviene con riguardo alla sospensione prevista dal combinato disposto degli artt. 36 e 45 d.P.R. n. 380/2001, avranno effetto anche con riferimento ai reati eventualmente concorrenti con la contravvenzione di cui all’art. 44 del d.P.R. n. 380/2001.